Giornata della Memoria

Oltre il filo spinato…

di Ida Giangrande

Cosa è rimasto dell’orrore nazista? Una serie di film d’effetto? Nomi, numeri e simboli di una pagina della nostra storia che vorremmo strappare? Oppure il solco profondo di una ferita che, ancora oggi, non vuole rimarginare? Per non dimenticare le vittime dell’Olocausto.

C’è ancora speranza di resurrezione per la terra intorno ad Auschwitz? Campi irrigati di sangue, circondati da un filo spinato dietro il quale sembra ancora di vedere quei volti emaciati e scheletrici.

Erano ebrei. Erano uomini, donne e bambini che hanno pagato un prezzo alto, troppo alto. Come sarà stato il volto dei soldati che aprendo per la prima volta i cancelli di quel campo, rivelarono al mondo le atrocità commesse su gente inerme. I primi ad entrare ad Auschwitz sul finire della guerra, furono le truppe sovietiche della 60ª Armata del “1º Fronte ucraino” del maresciallo Ivan Konev. Di fronte a loro solo devastazione e silenzio. Un silenzio irreale che stride sulle rotaie d’acciaio come il rantolo della morte che si appresta per quanti devono averla attesa e invocata come liberatrice. Le truppe tedesche erano scappate, portando con sé i superstiti ancora in forze. Si erano lasciati alle spalle la fotografia sbiadita dell’umanità schiavizzata: cumuli di corpi senza vita, strumenti di annientamento ancora in funzione.

Era il 27 gennaio del 1945, i soldati del maresciallo Konev entrarono in quel campo abbandonato. Prima di quel momento nessuno sapeva cosa veramente si faceva oltre quel filo spinato. Tutti credevano che si trattava di campi lavoro.

Fu così che l’orrore divenne una pagina di storia di cui vergognarsi, piangere e chiedere perdono. Una pagina di storia che vorremmo poter cancellare e che invece siamo costretti a ricordare, per non dimenticare che le frontiere dell’odio possono condurre l’umanità a trasformare un fertile campo da arare di buoni frutti, in un lager di tortura e sterminio.

Arbeit macht frei” c’è scritto sul cancello d’entrata di Auschwitz come di altri campi di concentramento. Dal tedesco significa: “Il lavoro rende liberi”. Rappresentò la geniale maschera dietro la quale i nazisti nascosero il loro folle piano di sterminio. La frase è tratta dal titolo di un romanzo del 1872 dello scrittore tedesco Lorenz Diefenbach.

Jan Liwacz, prigioniero polacco non ebreo numero 1010 entrato ad Auschwitz il 20 giugno del 1940, venne incaricato di forgiare quella macabra scritta. Era un fabbro di professione ed era a capo della Schlosserei, l’officina che fabbricava lampioni, inferriate e oggetti in metallo. Nel costruire la scritta, Liwacz decise di saldare la lettera “B” della parola “Arbeit” sottosopra, per indicare moralmente il proprio dissenso e forse per lanciare un SOS disperato al resto del mondo. Ma il mondo era troppo impegnato a combattere e a scavare fosse per i soldati lasciati sul selciato.

Cosa ci ha insegnato dunque la Seconda Guerra Mondiale, se ancora oggi parliamo di guerra atomica, costruiamo armi di distruzione di massa, e riteniamo di poter essere giustizieri e giudici della vita altrui? Se ancora oggi le parole “terrore” e “razza” fanno spesso capolino nei nostri discorsi?

Auschwitz è l’anima della guerra. Il simbolo della barbarie. Il tempo sembra esseri fermato lì in una specie di limbo. Il sole non riesce a penetrare le pareti di cemento, l’odore della vita non si sostituisce al puzzo della morte. Insieme agli spifferi di vento che passano oltre le prigioni, sembra di sentire ancora il lamento di quanti non avevano forze per urlare.

“Noi testimoni saremo dimenticati come i migranti nel mare”, ha detto Liliana Segre, reduce dell’Olocausto e sopravvissuta ai campi di concentramento, che ha dedicato la sua esistenza a parlare al cuore dei giovani di rispetto, tolleranza, gusto e amore per la vita. Facciamo che non sia così.




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