Io, sacerdote innamorato del matrimonio

Qual è il ruolo della famiglia nella Chiesa? Quale posto occupa nella pastorale parrocchiale? Lo abbiamo chiesto ad un esperto in questo campo: don Renzo Bonetti, parroco di San Giuseppe di Bovolone, 14500 abitanti con 4900 nuclei familiari in provincia di Verona.

Don Renzo è ritornato a fare il parroco, dopo sette anni trascorsi alla guida dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia della CEI, per tentare, insieme ad altri 30 parroci di quasi tutte le regioni d’Italia che hanno aderito al Progetto Parrocchia-Famiglia promosso dalla Commissione Episcopale per la famiglia e la vita, di concretizzare nel vissuto di specifiche realtà parrocchiali la ricchissima riflessione magisteriale sulla famiglia.

Mons. Bonetti, partiamo da una domanda personale. Come è nata la sua esperienza di sacerdote al servizio della famiglia e quali sono state le linee guida del suo lavoro in questi anni, prima presso l’Ufficio Famiglia della CEI e ora come parroco?

La mia attenzione alla famiglia è nata all’inizio del mio ministero pastorale quando da giovane parroco e poi da rettore del seminario  sono stato logicamente coinvolto nel guardare quando e come la vita della famiglia segnava la qualità dei giovani. Lavorare sui giovani senza lavorare sulla famiglia che avevano alle spalle significava non dare continuità al lavoro. Un’altra motivazione è stata la mia prima esperienza di parroco a contatto con giovani fidanzati e sposi. Mi rendevo conto che accanto ad una genuina disponibilità non c’era un’adeguata preparazione. Stiamo parlando del 1981, anno in cui fu pubblicata la Familiaris Consortio e vedere come quei contenuti così belli e così alti erano completamente disattesi dai buoni giovani della parrocchia mi sembrava una contraddizione stridente, di una Chiesa che annunciava le meraviglie del Signore ma poi non riusciva a sbriciolare questo pane alle persone più vicine, a quelle che vivono la realtà parrocchiale. Di qui la decisione di tener presente nel mio indirizzo pastorale il discorso del matrimonio.

Cosa significa per lei dare centralità al matrimonio?

In questa maturazione di attenzione alla famiglia si è fatta sempre più chiara l’idea di porre attenzione al matrimonio nella sua compiutezza e non nei termini minimali di sopravvivenza. E per me la compiutezza del matrimonio consiste nell’essere un sacramento. Se usiamo le parole di Giovanni Paolo II dovremmo definirlosacramento frontale perché fin dall’inizio Dio lo ha voluto come segno “a immagine di Dio lo creò, uomo e donna li creò”. Mettendo al centro il sacramento del matrimonio si recuperano in giusta posizione tutti i contributi che le scienze come la psicologia o la sociologia possono dare. Il vertice è costituito dal compito che deriva dal sacramento del matrimonio.

La  Chiesa-istituzione, attraverso il Pontificio Consiglio per la Famiglia ha prodotto in questi anni moltissimi documenti magisteriali sulla famiglia. Più volte è intervenuta su temi di scottante attualità come i Dico, l’aborto, la procreazione responsabile. Ma non le sembra che queste direttive fanno poi fatica a trovare spazi di riflessione nelle chiese particolari, come le parrocchie?

Non fanno fatica, io credo che più esattamente si potrebbe dire che non trovano spazio nella vita pastorale. C’è un attenzione alla famiglia in questi decenni nel magistero dei vescovi, ma nella prassi pastorale delle parrocchie la famiglia smarrisce la sua idealità. Un pò perché la famiglia sta subendo tantissimi attacchi e una grande evoluzione sotto il profilo sociologico, un pò perché sotto la spinta dei mass media anche noi come chiesa rischiamo di finire più sul fronte della difesa dei principi che sulla promozione della ricchezza della famiglia. Mi riferisco ad esempio a tutte le attenzioni e alle polemiche che ricevono le indicazioni dei vescovi italiani e del Pontificio Consiglio per la Famiglia in ordine ai DiCo, in ordine alla procreazione responsabile in ordine all’aborto.

Una Chiesa più preoccupata a difendersi?

Questi interventi fondamentali, a mio avviso, sono doverosi e opportuni ma costituiscono gli argini di condotta in occasioni particolari ma non è  la vita ordinaria della famiglia. Noi stiamo preparando degli argini morali di un fiume in cui dalla sorgente non scorre più la linfa vitale del matrimonio. Dobbiamo ridare valore al contenuto vivifico e salvifico del sacramento tra un uomo e una donna perché le norme morali trovano la loro spiegazione dentro la sacralità e la santità del sacramento. Per questo se anche noi pastori non recuperiamo questo dato valoriale forte, logicamente facciamo fatica a trovare spazi di traduzione in pastorale.

Se noi componiamo insieme i documenti della Chiesa, del Pontificio Consiglio per la Famiglia, del Concilio e dei Papi in questi anni, troviamo una valanga di documenti che indicano una presenza dell’azione dello Spirito in ordine alla famiglia. Quindi non si può non dire che lo Spirito dal 60 in poi sia intervenuto in ordine alla salvaguardia e alla promozione della famiglia! Sembra tanto però letteratura pastorale! Secondo lei Dio è meno preoccupato di noi del benessere della famiglia?

In che modo dunque secondo lei si può e si deve promuovere la famiglia?

Si può promuovere la famiglia nella misura in cui recuperiamo la teologia del matrimonio cioè i contenuti valoriali del sacramento del matrimonio. È la teologia che fa la pastorale.

Ma cosa deve cambiare all’interno delle parrocchie? I pastori sono preparati a far fronte a questa esigenza?

Non siamo preparati, non è ben approfondita la teologia del sacramento del matrimonio. Mentre per la formazione al sacerdozio si spendono tantissime riflessioni e approfondimenti ed esercizi spirituali, per quanto riguarda il sacramento del matrimonio si sta seguendo la via minimale e questo significa al massimo offrire in certi corsi di preparazione al matrimonio, due o tre lezioni sul sacramento del matrimonio. Ma come è possibile che noi presbiteri e gli sposi stessi non siano preparati a scorgere la novità di vita che la grazia del sacramentò attiva nella vita degli sposi? I nostri sposi cristiani così hanno sullo sfondo la Chiesa ma non sentono la sacralità del gesto: essi diventano sposi al servizio di Cristo, della Chiesa e dell’umanità.

La famiglia come deve riappropriarsi della sua soggettività?

Con la formazione accompagnata dalla spiritualità. C’è un inghippo grande che bisogna superare e cioè pensare che la teologia del matrimonio allontani dalla realtà, dalla natura, dal quotidiano vissuto della coppia. È esattamente il contrario, io conosco sposi che proprio attraverso corsi di formazione ritrovano l’anima profonda del loro essere insieme, trovano significato e gusto nel mettere piede su un percorso di crescita spirituale che diventa crescita affettiva. La spiritualità coniugale è sinergica, sintonica con la vita umana. Non esiste una forzatura spiritualistica dell’umano. Anzi è l’umano che chiama il divino. Inoltre non bisogna aver paura di proporre questo ideale alto anche se le risposte sono poche. Io quando ho iniziato cinque anni fa in parrocchia a fare il primo corso mensile per gli sposi, su 4500 famiglie hanno partecipato 50 coppie. Oggi le coppie sono molte di più, perché sono le famiglie stesse a farsi annuncio di novità ad altre famiglie.

Lei parla di soggettività della famiglia nella Chiesa. Ma in che modo essa è considerata tale nella prassi pastorale delle parrocchie? Non le sembra che spesso l’apporto delle famiglie è unicamente di tipo funzionale (fare i catechisti per cammini di iniziazione cristiana, dare una mano per la liturgia…)?

Questo è il limite della prospettiva attuale. La soggettività della famiglia conclamata da tutti i documenti magisteriali si è concretizzata in questi anni in alcune attività parrocchiali specifiche per la famiglia e là dove la sensibilità del pastori e la spinta di collaborazione degli sposi è stata accolta, noi abbiamo visto le famiglie giocarsi bene questo coinvolgimento. Mi riferisco alle coppie coinvolte nel cammino di iniziazione cristiana, o di preparazione al matrimonio, o di collaborazione ad attività di carità in ogni caso noi vediamo che la famiglia con la sua ricchezza viene convocata ad agire dentro la struttura dell’agire pastorale. Cosa bella, doverosa…

Ma?

C’è un versante che abbiamo trascurato decisamente: la famiglia in forza del sacramento ricevuto ha in sé la forza di produrre qualcosa in proprio e non solo in un’ottica funzionale.  Ogni  famiglia è chiesa, è germoglio di fraternità,  è sorgente di comunione, di condivisione. Se poi in una famiglia riesco a pregare insieme a mettermi in ascolto di Dio, anche con il  vicino di casa e con il collega di lavoro allora si inizia a costruire chiesa. La famiglia è stabilmente un coefficiente della costruzione della chiesa anche nella sua dimensione parrocchiale. Ed è l’ esperienza che stiamo facendo con questo Progetto. Dove a partire dalla famiglia che in se ha la capacità di costruire un tessuto comunionale, io posso costruire il tessuto comunionale parrocchiale. Ogni coppia, ogni famiglia ha una rete relazionale naturale. Io non sono chiamato a proporre una rete relazionale alternativa che è quella intorno alla parrocchia ma sono chiamato a mettere in esercizio ecclesiale questa famiglia perché nel suo ambiente, nel suo vissuto, nel lavoro nella sua rete relazionale, con i vicini di casa è chiamata ad evangelizzare, a proporre novità di vita.

È questo quello che intende quando afferma che la pastorale parrocchiale si deve progettare a partire dalla famiglia?

Esatto. La famiglia è coinvolta in forza del sacramento  nell’anima della chiesa. Il catechismo della Chiesa Cattolica al numero 1534 afferma che l’ordine e il matrimonio hanno la stessa missione e cioè quella di evangelizzare. Mi dica lei in quante impostazioni pastorali si pensa e si agisce a partire da questo principio? La famiglia considerata un soggetto e non solo per le sue capacità collaborative.

Parliamo dell’esperienza delle comunità familiari di evangelizzazione nella sua parrocchia?

Lo stiamo sperimentando da un paio d’anni. Alcuni sposi hanno maturato l’idea di aprire le porte della propria casa. Sono attualmente 44 coppie che si incontrano settimanalmente con i vicini di casa, con i parenti. Con uno schema molto preciso semplice: preghiera, ascolto della Parola e condivisione, comunione con il pastore e partecipazione all’eucarestia domenicale. È Cristo al centro, è Lui che si prega, si loda e si condivide. Oggi condividere pranzi e cene è una moda, ma quanti sanno condividere la fede?

A questi incontri viene imbandito un banchetto più alto, qui vengono serviti i vini più prelibati, non quelli che provengono dall’uva ma dall’azione del Signore, qui si crea quell’unità che non è più frutto della vicinanza  ma è frutto della presenza del Signore.  Io di risvolto vedo che questo c’è quando celebriamo l’eucarestia domenicale dove la famiglia, l’ecclesiola come la chiamava Paolo VI si ritrova perché in essa trova senso, godendo di un’unità e di una fraternità che Dio realizza in quel momento.

A che punto è il Progetto Famiglia – Parrocchia?

Si è conclusa la fase sperimentale e ora si aspetta che l’Ufficio Famiglia dia un giudizio conclusivo ma intanto cresce il frutto di questa esperienza, crescono le comunità familiari. Ciò che conta è ridare dignità alla famiglia. Basta, chiamarla chiesa domestica se questa non ha uno spessore pastorale. Le esperienze sono tantissime in tutta Italia da Nord a Sud, e testimoniano che si può fare perché è nella natura della famiglia far famiglia, noi dobbiamo ripensare ad una pastorale secondo natura. La famiglia non ha bisogno di tremila corsi bisogna solo risvegliare questa coscienza.

Ma io direi di più che il segreto consiste nel ridar al Signore Gesù il potere e il primato. Noi abbiamo voluto evidenziarlo attraverso la scelta dell’ adorazione eucaristica permanente nella mia parrocchia dalle 8 del mattino alle 23 c’è sempre qualcuno che è lì per dire: “Tu solo sei il Signore”. È questo il segreto!

Cosa è cambiato nel dibattito politico e sociale sulla famiglia. Perché secondo lei oggi sembra essere alla ribalta nell’opinione pubblica?

Credo che si parli tanto di famiglia perchè ci sono forze che esplicitamente giocano a distruggere la famiglia. Qui dobbiamo dare atto al coraggio di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI e dei vescovi italiani di richiamare il valore della famiglia. perché anche se questo non salvaguarderà la famiglia rimarrà il segno di una Chiesa che ha gridato la verità, ha gridato il bene dell’uomo.




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