Gesù è un corteggiatore e sta corteggiando proprio te!

19 Febbraio 2022

Jesus and the Samaritan Woman at the Well

Foto: Jesus and the Samaritan Woman at the Well - The Metropolitan Museum of Art - New York

L’obiettivo di Gesù? Prendere dimora nel cuore dell’uomo. E per raggiungerlo è disposto ad uscire anche nell’ “ora più calda”. È questo l’insegnamento nascosto nell’incontro tra il Signore e la Samaritana.   

«Doveva perciò attraversare la Samarìa» (Gv 4, 4) Per andare dalla Galilea a Gerusalemme, Gesù potrebbe risalire la valle del Giordano. La strada era più piana, più sicura e permetteva di non dover attraversare la Samarìa.  Invece, dice il testo, Gesù doveva (édei) passare per la Samarìa. Un dovere che sembra esprimere una necessità divina che adombrerebbe lo scopo della Sua incarnazione: donarsi a tutti. Per questa scelta Gesù riceverà dai Giudei, che non riuscivano a guardare al di là degli schemi e dei pregiudizi umani, un grande insulto: «Non diciamo noi con ragione che sei un Samaritano e che hai un demonio?» (Gv 8,48). Gesù, invece, accetta di incontrare gli abitanti della Samarìa, considerati nemici ed empi. Sembra andare a cercare questo popolo disprezzato proprio come fatto con Zaccheo. Gesù, sostando presso un pozzo, sembra diventare samaritano tra i samaritani: come il viandante dell’omonima parabola sosta presso chi era stato percosso dai briganti (cf. Lc 10, 33-35). Egli decide si pone accanto ad un popolo disprezzato.

Il percorso scelto da Gesù, tra lo stupore e l’incomprensione degli Apostoli, si presenta come una delle strade da seguire, ma non l’unica. Solo tre giorni di cammino, ma il più difficile perché bisogna attraversare una regione molto ostile per gli ebrei sia dal punto di vista geografico, località montuosa, sia da quello delle relazioni. La Samarìa era, all’epoca, diventata un luogo che ospitava coloro che si erano macchiati di crimini, i non perfetti. Ospitava l’umanità così com’è, piena di limiti: questo fatto sembrerebbe suggerire l’idea che Gesù si sia diretto volutamente verso i lontani. È Lui che va ad incontrare coloro che si sono smarriti così come è Lui che compie il primo passo. Tra gli ebrei e i samaritani non vi erano rapporti cordiali, ma relazioni intessute di odio e pregiudizi. Gli abitanti della Samarìa erano considerati dei mezzosangue dagli Ebrei. Qualche cenno di storia ci aiuterà a comprendere meglio il dialogo tra Gesù e la Samaritana.

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La Samarìa era una regione della Palestina che si estendeva tra la Galilea e la Giudea. Era montuosa con vallate che si estendevano fino a toccare il fiume Giordano. Fu scelta come luogo che accogliesse l’Arca dell’Alleanza, santuario mobile che conservava le tavole della legge ricevute da Mosè. Sykhar è, infatti, ricordata per diversi eventi importanti per il popolo ebraico. A Sykhar Giosuè, terminata la conquista della terra di Canaan, convocò tutto il popolo che rinnovò l’alleanza con JHWH. Abramo vi innalzò il primo altare consacrato a Dio. Qui Giacobbe vi si stabilì con i suoi greggi e trovò riposo il corpo di Giuseppe. Alla morte di re Davide e del figlio Salomone ultimo re d’Israele, la regione, tuttavia, si ribellò tanto che, nell’880 a.C., il regno venne diviso in due stati: il regno d’Israele e il regno di Giuda. Nel 721 il regno d’Israele fu spazzato via dagli Assiri. La Samarìa fu assediata e gli Israeliti deportati in Assiria. Il re d’Assiria inviò persone da Cutha, Ava, Hamath e Sepharvaim per popolare la Samarìa (2Re 17, 24; Esdra 4, 2-11). Queste nuove popolazioni si unirono con gli Israeliti rimasti generando, così, un miscuglio e una fusione di razze (ecco perché mezzosangue). Costoro cominciano a denominarsi samaritani e non più Ebrei. Distrutto anche il regno di Giuda, la Samarìa fu prima provincia babilonese, poi persiana, infine greca. I Samaritani iniziarono ad adorare gli idoli degli invasori e dei popoli circostanti. In seguito essi mantennero ancora molte delle loro abitudini idolatre (2Re 17, 26-28): i samaritani crearono una religione sincretica, una mescolanza tra giudaismo e idolatrìa. Ciò che era avvenuto nella mescolanza di sangue tra genti diverse si estendeva, così, anche alla religione professata.

L’ostilità tra samaritani ed ebrei si acuì dopo la distruzione del tempio sul monte Garizim. Esso era considerato il luogo più sacro dai Samaritani, che non riconoscevano il tempio di Gerusalemme per l’adorazione a Dio: erano convinti che il loro monte era stato prescelto da Dio. Il monte Garizim era, per loro, il luogo dove approdò l’Arca di Noè, dove Abramo si recò per sacrificare il figlio Isacco e Mosè ricevette da Dio le Tavole della Legge. Ecco perché per i Samaritani non esisteva altro luogo più sacro del monte Garizim e altra Legge oltre al Pentateuco. Quando Gesù attraversava la Samarìa, i samaritani credevano nello stesso Dio dei giudei, ma si rifiutavano di adorarlo nel Tempio di Gerusalemme e da nove secoli non vi si recavano. Avevano i loro sacerdoti, la loro legge, i loro luoghi di preghiera e anche per questi motivi gli ebrei li consideravano un popolo stolto (Siracide 50, 25-26). Per ironia della sorte, il termine samaritano non deriva dal fatto che i samaritani abitino in Samarìa, ma dall’ebraico shamerim (שַמֶרִים), che significa custodi: della Legge, del Pentateuco. Coloro che non erano riusciti a conservare neanche la purezza di sangue unendosi con altri popoli erano chiamati i Custodi della Legge di Dio. In questo contesto, Gesù sceglie quella strada compiendo, inoltre, durante il cammino, alcuni gesti che sconcertano gli Apostoli. Affaticato, si siede sul pozzo e si ferma a parlare con un mezzosangue, per giunta donna. Anathĕma sit. Questo scandalo si consuma accanto ad un pozzo, che all’epoca ha già 18 secoli (cf. Gen 33, 18-20). La profondità della sorgente garantisce un’acqua fresca, chiara e limpida. Anche all’ora sesta, quando venne la donna samaritana ad attingere acqua.

Nell’esegesi medievale, la fatica di Gesù a mezzogiorno di una giornata torrida viene riletta come il primo episodio che preannuncia la sua passione per la redenzione dell’umanità. Così, infatti, canta il Dies Irae, vv. 28-30 (una sequenza in lingua latina, molto famosa, attribuita a Tommaso da Celàno): «Quaerens me, sedisti lassus, […] Tantus labor non sit cassus». «In cerca di me, affaticato, ti mettesti a sedere (sul pozzo di Giacobbe) (…) Una così grande passione non sia invano». In cerca di me. In cerca delle mie fragilità. In cerca dei miei innumerevoli tradimenti. In cerca delle mie miserie. Con uno sguardo arrendevole, amorevole e non di rimprovero. Proprio quando Gesù è in cerca di chi è smarrito entra sulla scena una donna, di cui non conosciamo neanche il nome. Forse il nome è celato come forma di protezione della donna stessa oppure, ci piace pensare, ognuno di noi può immedesimarsi in essa. Come mai una donna va ad attingere acqua in un’ora così ostile? Si possono avanzare molteplici ipotesi. Forse a causa del suo comportamento immorale pubblicamente riconosciuto è costretta ad uscire per strada a quell’ora, per non imbattersi in quanti la disprezzano. Forse ha ospiti e l’acqua attinta nell’ora canonica non le basta per le abluzioni di chi ospita. Per pigrizia, forse, per trascuratezza o per sbadataggine. Qualunque sia la motivazione, questa getta un’ombra sfavorevole su questa donna soprattutto considerando che in un regime patriarcale, donne simili, non sono certo ritenute buone madri di famiglia.

Non si può non notare che sono proprio i suoi difetti a renderla più vicina a noi lettori odierni. Immaginiamo camminare questa donna infedele, dai molti amori, sotto il peso dei suoi drammi, verso il pozzo di Giacobbe. Qui Gesù le chiede: «Dammi da bere». Immaginiamo lo stupore sul volto della donna mentre le arriva alle orecchie una richiesta di aiuto nella lingua dei giudei, i nemici. Un nemico, uno che si dovrebbe sentire superiore a lei le sta chiedendo ospitalità. Possiamo solo immaginare lo sconcerto e lo smarrimento di questa donna. Gesù rompe gli schemi della rigidità delle regole. Ella si aspettava da un uomo giudeo solo disprezzo. Gesù, invece, si fa mendicante presso di lei. Il Maestro non si pone su un gradino superiore rispetto alla samaritana, non la guarda dall’alto in basso con occhi di giudizio, ma si abbassa mostrandosi mendicante e ciò rende la donna ed il dialogo libero.

«Come mai tu, giudeo, chiedi da bere a me, una donna samaritana?». Sembrerebbe che la donna dica: come mai tutto questo abbassamento nei miei confronti? A un assetato che chiede un sorso d’acqua si risponde con un no o con un sì. Invece, la samaritana attacca il discorso con lo sconosciuto. Forse si sente attratta dall’aspetto giovanile e carismatico di lui. Non dobbiamo dimenticare che il pozzo era considerato il luogo dell’incontro dei giovani, dove avvenivano i primi approcci. Perché quel trentenne che viene dalla Giudea si rivolge proprio a lei? È così privo di conoscenza storica da non sapere che da tempo immemorabile Samaritani e Giudei sono in conflitto? Oppure, probabilmente, quello straniero sta cercando di sedurla? Tutti questi interrogativi intessuti da grande stupore aprono la strada ad una dinamica relazionale tra i due ponendoli sullo stesso piano, senza più barriere. Tra Gesù e la donna, infatti, cadono i muri di separazione (cf. Ef 2, 14): l’inimicizia tra samaritani e giudei e il muro culturale e religioso di disparità che impediva a un uomo, in particolare a un rabbi, di conversare con una donna.

Gesù, grande corteggiatore, intuìto che il dialogo promette bene, comincia ad intrigare la donna e, per attirarla a sé, sposta il dialogo su un registro diverso, quello spirituale: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!” tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva!». Emerge in questo passaggio un’altra sete. Gesù sa che ce n’è una più profonda nel cuore di quella donna e di tutti gli uomini. Sa anche che il pozzo simboleggia la Torah, il Pentateuco che i samaritani ritenevano essere l’unica parte delle Scritture contenente la parola di Dio e alla quale dovevano attingere, proprio come l’acqua al pozzo, per vivere da credenti.

«Gli disse la donna: – Signore, tu non hai neanche di che attingere, e il pozzo è profondo. Da dove prendi dunque l’acqua viva? Sei tu forse più grande di Giacobbe, nostro padre, che ci diede il pozzo e ne bevve lui, i suoi figli e il suo bestiame?». Risulta evidente che la donna è presa dal fascino di quello straniero. Affettivamente è stata trafitta dal suo aspetto, dalle sue parole, dal suo coraggio nel rompere la rigidità degli schemi. È talmente rapita da non avvertire più neanche il caldo torrido dimenticando di avere di fronte un uomo assetato. Tutto questo movimento interiore la porta ad essere irriverente, probabilmente, in maniera involontaria, quasi come se si volesse difendere. Ella non riesce più a gestire l’emotività. È come se lo sfidasse chiedendogli: “Sei tu più grande di Giacobbe?” É come se volesse sottolineare che lui, nonostante tutto il suo fascino che lei subisce, non è poi diverso dagli altri uomini che con le belle parole illudono le donne. Nella sua breve vita, infatti, ha conosciuto vari uomini. Uomini che l’hanno ingannata, promettendole molto o fingendosi persone importanti illudendola e deludendola. Ella pensa con le sue categorie e si convince che Gesù voglia iniziare una relazione amorosa con lei. Pensa che Gesù stia lì per avere un appagamento personale, non riesce proprio ad intravedere l’amore alto ed altro che Egli e propone. Come avrebbe potuto se nessuno glielo aveva mai rivelato prima? «Gesù le risponde: “Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna”».

Sembrerebbe che Gesù le dica che la legge di Mosè non disseta definitivamente, specialmente se essa viene imprigionata nella rigidità cultuale e delle norme di purità che portavano ad escludere persone dalla grazia di Dio. Quel rabbi trentenne e tanto affascinante da attrarla fisicamente e spiritualmente le annuncia che solo Lui possiede e può donare un’acqua che diventa fonte inesauribile per la vita su questa terra e quella eterna. Gesù, come è suo solito, le annuncia l’inaudito, l’umanamente impossibile e, ancora una volta, rompe le convinzioni umane. «Signore – gli dice la donna -, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua».

La donna, giustamente, continua a non comprendere pienamente. Resta legata al registro materiale perché non ne conosce un altro. Ciò che quel trentenne le sta offrendo, però, la affascina molto. Percepisce che Egli le potrà colmare tutti gli spazi vuoti della sua anima che, durante la sua vita, non sono stati riempiti dalla presenza del Dio vivo, ma dal nemico di Dio che, attraverso la sete affettiva, l’aveva trascinata nel baratro della lacerazione interiore e della infelicità. Dio, da sempre, non va in cerca soltanto della pecora perduta ma desidera eliminare o ci invita ad eliminare gli spazi perduti. Cristo, attraverso questo dialogo, sollecita la donna ad appartenere pienamente a Lui. Questo vale anche per noi oggi. Se abbiamo scelto di appartenere a Dio ed essere suoi figli dobbiamo fare in modo che tutto sia destinato a Lui. È un impegno che il cristiano si assume quotidianamente come quello di vigilare se qualche angolo o, addirittura, una stanza sia stata data in affitto, anche solo temporaneamente, al nemico di Dio. Bisogna correre ai ripari perché tutta la casa deve essere rischiarata dalla luce di Dio e irrorata dall’acqua viva che solo Lui può donare. Quanti uomini e donne oggi, spesso senza una piena consapevolezza, vivono tutto ciò che la samaritana viveva? Quanti uomini e donne attendono che qualcuno, in nome di Cristo, li vada a cercare, sostando accanto ad essi con occhi amorevoli e compassionevoli per sentirsi dire: esiste un’acqua viva che dona felicità.

«Le dice: “Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui”. Gli risponde la donna: “Io non ho marito”. Le dice Gesù: “Hai detto bene: Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». A questo punto del dialogo Gesù sembra cambiare discorso. Sembra, ma non è così. Per avere l’acqua viva bisogna prima prendere contatto e conoscenza dei propri errori e limiti umani, altrimenti l’acqua che Egli dona non potrà mai portare frutto. Gesù, dunque, le svela la sua condizione, ma senza condannarla. Scende nella melma della sua inappagatezza, della sua condizione di peccato invitandola a fare ritorno al Dio vivente. Il Maestro sa che la donna che gli è di fronte ha cercato di placare la sua sete di felicità attraverso vie sbagliate. Ha seguito molto e solo i suoi sensi pensando che questi potessero, una volta appagati, donarle la vera felicità. Ha avuto diversi uomini. Ha bevuto da diverse fonti con la speranza di trovare quella giusta, artefice e vittima di amori sbagliati, della sua affettività sregolata che, anche in quel dialogo, non riesce ad incanalare bene. Sbagli che le hanno generato ferite e incapacità di amare. Di fronte alla sua condizione, Gesù si abbassa nuovamente allungandole la mano, non per schiacciarla nei suoi errori, ma per tirarla su, per mostrarle una vita diversa che la renderà veramente felice e appagata.

«Gli replica la donna: “Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare”. Gesù le dice: “Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità”».  Gesù, alla domanda della donna, le annuncia l’avvento di un’ora. Quella che vedrà la Verità – cioè Lui – inchiodata sulla croce per amore nostro. Da quell’evento tutti, giudei o samaritani, santi e peccatori, potranno, se lo vorranno, adorare Dio in Spirito e Verità. Adorare Dio presente in noi, nel cuore del cuore. San Paolo ebbe a scrivere: «Non riconoscete forse che Gesù Cristo abita in voi?» (2Cor 13,5). Gesù annuncia che il luogo dell’autentica liturgia cristiana non è più un luogo fisico come un monte, tempio o cattedrale, ma è la dimora del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cioè la nostra persona intera (1Cor 6,19).

Ecco il culmine del corteggiamento di Cristo sposo. Egli, lo Sposo vuole prendere dimora nell’uomo per sempre, in eterno. Ecco perché, nell’ora più calda e scomoda del giorno va in cerca della donna, dell’uomo, di te e di te soltanto. Perché l’uomo aveva smarrito l’amore vero. Aveva dimenticato quanto fosse prezioso ai suoi occhi. Perché era diventata adultera e la sua vita annunciava questo: «Seguirò i miei amanti, che mi danno il mio pane e la mia acqua» (Os 2, 7) scoprendo, poi, che quel pane e quell’acqua generavano morte e non vita. Sostando al pozzo di Giacobbe, nell’ora più calda, è come se Gesù mostrasse l’amore fedele ed inesauribile che si intravedeva già nel libro del profeta Osea: «La attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2, 16). Ecco perché doveva passare per la Samarìa, luogo e popolo evitato e discriminato dai Giudei. Lo sposo Gesù indica un amore che è più forte della morte. Un amore che va al di là dei limiti umani. Un amore che gli sposi cristiani, tuttavia, se si dispongono bene, incarnano per Grazia. «Gli rispose la donna: “So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa”. Le dice Gesù: “Sono io, che parlo con te”». La Samaritana, con coraggio, confessa l’attesa sua e della sua gente: il Messia, il nuovo Mosè (Dt 18,15-18). Ed è in questo momento che Gesù rivela la sua vera identità. Le dice: “Io sono – che è il Nome di Dio (Es 3,14) – che ti parlo”. La donna si è svelata nella sua miseria, confessandola, senza alcuna giustificazione, Gesù si rivela nella sua verità di Messia e di Cristo.

«Allora, la donna (Samaritana) abbandonò la sua giara, andò in città e disse alla gente: Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto ciò che ho fatto! Che sia forse lui il Messia?». Lasciare l’anfora è un gesto che richiama il lasciare le reti degli Apostoli, il lasciare il banco delle imposte di Levi, il restituire quattro volte tanto di Zaccheo. La Samaritana corre in città a raccontare quanto le è accaduto, sente l’esigenza di condividere quell’esperienza che ha generato la sua conversione. La cosa straordinaria è che, dopo aver ricordato i fatti, ella stessa, come riflettendo ad alta voce, suggerisce un’interpretazione: “Che sia lui il Messia?”. A quanti la ascoltano non impone nulla. Propone una lettura che permetterà loro di fare una scelta nella libertà. Non fa proselitismo. Accende nei cuori di chi l’ascolta il desiderio dell’incontro. Lascia assaporare la bellezza, l’attrazione, la passione, la libertà che lei stessa ha sperimentato nell’incontro con quel trentenne giudeo. La fede scaturisce dal riconoscersi assetati e dal desiderio di ascoltare in che modo si possa placare quella sete. Molti giudei non percepivano più quella sete e si ritenevano già salvati. Come oggi, molti battezzati non avvertono più la sete di Cristo ed alcuni si sentono già arrivati, mentre altri si ritengono non bisognosi di bere. Oggi, come allora, abbiamo, tra i battezzati, persone convinte che agiscono con responsabilità e determinazione, ma anche con quella pacata ragionevolezza di chi sa quello che vuole, quando vuole e come vuole. Insomma sono persone che non vogliono perdere la padronanza delle cose, ogni loro gesto ha un fine ed a volte un tornaconto ben preciso e, così facendo, non si abbandonano mai totalmente a Dio. Non permettono mai che Gesù prenda totalmente dimora nel loro cuore. Esse agiscono sempre facendo calcoli, soffocando la voce di Dio. Poi esistono i cristiani sospinti che ci ricordano questa donna Samaritana. Questi uomini e donne nascosti nelle pieghe della quotidianità, invece, sono sospinti, infiammati dallo Spirito Santo. Non misurano con ragionevolezza perché sperimentano o sentono nel cuore una generosità ben più grande di quanto la ragione possa suggerire. Una generosità audace che non sta lì a calcolare. Oggi abbiamo bisogno di cristiani che si lascino sospingere dallo Spirito Santo proprio come fu sospinta la Samaritana che corse ad accendere il fuoco del desiderio di Dio nei cuori di chi l’ascoltava. Benedetto XVI in Deus caritas est, 1 afferma: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva». È quanto accaduto nel cuore di questa donna che, secondo una tradizione orientale, convertita e trasferita a Roma, si è spesa fino al martirio.

La vicenda della Samaritana è molto attuale. Parla ad ognuno. Qualsiasi situazione si stia vivendo, abbiamo la certezza che Gesù nell’ora più calda, potremmo dire nell’ora più brutta della nostra vita, nell’ora più pesante che quasi ci schiaccia facendoci mancare l’aria per vivere, è lì accanto ciascuno di noi come un mendicante. È lì con occhi di amore, senza giudizio, perché ben conosce la condizione umana. Ci sussurra come ci ricorda un canto: “Sono qui, conosco il tuo cuore. Con acqua viva ti disseterò. Sono Io che oggi cerco te. Cuore a cuore ti parlerò. Nessun male più ti colpirà – nessuno più potrà illuderti – Il tuo Dio non dovrai temere – perché Egli ti ama di un amore che oltrepassa la morte -. Se la Mia legge in te scriverò – la legge dell’amore e non la rigidità della legge -, al mio cuore ti fidanzerò – apparterrai a me per sempre, nessuno potrà strapparti da me – e mi adorerai in Spirito e verità – mi amerai con tutta la tua persona”.




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Assunta Scialdone

Assunta Scialdone, sposa e madre, docente presso l’ISSR santi Apostoli Pietro e Paolo - area casertana - in Capua e di I.R.C nella scuola secondaria di Primo Grado. Dottore in Sacra Teologia in vita cristiana indirizzo spiritualità. Ha conseguito il Master in Scienze del Matrimonio e della Famiglia presso l’Istituto Giovanni Paolo II della Pontificia Università Lateranense. Da anni impegnata nella pastorale familiare diocesana, serve lo Sposo servendo gli sposi.

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