Vita

Noia: “Quanta gente sa che i primi 8 giorni della nostra vita sono importantissimi per il futuro della persona umana fino all’età adulta?”

di Ida Giangrande

Ha una serie di titoli che distinguono il suo profilo. Tra le altre cose è Direttore della Hospice Perinatale del Policlinico Gemelli di Roma e docente di Medicina prenatale presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia. Soprattutto è un medico cristiano sul modello di San Giuseppe Moscati e Santa Teresa di Gesù Bambino. Intervista al professor Giuseppe Noia.

Professor Noia lei è un professionista affermato nel campo della ginecologia. Il suo è un mestiere delicato, a diretto contatto con la vita che sboccia. Vuole raccontarci come ha maturato la sensibilità che oggi la distingue rispetto a molti dei suoi colleghi?

La maturazione di questo approccio relazionale con il mondo della vita nascente si è creata negli anni grazie all’impatto con persone sante che mi hanno guidato spiritualmente ma grazie anche ai miei genitori che hanno istillato in me la tendenza a ricominciare sempre da capo, a risalire la corrente, ad essere ambizioso ma per fare il bene. Ho sempre avuto il desiderio personale e profondo di fare qualcosa che mi facesse ricordare non per una gloria fondata sull’effimero ma per una fama che facesse riflettere la gente su quanto amore Dio ci ha dato incarnandosi e su quanto amore ha diffuso offrendo la Sua vita per ciascuno di noi. La mia conversione è avvenuta nel maggio 1974, a 23 anni, nella Chiesa dei Martiri Canadesi a Roma, dove il mio cambiamento interiore ebbe il suo epilogo in un lungo pianto dirotto con forti gemiti e lacrime abbondanti. Accadde dopo aver sentito una canzone, prima della Comunione, già conosciuta da me e penso da tutto il popolo cristiano: “Dio si è fatto come noi per farci come Lui”. Pensare che Dio si facesse come noi era un paradosso incredibile per la mia ragione e per il mio vivere di allora. Dissi una serie di “no” ad alta voce ma poi cedetti e mi abbandonai a un fiume di lacrime, mentre una grande sensazione di dolcezza mi invadeva. Dopo questa esperienza incontrai un figlio spirituale di San Pio da Pietrelcina, don Giuseppe De Santis. Divenuto il mio Padre Spirituale, mi indicava sempre come modello San Giuseppe Moscati e Santa Teresina del Bambino Gesù con la sua piccola via. Il Primo perché sosteneva la fede con la preghiera e il sacrificio (la filosofia delle ginocchia); la seconda perché ci faceva vedeva la grandezza di Dio nelle piccole cose quotidiane (l’umiltà di Dio).

Tra i numerosi titoli che descrivono il suo profilo professionale mi colpisce leggere “Docente di Medicina prenatale presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia”. Vuole gentilmente parlarci degli strumenti di diagnosi prenatale?

La diagnosi prenatale è una disciplina all’interno dell’ostetricia e della ginecologia che negli ultimi 40 anni è diventata un campo di indagini diagnostiche e terapeutiche estremamente importanti. Le tecnologie non invasive (ecografie, eco cardiografia, velocimetria doppler, cardiotocografia) e invasive ecoguidate (amniocentesi, villocentesi, cordocentesi, paracentesi, torocentesi, vescicocentesi, amnio infusione e amnio riduzione, trasfusioni intrauterine intravascolari, aspirazioni di cisti ovarica fetali, trattamenti palliativi clinici e analgesici del feto) sono conoscenze incredibili che non mirano a fare accanimento terapeutico ma a supportare le capacità gestazionali compromesse di pazienti con gravi patologie fetali. Come tutte le conoscenze la diagnosi prenatale va analizzata nei suoi fini e nei suoi mezzi. Se il fine della diagnosi prenatale, così come si fa con l’adulto, è quello di diagnosticare una problematica per poi curarla, essa si configura come una meravigliosa attuazione della scienza prenatale e della evoluzione della ricerca clinica verso il feto considerato un paziente a tutti gli effetti. Ma se il fine è quello di vedere se il feto è malato o ha qualche anomalia per poi potergli togliere la vita, questo è assolutamente da proscrivere, da rifiutare, perché la scienza prenatale deve dare la vita, deve dare speranza, non morte e disperazione. Madre Teresa diceva “fai il bene (l’obiettivo) e fallo bene (i mezzi)”. Un altro esempio è quello della sterilità delle coppie che cercano giustamente di avere un figlio. Desiderare di avere un figlio è una cosa bella, umanamente piena e santa (l’obiettivo) ma se i mezzi (le tecniche di procreazione artificiale portano alla perdita del 91% degli embrioni concepiti in vitro (dati del Ministero della Salute), allora questo non è proponibile! Non si può ottenere un bene (il figlio) se i mezzi per ottenerlo (le tecniche) sono occisive. Come si vede la stessa conoscenza (vedi diagnosi prenatale o tecniche di procreazione artificiale) può essere usata pro o contro la persona umana: ecco che interviene il discernimento etico (la bioetica) che ci aiuta a capire che tutto ciò che è contro la persona umana porta desolazione e morte fisica e spirituale. Non dobbiamo avere paura di Galileo (la scienza) ma COME viene usato Galileo!

Alcuni di questi strumenti di diagnosi prenatale esistevano già al tempo della legge 194? Se sì, quali?

L’evoluzione storica degli strumenti di diagnosi prenatale dalla legge 194 in poi, come tutte le tecnologie scientifiche si è molto amplificata. Tuttavia, ha subito un trend sempre più sofisticato finalizzato a individuare feti malati sempre più precocemente con lo scopo di indirizzare le coppie alla interruzione volontaria. Questo trend è solcato dalla falsa idea e dalla falsa compassione che quanto più piccolo e precoce sia l’embrione e l’aborto volontario, tanto più piccolo è il trauma per le donne. C’è una grande menzogna scientifica e umana in questa tesi. Sono proprio le donne, le dirette testimoni di fortissime lacerazioni psicologiche che parlano, si raccontano e dimostrano a sé e al mondo medico che la sofferenza della perdita del figlio non è proporzionale al peso in grammi o in centimetri dell’embrione perduto ma è, in maniera esponenziale correlata alla perdita della presenza del figlio. Per cui si può illudere e ci si può illudere di anticipare l’aborto volontario quanto si vuole ma non si può essere temporalmente più precoci dell’accoglienza che la madre fa del proprio figlio sia sul piano fisico che su quello biologico, psicologico e spirituale. Quante menzogne gravitano intorno all’interruzione volontaria della gravidanza. Un secondo aspetto è che l’evoluzione delle tecnologie della diagnosi prenatale ha fatto scelte che miravano sempre più alla tutela fisica della madre e questo è senz’altro un aspetto positivo. Infatti abbiamo osservato un aumento esponenziale delle diagnosi non invasive quasi sempre rappresentate dagli screenings e una riduzione altrettanto grande di quelle invasive ma con una precisa idea di selezione: diagnosi prenatali sempre più sicure ma sempre più finalizzate a cogliere anomalie genetiche strutturali quanto più precoci possibili, senza impegnarsi in un sforzo scientifico e tecnico, altrettanto importante, per cercare di curare già prenatalmente queste anomalie.  Per la verità una serie di approcci di terapie prenatali sono state fatte e altre sono in progress ma per le condizioni che molto precocemente individuano dei feti, dei bambini che sono incompatibili con la vita, la scienza prenatale si è arresa. In questi casi non si fa una diagnosi ma si da una sentenza di morte! Si crede che per quella vita fragile non ci sia più niente da fare! Ma non è così. Da 40 anni il gruppo dell’Hospice Perinatale del Gemelli (una rete di luoghi di assistenza e di un gruppo interdisciplinare di medici altamente specializzati dove si aggrega il Telefono Rosso per la prevenzione delle malformazioni, il Day Hospital Ostetrico per l’esecuzione di terapie fetali invasive e non invasive o trattamenti palliativi pre-natali o post-natali quando non è possibile fare cure definitive, il reparto di patologia ostetrica per la ospedalizzazione di casi curabili e non curabili, la sala parto e la neonatologia) dimostra con evidenza numerica e rigore scientifico un elevato successo clinico e che quindi c’è tantissimo da fare. 8.000 interventi di terapie fetali con il 60% di buona evoluzione clinica e figli in braccio, 1.200 trattamenti palliativi prenatali, affiancamento di 1000 famiglie con il proprio figlio incompatibile con la vita, consulenze scientificamente corrette che hanno cambiato il destino, dalla morte alla vita di 3.000 bambini, 73.000 consulenze telefoniche che hanno tranquillizzato il 90% delle coppie. Questi numeri, queste percentuali vengono fatte conoscere non per una esibizione trionfalistica ma per dimostrare che la scienza prenatale, se opportunamente usata, è uno strumento incredibile per dare speranza e certezza procreativa a famiglie gravate da diagnosi prenatali infauste.

Cosa hanno svelato tali strumenti sulla vita intrauterina?

Gli strumenti di conoscenza e gli studi sulla vita prenatale hanno svelato tante cose. Innanzitutto che la relazione figlio madre è precocissima, come già ho detto, è biunivoca, addirittura prima dell’impianto dell’embrione. Durante questi 8 giorni c’è un intenso colloquio tra madre e figlio (Cross Talk) che è fondamentale perché la gravidanza vada avanti e non si abbia un aborto spontaneo, né si configurino le basi biologiche per la nascita di malattie che poi si manifestano nell’infanzia, nell’adolescenza e nella vita adulta. Quanta gente è a conoscenza che i primi 8 giorno della nostra vita sono importantissimi per il futuro della persona umana fino all’età adulta? Silenziare o cercare di silenziare l’importanza dei primi 8 giorni è una manipolazione scientifica che tende maldestramente di sdoganare sul piano etico evidenze scientifiche ben consolidate: l’effetto abortivo della pillola del giorno dopo e dei 5 giorni dopo, la diagnosi preimpianto con la perdita del 92% degli embrioni (dati del Ministero della Sanità) e la distruzione di embrioni per l’uso di staminali embrionali ai fini di ricerche sullo stesso. Man mano che passano le settimane la relazione feto madre diventa più intensa e dimostra che il feto non è passivo ma partecipa attivamente allo svolgersi del file genetico, nella strutturazione della sensorialità, della relazione psicodinamica con la madre dalla quale riceve ossigeno e nutrizionali ma diventa esso stesso medico della madre inviando cellule staminali guaritrici di diversi processi patologici moderni come ha dimostrato Diana Bianchi negli ultimi 10 anni. Madre e figlio organizzano l’unità feto placentare che alla base del proseguo della gravidanza, si sviluppano fasi neurocereblari del feto relazionale alla vita quotidiana della madre (abitudini alimentari, viaggi, emozioni, stress) per le cui condizioni tutto lo psichismo fetale ne risente. La madre riceve gratificazione psicologica per la presenza del figlio, conferme sul suo vissuto di donna e di madre mentre il figlio viene aiutato dalla madre nelle fasi del travaglio attivo perché essa produce sostanze che lo difendono da eventuali insulti ipo ossigenativi. È una vera sinfonia di amore e attenzioni reciproche dove il protagonismo dell’embrione si esalta nel partecipare all’empatia percettiva della madre e questo avviene soprattutto quando vi sono condizioni di patologia “l’embrione è un attivo direttore di orchestra del suo impianto e del suo destino !”(Editoriale del 2000 del British Medical Journal)

 

Possiamo dire che le conoscenze del mondo scientifico in materia di vita embrionale erano sostanzialmente errate all’epoca della 194?

Le conoscenze sulla simbiosi materno fetale e sul protagonismo dell’embrione 40 anni fa non solo erano sicuramente errate ma soprattutto non si aveva affatto prontezza della traduzione scientifica (fatta nei decenni successivi) di ciò che l’uomo vede e di cui fa esperienza diretta sin da quando è apparso sulla terra. La realtà di figlio nella generazione umana è qualcosa di fantastico che non si basa solo sui legami di sangue ma si disvela dal particolare linguaggio relazionale tra il figlio e la madre. Esso pone le basi nei 9 mesi di gestazioni ma non si cancella mai più, neanche tagliando il cordone ombelicale. È un po’ l’esemplificazione dell’indelebile memoria che ci portiamo tutti dentro, un destino all’immortalità legato alla chiamata all’esistenza in un corpo di donna che fa scrivere a Tagore: “Ogni bimbo che nasce ci ricorda che Dio non si è stancato dell’uomo”. Che fa scrivere ad Hanna Harente: “Gli esseri umani, anche se devono morire non nascono per morire ma per incominciare” e fa scrivere a Chiara Corbella: “Siamo nati e non moriremo mai più”. Tutto questo mostra la tenerezza di Dio, l’umiltà di Dio, “Dio si è fatto come noi per farci come lui”, la presenza di Dio nell’esistenza naturale e soprannaturale di ogni creatura vivente che fa dire a S. Ireneo: “La gloria di Dio è l’uomo vivente”.

Possiamo dire che le basi su cui nasceva la legge sull’aborto, oggi, non ci sono più?

Le basi culturali su cui nasceva la legge 194 non ci sono più sicuramente non sul piano scientifico ma dobbiamo ricordare che le motivazioni furono soprattutto psicosociali e politiche gravate da mistificazioni e menzogne, in particolare sui numeri dell’aborto clandestino, enormemente amplificati per colpire l’opinione pubblica. Il caso dell’esposizione alla diossina a Seveso appesantì il problema con proiezioni su eventuali malformazioni delle donne in gravidanza e posero le basi per una giustificazione sociale della eliminazione dei bambini malformati. La diffusione della pillola contraccettiva doveva essere un freno all’aborto volontario per cui fu lanciato un programma di contraccezione a tappeto su 4 regioni: Liguria, Lazio, Umbria e Puglia. Vediamo le menzogne di questi 3 aspetti:

  1. l’aborto clandestino c’era ma a condizioni inferiori rispetto a quello che si diceva e a 40 anni di distanza continua ad esserci nonostante la legge 194, assumendo contorni e applicazioni camaleontiche soprattutto per la clandestinità delle pillole abortive.
  2. le malformazioni da diossina furono un flop amplificato dalla non conoscenza della teratologia clinica.
  3. Nelle stesse regioni dove si è lanciata la pianificazione di “più pillola meno aborti”, il tasso di aborto volontario, dopo 40 anni, è tra le più alte tra le regioni italiane.

Lo zoccolo duro, tuttavia, nonostante queste evidenze, rimane la posizione ideologica della autodeterminazione della donna, concetto per il quale la madre vede il figlio come soggetto su cui esercitare una scelta esistenziale. La regola del pollice verso di neroniana memoria cavalcava l’idea di una frase molto usata: “L’utero è mio e ne faccio quello che voglio”, tuttavia questa affermazione esprime una grande contraddizione. Non si può accettare di equiparare l’utero (sicuramente di pertinenza anatomica della donna) a una gravidanza che esprime l’evoluzione di una presenza di un altro essere umano. Non si può accettare, quindi, che la donna abbia il potere di vita e di morte su un’altra persona che è il figlio, soprattutto quando questa decisione è gravata da motivazioni discriminatorie e eugenistiche sul concetto del diritto al figlio perfetto. Tutto questo è l’apoteosi della cultura dello scarto. Inacettabile è ancora che l’utero possa essere un contenitore da prestare per una gravidanza in affitto. Anche qui, sotto l’apparente scelta libera c’è un’obiezione di donne che vengono schiavizzate per denaro e per il desiderio di altri. I bambini entrano in una transazione commerciale e aberrante che calpesta ogni forma di dignità della persona umana, cosificando l’uomo nel supermercato dell’esistenza. Aborto volontario e utero in affitto sono le due facce della stessa medaglia.

Leggi anche: “Una diagnosi di trisomia 13 ma nostro figlio è nato sano”

Possiamo dunque affermare scientificamente che l’embrione è vita umana?

Al Parlamento europeo sono stato chiamato per ben 3 volte per parlare dei diritti dell’embrione e quindi dell’embrione come vita umana. La scienza prenatale ha validato inconfutabilmente che l’embrione non solo è vita umana ma come vita umana è medico della madre sia sul piano biologico che psicologico. In effetti per quanto riguarda il primo aspetto presenta 5 caratteristiche che ne fondano il protagonismo biologico. Le 5 caratteristiche sono: 1 l’identità genetica tipica della specie umana (23 cromosomi di origine materna e 23 cromosomi di origine paterna); 2. Le sequenze di minoacidi (ALU) sono uniche e individuali per ciascuno di noi quasi delle impronte genetiche biomolecolari; 3. Ha un autonomia biologica che lo fa sopravvivere anche in assenza di ossigeno prima dell’impianto e questo è avvenuto per ciascuno di noi, quando sospesi nella tuba di nostra madre non avevamo contatti con i vasi sanguigni materni; 4. L’embrione partecipa allo svolgersi del proprio programma genomico non in maniera passiva ma profondamente attiva e cooperando con le caratteristiche biologiche della madre; 5. Parla con la madre con un linguaggio immunologico, ormonale e genetico per farsi riconoscere, per non farsi rigettare e contribuire, insieme alla madre, al primo abbozzo della placenta.

Perché la comunità scientifica sembra far fatica ad ammetterlo apertamente?

La comunità scientifica fa fatica perché ha la superbia di fondo di non voler vedere le evidenze. Quando c’è questa cecità del pensiero non può essere effettuato il passaggio fondamentale che ogni comunità scientifica deve fare: passare da una sorta di informazione molto datata e superficiale alla conoscenza degli ultimi 30 anni che soprattutto con l’ecografia ha mostrato la meravigliosa motricità, morfologia e bellezza del feto umano e della vita relazionale con la madre che vanno a confermare la sua connotazione di figlio. Soprattutto non vuole accettare che il feto è un paziente a tutti gli effetti e può essere curato in molte condizioni patologiche. Protagonismo, relazione intima e forte con la madre ed essere un paziente come un adulto sono evidenze che la comunità scientifica si rifiuta di accettare. Tuttavia, la forza della verità di questi 3 concetti inchioda inesorabilmente chiunque voglia silenziare la stupenda esistenza prenatale. Madre Teresa diceva: “Il bambino non ancora nato è il più povero tra i poveri, se poi è malformato è ancora più povero e se ha caratteristiche di incompatibilità con la vita extra uterina è il massimo della povertà”. Ma lei al massimo della povertà ha risposto con il massimo dell’amore.

Tra le numerose mamme con cui è entrato in contatto ricorda qualche esperienza particolare che metta in evidenza il profondo, misterioso e insondabile legame tra una donna e il proprio bambino già nei primi mesi di vita? Salvaguardando la privacy della persona, potrebbe raccontarcela brevemente?

Questa storia contiene tanti elementi di riflessione ma quello che si evince in maniera poderosa è che una bambina senza reni rifiutata e abortita dalla madre ha convertito il cuore della donna al punto tale da farla riaprire alla vita e accogliere un altro figlio senza la presenza dei reni. Claudia ha avuto due gravidanze di bambini con agenesìa renale, e mi ha pregato di parlare al posto suo. Siamo nel 1992; una paziente, Claudia, viene da me, e dice: “Ho saputo che qui fate la diagnosi prenatale e mi dite se il bambino ha i reni oppure no”.  Confermo la notizia che le è stata data, le spiego come si svolge la procedura, e iniziamo l’intervento necessario. Dopo un’ora le dico: “Signora, mi dispiace, ma ciò che le hanno anticipato sulle condizioni del bambino è vero, il bambino è senza reni”. Le spiego la storia naturale che hanno di solito questi bambini, e cioè che alcuni muoiono in utero prima della nascita, altri subito dopo essere nati. Lei mi dice: “È una situazione che non riesco ad affrontare, scelgo di abortire”. Le propongo l’accompagnamento per dissuaderla, spiegandole anche i motivi medici, come ad esempio un rischio di tipo depressivo che potrebbe dover affrontare, ma lei è categorica e fa la sua scelta, forte, difficile, devastante. Dopo 10 anni vedo Claudia ritornare da me. È nuovamente incinta e nuovamente di un bambino con agenesìa renale. Mi dice che 10 anni prima non ha capito il valore della consulenza che gli feci, e soprattutto era vero che le conseguenze psicologiche sarebbero state devastanti. Mi dice che aveva capito sperimentando sulla sua persona, cosa significasse perdere un figlio, e soprattutto perderlo con l’aborto terapeutico. Ci aveva messo nove anni per trovare il coraggio di tentare nuovamente una gravidanza e si trovava nelle stesse condizioni di prima. Ma stavolta aveva deciso di accompagnare questa nuova bambina fino alla fine purché io accompagnassi lei! Era convinta che nulla fosse più terribile di quello che aveva vissuto in quegli anni: il senso di colpa per aver rifiutato la sua bambina. Così andiamo avanti, Alice nasce, e dopo 4 ore, muore. Viene fatto il funerale, e dopo un mese Claudia torna da me, e mi porta un regalo, che tengo sul tavolo del mio studio; è una scultura, che si chiama “L’abbraccio”, di Ottaviani. In genere si regala tra le coppie, in occasione del matrimonio. Lei mi dice: “Io amo mio marito, ma con lei sono sposata da un debito di riconoscenza, perché in nove mesi, aiutandomi, accompagnandomi, mi ha permesso di riscattare nove anni della mia vita”. Vorrei però lasciare la parola direttamente a lei e riporto qui di seguito una sua dichiarazione.

 

Claudia: «Quel giorno che ci siamo incontrati dopo 9 anni, al Gemelli, pochi giorni prima di Natale, era di domenica, e il professore stava per andare in ferie…  Parlai al professore della mia decisione di portare avanti il bambino, stavolta. Quando uscii fuori dall’ospedale, io profondamente avevo accolto e accettato ciò che sarebbe successo in futuro, e dissi a mio marito: “Io cammino sulle nuvole…”. Ero forte, in pace, non avevo più paura… ero felice. Sembrava che io avessi un figlio sano, mi dicevano che ero pazza, nessuno capiva la gioia profonda che avevo dentro, quanto fossi sicura di quello che stavo facendo. Oggi vorrei tornare indietro e accompagnare anche quella prima bambina alla quale, per paura, ho rinunciato. Claudia e Marco».

Secondo la sua esperienza di medico pensa che si possa parlare dell’aborto come di un diritto che garantisca l’emancipazione della donna?

Quando tutta questa bellezza relazionale viene distrutta con l’aborto volontario come si può dire che ci sia emancipazione? La donna si emancipa uccidendo se stessa? La donna si emancipa quando le vengono sottaciute tutte le conseguenze fisiche e psichiche che l’aborto volontario comporta? Io credo che la donna possa emanciparsi solo con una corretta informazione del fenomeno aborto. Tanti inganni psicosociali portano regressione personale, familiare, sociale perché la salute delle donne è un bene prezioso da salvaguardare così come la capacità di procreare ma espropriare le donne della verità di informazione è rubare il loro corpo, il loro futuro e, soprattutto, la loro dignità. Rubare beni materiali è grave ma rubare l’anima e la dignità è un delitto contro l’umanità. Tutta l’umanità!

Visita il sito del professor Noia: https://noiaprenatalis.com/

 




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