Bullismo

“Sono la figlia di un netturbino, vesto con abiti usati e sono stata costretta a cambiare scuola”

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di Ida Giangrande

Ho incontrato una ragazza poco più che sedicenne, emarginata, ingiuriata, offesa e picchiata perché aveva detto no, perché la figlia di un netturbino non può dire no. Avveniva ogni giorno tra le mura di una scuola, una tra tante altre. “Nessuna legge contro la discriminazione potrà fermare i bulli – dice - solo una famiglia può farlo”.

Prima di incontrare lei non credevo possibile che un’adolescente potesse donarmi tanta saggezza, forse perché io alla sua età non ero che una bambina, desiderosa di tornare a casa per giocare a fare e disfare il mio futuro sognando tra le pareti rosa della mia stanza. Invece, alla soglia dei quarant’anni ho dovuto scontrarmi con la drammatica realtà di adolescenti o poco più, costretti a confrontarsi con il volto duro della vita: la prepotenza, la violenza, il desiderio di sopraffazione. Il nostro incontro è stato casuale, lei, figlia di una mia amica, io quella che scrive per un giornale. Ha iniziato a parlarmi senza che glielo chiedessi, avrei potuto quasi pensare che fosse tutto falso, se sua madre non mi avesse preparata adeguatamente a quello che stavo per ascoltare. E ora me la ritrovo lì, questa ragazzina appena sedicenne con il volto di cera, un paio di occhi turchini che si appuntano sulla pelle come lapislazzuli su un drappo di seta bianca. È bionda come poche italiane lo sono, fatta di una bellezza eterea che deve far gola a molti maschietti, ed è proprio così che è iniziato tutto. Il bullo della scuola aveva cominciato a porle qualche attenzione in più, all’inizio era solo un gioco di sguardi, poi qualche parolina dolce e infine eccolo giungere quell’invito a uscire. “Non mi piaceva!” mi confessa “gli dissi di no” e poi l’inferno. “Mi prendevano in giro, se passavo davanti a loro, facevo finta di non vederli ma la cerchia di amici di lui mi faceva il verso, mi accerchiavano, mi strattonavano e più non reagivo più si spingevano oltre. Avevo paura, le mie amiche non si sarebbero mai messe contro lui e i suoi ganzi per difendere me. Se avessi reagito sarei stata sola”.

“Non hai provato a chiedere l’aiuto di un’insegnante?” le domando.

“All’inizio no. Era solo uno sfottò, mi prendevano in giro perché vestivo con abiti usati”. La madre seduta accanto a me abbassa gli occhi sulle ginocchia, come fosse colpa sua, ma lei no, mi racconta il suo stile di vita con quella integrità propria della povertà di mezzi, la fierezza insondabile di chi ha capito qual è il vero valore delle cose e non ne cerca altre. “Acquisto cose nuove quando mi servono ma vado a comprarle tra gli abiti usati, perché non c’è niente di male nel farlo. Si trovano tante buone occasioni, la gente ricca butta via cose praticamente nuove, mio padre è un netturbino e mia madre si spezza la schiena a pulire le scale: non posso chiedere di più e non voglio di più. Non pensavo che fosse così importante quello che ti metti addosso!”.

“Cosa è successo?” le chiedo per sollecitarla a continuare il suo racconto. “Sapevano tutto di me. Mi insultavano, mi deridevano, dicevano che mio padre era un…” si interrompe, fa difficoltà a proseguire. Io attendo in silenzio, che trovi la forza per riprendere e qualche istante dopo lo fa: “Preferirei non ripetere come lo chiamavano. In bagno c’era il mio nome scritto sulle pareti seguito da insulti e parolacce di ogni tipo. Lui aveva raccontato che eravamo stati insieme ma non era vero e non serviva a nulla che continuassi a negarlo. È stato allora che ho chiesto aiuto, mi sono confidata con la prof di italiano e lei ha detto che lo avrebbe chiamato e gli avrebbe parlato, ma o non è accaduto oppure non è servito a niente. Gli insulti sono continuati e un giorno durante le lezioni, lui e i suoi compari mi hanno sorpresa in bagno, mi hanno trascinata giù negli scantinati, dove vanno quelli come loro a farsi le canne, uno mi teneva per la testa e gli altri mettevano le mani dappertutto. Mi sono ribellata, ho scalciato e urlato fino allo sfinimento e alla fine quando mi avevano terrorizzata bene se ne sono andati ridendosela divertiti”.

“Hai denunciato la cosa?”.

“Sì, l’ho detto a mamma e a papà e loro sono andati dalla preside!”.

“Cos’ha fatto lei?”

“Mi ha chiesto di fare denuncia alle autorità, altrimenti lo avrebbe fatto lei e ha allontanato l’insegnate che era a conoscenza di tutto. Mi disse anche che potevo tornare in classe tranquillamente perché non mi sarebbe successo nulla, ma io non ci sono riuscita. Abbiamo denunciato la cosa e sono intervenuti i carabinieri”.

“Che fine hanno fatto loro?”

“Non lo so. Non li ho più visti, anche se alla fine ho deciso di cambiare scuola. Lì sarei stata sempre quella della denuncia e io non mi volevo portare questa marca appiccicata addosso”.




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