Vedovanza

di Assunta Scialdone

Il matrimonio termina con la morte oppure la oltrepassa?

6 Dicembre 2018

matrimonio

Primo appuntamento con il nuovo blog di Punto Famiglia. Un percorso che, avvalendosi delle 133 catechesi sull’amore umano di san Giovanni Paolo II, vuole interrogarsi sulla possibile continuità, in “forma nuova”, del matrimonio post-mortem.

“L’amore non scorre insieme alla morte, l’oltrepassa ma scorre oltre”. Con queste lapidarie parole, K. Wojtyła in Pietra di Luce, introduceva il tema che affronteremo in questo blog. Già nel 1960, in Amore e responsabilità, l’allora vescovo Wojtyła aveva affermato: “Benchè il rimaritarsi dopo la morte di uno dei coniugi sia giustificato e ammesso, il fatto di conservare la vedovanza è degno dei più grandi elogi, perché così viene espressa nel modo migliore l’unione con la persona scomparsa. Il valore della persona non è effimero, e l’unione spirituale può e dovrebbe durare anche quando è cessata quella dei corpi”.

Inizia oggi un percorso che, avvalendosi della ricchezza racchiusa nelle 133 catechesi sull’amore umano di san Giovanni Paolo II, vuole interrogarsi sulla possibile continuità, in “forma nuova”, del matrimonio post-mortem, dopo la morte. La domanda a cui si tenterà di rispondere è la seguente: il sacramento del matrimonio, che lega due sposi cristiani in un’unione indissolubile, termina effettivamente alla morte di uno dei coniugi oppure, oltrepassandola, dura anche nel Regno dei cieli, magari con modalità nuove?

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In seguito, in una sua catechesi, san Giovanni Paolo II sembra lasciare uno spazio aperto all’approfondimento dei teologi sulla nostra questione. Il Santo Padre, definendo «la risurrezione come restituzione alla vera vita della corporeità umana che fu assoggettata alla morte nella sua fase temporale», afferma che nelle parole “non prenderanno moglie né marito” (Mc 12, 19-28, brano nel quale è riportato il dialogo tra Gesù ed i Sadducei a proposito della vita dopo la morte e della condizione degli sposati) è racchiusa la fine della storia terrena legata al matrimonio e alla procreazione, ma svelano anche il nuovo significato del corpo. Si tratta del suo significato sponsale e verginale che è già presente in ogni essere umano ed in special modo nell’amore degli sposi cristiani. Nella catechesi LXVIII san Giovanni Paolo II afferma che l’uomo risorto con un corpo glorioso conserverà la sua soggettività non più imperfetta ma perfetta. Essa gli permetterà di accogliere il Dio in sé e nello stesso tempo di donarsi a Lui che è superiore ad ogni esperienza terrena. In tale dono reciproco l’uomo non verrà annientato in Dio ma, attraverso la comunione dei santi, rivivrà, in forma nuova, le relazioni importanti che lo hanno accompagnato lungo la vita terrena. È proprio a partire da questa nuova forma di “rivivere” le relazioni terrene in Dio che si fonda la domanda sulla continuità della relazione coniugale fondamentale e caratterizzante dell’intera vita terrena.

«Quella unità nella umanità che è stata costituita nel principio genesiaco (a cui Cristo si riferisce quando parla di questioni riguardanti il matrimonio) e sottolineata dalle parole “l’uomo (…) si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” non verrà distrutta ma resa perfetta nell’altro mondo attraverso una nuova modalità della percezione del corpo e della verità integrale sull’uomo».

Sembra che l’uomo, nel mondo futuro, «nel proprio corpo ritroverà il compimento che portava in sé perennemente e storicamente (…) come eredità, compito ed obiettivo, come contenuto dell’ethos».

Nella risurrezione dei morti sarà importante il significato sponsale e verginale del corpo, a cui Cristo fa continuamente riferimento, presente in ogni essere umano fin dal principio. Dunque è di primaria importanza comprendere fino in fondo tale verità sull’uomo e, per fare ciò, bisogna rispondere al grande interrogativo dell’uomo: “Chi sono?”. La risposta a tale domanda è da ricercare nel cosiddetto principio genesiaco indicatoci dallo stesso Cristo, quando è chiamato a rispondere a proposito dell’atto di ripudio (Mt 19). Il Maestro risponde alla domanda partendo da quella che in termini moderni viene detta “questione antropologica”, ponendo altri interrogativi sulla condizione dell’uomo, prima e dopo il peccato originale, e aprendo, così, la strada al futuro di redenzione e risurrezione. Il Santo Padre, nelle catechesi, cerca di costruire da questo principio “un’antropologia teologica del corpo” o, potremmo dire, una visione “integrale dell’uomo” fatta di corpo e spirito. Senza una tale visione integrale non si può dare risposta agli interrogativi che sono comuni a temi quali il matrimonio, la verginità consacrata, la procreazione, la spiritualità e quindi la santità e la mistica.

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San Giovanni Paolo II propone, quindi, una riflessione sull’amore umano in quanto via privilegiata che Dio ha scelto per rivelare se stesso all’uomo, chiamandolo in questo amore ad una comunione nella vita Trinitaria. Per il Pontefice, l’incontro personale dell’uomo con il Mistero avviene nell’esperienza dell’amore. Nel caso degli sposi cristiani tale incontro viene rafforzato all’interno dell’amore coniugale. La mentalità d’oggi tende a vedere il Mistero e quindi la Fede come un qualcosa di aggregato all’esistenza quotidiana, come se si trattasse di un elemento decorativo dal quale si potrebbe anche prescindere. È come se la vita reale rimanesse ancorata alle cose terrene mentre la fede e quindi la vita spirituale restasse assorta nel contemplare il cielo. Se il nostro punto di partenza, però, è rispondere alla domanda esistenziale dell’uomo, la risposta è da ricercare nello stupore che l’uomo prova dinanzi alla rivelazione dell’amore. San Giovanni Paolo II partendo, quindi, dall’esperienza dell’amore vuole evitare l’isolamento ed il soggettivismo in cui può cadere l’uomo contemporaneo. L’uomo da solo, cioè senza l’incontro gratuito con la persona amata e senza la sua risposta libera, non può generare l’amore. Solo l’amore, nel quale l’uomo trova la sua identità, lo apre all’incontro con l’altro conducendolo verso Dio, verso il Trascendente. La rivelazione dell’amore avviene proprio nel pieno della nostra vita quotidiana, nel mondo, a contatto con gli altri. Il Mistero non è distante da noi, ma può essere incontrato nel quotidiano. Nella sua prima enciclica, il Santo Padre ricordava: «L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore».

Una riflessione di don Sergio Nicolli, già direttore dell’ufficio nazionale della C.E.I. per la pastorale della famiglia, ben riassume lo spirito del percorso che s’intende intraprendere:

«Quando il papa Giovanni Paolo II, nella lettera alle famiglie del 1994, ha detto che “la famiglia è la via della Chiesa”, non credo che volesse dire: poiché la famiglia è ridotta a pezzi, la Chiesa deve concentrare tutte le sue risorse sulla famiglia per recuperarne qualcosa. Voleva dire piuttosto che la Chiesa, per riscoprire la sua natura più autentica e per ritrovare la sua missione deve in qualche modo “ritornare a casa” (…) Più volte gli Atti degli Apostoli ricordano che nelle case i primi cristiani si ritrovano per pregare, per spezzare il pane e per condividere l’ascolto della Parola. L’impronta della Chiesa dei primi secoli è fortemente familiare: è una Chiesa che è quasi priva di organizzazione ma che è ricca di comunione; è una Chiesa che ha una scarsa efficienza organizzativa, ma ha una grande efficacia testimoniante perché è “una Chiesa di casa”, vicina alla vita quotidiana delle persone».

Proprio in quest’ottica si andrà a rileggere quanto sull’argomento è già patrimonio della storia della Chiesa a partire dalle pratiche e dagli scritti delle Chiese e dei Padri dei primi secoli. Sarà molto interessante cogliere l’estrema contiguità e la straordinaria continuità della riflessione di san Giovanni Paolo II rispetto a ciò che era prassi e fede nei primi secoli. Sarà una salita verso la spiritualità incarnata quotidianamente ed eterna. Siamo pronti!




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