Adozione

“Portatemi via”: storia di una speciale adozione

povertà

di Emanuela Pandolfi

Quella che vi raccontiamo è una storia di adozione un po’ al contrario. Non dalla parte di chi ha accolto ma narrata da chi ha vissuto il dolore dell’abbandono, la sofferenza nelle avversità della vita e solo alla soglia dei 18 anni ha ricevuto il dono di una famiglia.

La lamiera che faceva da soffitto anche quella notte non aveva impedito al gelo e alla pioggia di entrare nel capanno dove la ragazza aveva dormito. I vestiti umidi, piccole pozzanghere sul pavimento grezzo e un’aria pesante per le stanze dove avevano riposato in tanti, troppi. Marianna si aggiustava i capelli, indossava qualcosa di piccola misura, benché avesse già dieci anni, e con il cugino maggiore insieme agli altri ragazzini usciva dal campo nomadi all’ombra del Vesuvio e si dirigevano verso la stazione ferroviaria. Da lì raggiungevano la più vicina città, che non fosse già sotto il dominio di qualche altro clan, per iniziare la giornata di lavoro. Di mattina erano le donne che chiedevano l’elemosina accovacciate a terra con i bimbi avvolti sul grembo. Di pomeriggio fino a sera, invece, toccava a loro, ai ragazzini della famiglia, muniti di un fascio di rose ad avvicinarsi alle coppie che passeggiavano per venderne qualcuna a buon prezzo. Intanto però tutti puntavano sugli occhi azzurri di Marianna e sul suo aspetto di bambina per suscitare maggiore tenerezza e quindi maggiore elemosina. E funzionava! Era la gallina dalle uova d’oro. A questo avrà subito pensato sua zia quando, affidatale dal padre, erano partite dalla Romania per raggiungere l’Italia.

I capelli biondi un po’ arruffati, gli occhi chiari e la statura minuta le facevano guadagnare a volte anche cinquanta euro. Il cugino maggiore era sempre all’angolo della strada a controllare che nessuno diventasse troppo intimo o che da sola scappasse. Gli anziani della famiglia pretendevano sempre più da lei e se qualche giorno la pioggia aveva intimorito per una passeggiata al corso e non c’era nessuno a cui vendere i fiori allora era il finimondo. Un giorno, dopo le ennesime percosse della zia, Marianna era convinta a fare un sacco di soldi. Voleva evitare tutta la trafila di insulti e parolacce, voleva anche lavorare – ormai non faceva altro da due anni – ma voleva riscattarsi. Proprio quel giorno una coppia di fidanzatini rifiuta le rose e chiede a Marianna: “Che cosa ti serve veramente? Tanto i soldi lo sappiamo che non rimangono a te”. È quella la sua occasione, è quello il momento propizio. “Portatemi via” dice con le lacrime agli occhi. Escogita con i due il momento opportuno, quando il cugino è impegnato a controllare gli altri ragazzini. Così la portano via e si dirigono al vicino Comando dei Carabinieri. Marianna viene assalita da un timore ancora maggiore. Lei in fondo, senza sua zia, qui in Italia non è nessuno. Non ricorda la città in cui è nata, non ha documenti, non ha con sé ne vestiti ne cibo.

Nel giro di poche ore viene affidata ad una casa-famiglia dove trova una coppia ad aprirle la porta di casa. Qui ha finalmente una cameretta tutta per lei, degli abiti puliti, un pranzo assicurato senza doversi preoccupare di lavorare. Inizia, faticosamente, anche la scuola media. Impara a leggere e scrivere in italiano fluentemente, un po’ meno riesce con la matematica. Tutto è sereno, inizia a stringere tante nuove amicizie e l’allegria diventa il suo tratto distintivo. Resta per tre anni presso questa casa-famiglia e il Giudice del Tribunale per i minorenni inizia ad abbinarle alcune coppie. Ciascuna coppia era o troppo anziana o troppo esigente: credevano di trovare una bambina da poter accudire e invece Marianna a quattordici anni era un vulcano di emozioni!

La prima coppia fece un lungo viaggio, attraversando mezzo stivale per raggiungerla. Bastarono pochi incontri e cinque giorni di convivenza per far emergere tutto il dolore che la coppia aveva accumulato con la morte di due figli naturali. Era stata la psicologa a suggerire loro di aprirsi alla genitorialità, per elaborare il lutto. Non si era però rivelata una scelta saggia poiché la loro casa era ancora un tempio di ricordi dolorosi dove la stessa Marianna faceva fatica a muoversi.

Dopo qualche tempo una coppia, che già aveva adottato un ragazzo, si apre alla nuova accoglienza. Marianna lascia la casa-famiglia con un nodo alla gola sperando di aver trovato una volta e per sempre il suo posto nel mondo. Nella nuova famiglia resta per più di un anno e mezzo, ma tra litigi e incomprensioni Marianna continua a sentirsi sempre un ospite e mai una figlia. La troppa differenza d’età, i caratteri severi che facevano crollare ogni possibilità di mediazione, le voci di paese che amplificavano tutto… insomma un vero martirio. Abbandonati al loro destino, nessun assistente sociale, nessuno psicologo, nessuno dal Tribunale che fosse interessato a quanto stava accadendo. Da una parte due genitori stanchi e scoraggiati che non avevano più l’entusiasmo di affrontare la sfida educativa affidatagli, dall’altra una ragazzina – ormai sedicenne – che non aveva più alcuna fiducia nel mondo adulto e si rifugiava solo tra i coetanei creando non pochi scompigli.

Arriva allora la scelta del giudice di trasferire Marianna in un’altra struttura di accoglienza, una casa gestita però da operatori che danno vitto e alloggio mettendo insieme mamme con bambini, donne che hanno ricevuto violenza, ragazzi che sono stati lasciati alla vita da strada, immigrati che hanno bisogno di ricovero. Un concentrato troppo denso di vite impregnate di sofferenza che messe tutte insieme, senza l’adeguata attenzione per ciascuna problematica, esplode in continui liti, furti reciproci di quei pochi oggetti che possedevano. Marianna sperimenta una vera lotta alla sopravvivenza, avverte di essere stata affidata a questa struttura solo per punizione! È costretta a combattere con ogni mezzo possibile, pur di preservarsi. E il paragone con l’accoglienza ricevuta nella prima casa-famiglia le fa rimpiangere di essere arrivata così in basso.

Si rimette in contatto, allora, con la prima coppia che l’aveva accolta e supplica di essere ospitata. Ma la decisione spetta solo al Tribunale che intanto le concede solo sporadiche visite quando ci sono le vacanze scolastiche. È in questo frangente che Marianna conosce Linda, una sarta professionista che nel tempo libero è volontaria della casa-famiglia. Linda e il marito Emilio sono sposati da circa venti anni, non hanno avuto bambini e da tanto tempo erano in attesa di diventare genitori adottivi. L’età inoltrata aveva ormai fatto perdere ogni speranza di essere chiamati per un abbinamento e allora si erano dedicati completamente al volontariato. Marianna fa presto breccia nel cuore di Linda: sapere di una ragazzina prossima ai 17 anni che ancora viveva sballottata tra una famiglia affidataria e una struttura di accoglienza la faceva soffrire particolarmente, proprio perché aveva consapevolezza che di coppie disposte ad aprire la propria casa ce n’erano… come ad esempio la sua! C’era un altro particolare, Marianna era prossima alla maggiore età e quindi da minore adottabile sarebbe risultata presto un’adulta irregolarmente presente sul territorio italiano.

Linda ne parla con il marito e decidono di presentarsi loro stessi al Tribunale dei minori per proporsi come famiglia. Non poche difficoltà affrontano: la severità della burocrazia, le domande insistenti degli avvocati che sospettavano di un accordo (sic!), ma in fondo loro volevano solo dare l’opportunità a Marianna di essere parte di una famiglia, di sentirsi ancora figlia amata e accudita. Emilio e Linda diventano così i suoi genitori, generando ogni giorno con sofferenza questa figlia del cuore.

Oggi Marianna ha ventuno anni, si è diplomata e ha iniziato anche a lavorare. La catena di dolore si è interrotta. Era stata condannata al peggior destino ma ha trovato lungo la sua giovane esistenza degli angeli che l’hanno salvata e ora ha tutta la vita davanti.




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