I Domenica di Quaresima - Anno A - 5 marzo 2017

Accogliere la propria e l’altrui debolezza è un arte che ci insegna Gesù

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di fra Vincenzo Ippolito

Vorremmo una vita perfetta, non soggetta a nessun cambiamento. Siamo essere finiti e limitati e non possiamo fare altro che accoglierci. Anche san Paolo si troverà a pregare per una situazione che, da spiacevole, riconoscerà alla fine come grazia e riceverà da Dio la chiave di volta della sua vita “la mia grazia si manifesta nella debolezza”.

Dal Libro della Genesi (2,7-9; 3, 1-7)
Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.
Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.
Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male».
Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

 

Oggi inizia per la maggior parte dei nostri cristiani il tempo santo della Quaresima, quaranta giorni consacrati ad una sequela più radicale di Cristo, attraverso il digiuno, la preghiera e la carità. Non tutti, infatti, hanno potuto partecipare lo scorso mercoledì – definito delle ceneri – al gesto di penitenza che manifesta la mestizia del cuore e l’accusa sincera delle proprie colpe. Si tratta di un cammino che parte dal capo – sulla testa cadono le ceneri, accompagnate dalle parole “Convertiti e credi al Vangelo” – e si conclude ai piedi, dal momento che il primo giorno del Triduo sacro, il giovedì santo, è accompagnato dal gesto della lavanda dei piedi (cf. Gv 13,1-20). Così don Tonino Bello indicava la conversione, un rinnovamento totale dalla testa ai piedi. In questo cammino Gesù ci precede, come sempre, infondendo coraggio al nostro cuore per non soccombere sotto i colpi del tentatore e seguire solo la voce del Padre. La Quaresima è una significativa opportunità per ciascuno di noi, come anche per le nostre famiglie e comunità. Abbiamo bisogno di rinascere dall’alto (cf. Gv 3,3.7) per il dono dello Spirito e solo Gesù ci può donare il segreto per una vera rinascita interiore che porti frutti di resurrezione e di vita nuova.

Dal deserto di Giuda al paradiso di Eden

La Prima domenica di Quaresima, nei diversi anni liturgici, è sempre definita delle tentazioni perché il brano evangelico, pur se di autori diversi, ci presenta sempre Gesù che, tentato nel deserto, esce vincitore dal combattimento contro il demonio. Nell’anno A, che noi stiamo vivendo, ad accompagnare come prima lettura la pericope dell’Evangelista Matteo, con la triplice tentazione (cf. 4,1-12), è un brano di Genesi. In realtà si tratta di un collage di vari versetti, ce ne rendiamo conto immediatamente leggendo la citazione riportata prima del brano (Gen 2,7-9; 3, 1-7). Il “taglia e cuci” liturgico lega il racconto del peccato di Adamo ed Eva (cf. Gen 3,1-7) alla creazione dell’uomo (cf. Gen 2,7-9), così da mostrare come la dignità voluta da Dio per la sua creatura sia messa in pericolo dalla voce del Nemico che cerca di strappare dal cuore dell’uomo la certezza della bontà di Dio Creatore e Padre. In tal modo il brano di Genesi anticipa la dinamica del Vangelo, mostrando come Gesù, in tutto simile ad Adamo tranne che nel peccato, riesce a vincere il demonio forte della Parola del Padre e irrobustito nella sua umanità dalla potenza dello Spirito. Proprio sul brano di Genesi vogliamo fermare la nostra attenzione, chiedendo al Signore la grazia di saper sempre riconoscere nella nostra vita la presenza e l’azione del male che cerca di farci desistere dal cammino del bene perché il dono della figliolanza fiorisce in scelte concrete secondo il Vangelo.

 

Il libro di Genesi ci offre due diversi racconti della Creazione perché colui che ha raccolto ed ordinato il materiale tradizionale ha ritenuto opportuno, sotto l’ispirazione dello Spirito, di conservare quanto apparteneva alla storia del popolo eletto. Il primo racconto (cf. Gen 1,1-2,4a) ci presenta la Creazione nell’arco dei sette giorni, Dio comanda e tutto crea per mezzo della sua parola onnipotente. Alla base di questa narrazione c’è una tradizione definita fonte sacerdotale, indicata con la lettera P, iniziale dell’espressione codice sacerdotale in lingua tedesca. Il secondo racconto è Gen 2,4b-3,24 e raccoglie la tradizione definita jahvista perché in questa narrazione Dio è indicato con il nome Yhawe. Potrebbero queste sembrare minuzie di studiosi, ma sono indicazioni importanti, almeno per comprendere che il testo biblico si è formato attraverso un processo lungo di armonizzazione di materiale diverso. Noi spesso crediamo che la Bibbia sia un libro come tanti altri, scritto, pur se da diversi autori e in differenti periodi, dalla prima all’ultima pagina. La Scrittura è, invece, un pezzo di vita del popolo d’Israele e non solo trasmette l’esperienza di Dio fatta in un ampio arco di tempo, ma è il frutto di un lavoro di redazione e di trasmissione difficilmente comprensibile. Dal secondo racconto della Creazione (cf. Gen 2,4b-3,24), quindi di tradizione jahvista, è preso il nostro brano (cf. Gen 2,7-9; 3, 1-7), che nei primi tre versetti (7-9) presenta la creazione dell’uomo, mentre negli altri otto, tratti dal capitolo terzo (cf. Gen 3,1-7) si narra del peccato di Adamo ed Eva. Per un maggiore comprensione della narrazione biblica sarebbe utile leggere il contesto dal quale sono stati estrapolati i dieci versetti che la liturgia oggi ci dona, così da gustare la ricchezza dell’intero testo biblico e capire meglio la dinamica interna del brano. Esso mostra, pur nel peccato dell’uomo, il volto misericordioso di Dio che non nega possibilità nuove anche davanti alla ribellione e al rifiuto da parte della sua creatura.

Fragili per la polvere e forti per il soffio di Dio

Leggendo il brano liturgico, il primo dato che emerge è la narrazione della Creazione dell’uomo. Diversamente dal primo racconto che propone la creazione non descrivendola plasticamente, ma trasmettendo la volontà divina di creare l’uomo a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26-27), il nostro autore scrivendo “Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (v. 7) ci presenta l’immagine di un Dio vasaio che si sporca le mani e partecipa direttamente alla creazione del composto umano. È Dio che plasma e questo sta ad indicare il rapporto diretto che si crea con l’uomo. La mano di Dio ci ha fatti, siamo stati da Lui modellati perché, conta il salmistra, “sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel grembo di mia madre”. Non siamo il frutto del caso, ma della volontà espressa da Dio di essere suoi collaboratori nell’opera della Creazione, segno dalla divina operazione e del suo prendere la polvere del suolo e plasmarla. La Scrittura ritornerà più volte su questa verità fondamentale “noi siamo l’argilla e tu colui che la plasma, non abbandonare l’opera delle tue mani” chiede Isaia, mentre Geremia è invitato dal Signore a scendere nel laboratorio del vasaio per comprendere che “Come l’argilla è nelle mani del vasaio, voi siete nelle mie mani, casa d’Israele”. Esiste un rapporto strettissimo tra il nostro corpo e la mano di Dio, come anche tra la nostra interiorità e l’alito del Signore. Egli non prende del materiale nobile, ma vile. Di polvere del suolo è fatta la sua creatura e questo mostra tutta la sua fragilità, il limite che la contraddistingue, la delicatezza che la costituisce. Siamo fragili e piccoli, limitati e deboli, eppure questo nel testo di Genesi non è un dato negativo, ma la realtà che scandisce la nostra storia. La fragilità ci è sorella, la debolezza ci costituisce in quanto creature, l’umiltà è il segno della polvere da cui siamo stati tratti. Dio riesce con delle cose semplici a fare meraviglie, per questo il salmistra, stupito oltre misura nell’osservare in sé stesso l’opera di Dio, esclama: “Mi ha fatto come un prodigio, sono stupende le tue opere”.

Proprio nella nostra fragilità, Dio pone il segno della sua potenza. L’alito di vita che Egli soffia nella polvere che Lui ha plasmato è la partecipazione alla sua stessa vita. Noi viviamo per il soffio che Dio ci ha donato. Per questo l’autore ispirato nota “Se togli loro il respiro, muoiono e ritornano nella polvere, mandi il tuo Spirito sono creati e rinnovi la faccia della terra”. Ciò che Paolo dirà in riferimento alla grazia di Dio – “Noi conteniamo questa ricchezza in vasi di creata, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi” – possiamo applicarla anche all’opera della Creazione. In noi portiamo la potenza di Dio, la sua vita che è amore e donazione. Egli ci riempie di amore, interiormente ci sostiene con la sua forza ed è per Lui che siamo vivi, capaci di aprirci alla relazione e di intessere rapporti di amicizia e di reciproco arricchimento. Esteriormente Dio ci plasma, interiormente ci riempie di sé. È questo il dono che Dio ci concede. Siamo un dono per noi stessi e dobbiamo godere della nostra corporeità, come anche del mondo interiore che ci costituisce. Tutto in noi è opera di Dio, tutto è segno della sua misericordia, partecipazione misteriosa alla sua vita. Spesso non ci accorgiamo che siamo un dono per noi stessi e per l’altro/a come l’altro/a è un dono per se stesso e per noi. Siamo chiamati a custodire il nostro corpo ed il corpo dell’altro come tempio di Dio ed il nostro cuore come sacrario della sua potenza che ci costituisce come essere viventi.

 

Abbiamo in noi il tuo alito, Signore, la tua vita! Come lodarti per questa meraviglia, come esaltarti per questo indicibile dono! Se mi guardo nel profondo, vedo te, se chiudo gli occhi e sento nel silenzio l’alito che esce dalle mie narici, lo riconosco come tuo soffio e per me vivere è donare agli altri il dono che tu hai fatto a me stesso di me stesso. Quanto spesso non ci penso! Quante volte sono incapace di lodarti e riconoscerti nella vita di chi mi sta accanto. Se tu sei Autore della mia vita, sei anche il Perfezionatore  della mia fede. Lo Spirito dentro di me, dono del Risorto, mi conduce a vivere con radicalità il mio essere creatura e nel guardare a Gesù come al mio modello. Non finirà mai il mio stupore e non voglio neppure che finisca! Rendimi capace di vedermi vivente per Te ed ogni azione della mia vita, ogni mio pensiero sia avere Te nell’orizzonte del mio esistere perché senza di Te io muoio, pur continuando a vivere, senza la tua grazia io perisco, privo dell’amore che sempre riversi in me, la mia vita è senza senso.

 

Vivere nello stupore e nella meraviglia è ciò che il Signore ci chiede, accoglierci nella fragile costituzione nostra che contiene misteriosamente l’alito di Dio è quanto dobbiamo vivere nella dolcezza di un abbraccio e nel guardare il corpo della persona che amiamo. Tutto è segno dell’azione e della presenza di Dio. La famiglia è il luogo dove vengo accolto per quello che sono ed in cui accolgo l’altro senza pretese, dove custodisco la debolezza e la fragilità costitutiva delle persone che amo e che, a loro volta, assumono i miei limiti come possibilità per vivere la sfida della relazione. Il limite e la debolezza, la fragilità e la precarietà è un potenziale di relazione, ma purtroppo non ci accorgiamo di questo. Accogliere la propria e l’altrui debolezza è un arte – l’ultimo libro di Alessandro d’Avenia L’arte di essere fragili lo mostra bene, muovendo le mosse dall’esperienza di Giacomo Leopardi – ma di quest’arte dobbiamo essere apprendisti, alla scuola della Scrittura, guardando a Gesù che ha voluto farsi uomo come noi, prendendo tutto di noi, eccetto il peccato che non è parte della natura umana. Vedere nella nostra debolezza la forza di Dio è un’esperienza da fare. Siamo solitamente portati a chiedere al Signore di liberarci da tutto ciò che è contrario ai nostri desideri e alle nostre attese. Vorremmo una vita perfetta, non soggetta a nessun cambiamento. Siamo essere finiti e limitati e non possiamo fare altro che accoglierci. Anche san Paolo si troverà a pregare per una situazione che, da spiacevole, riconoscerà alla fine come grazia e riceverà da Dio la chiave di volta della sua vita “la mia grazia si manifesta nella debolezza”. Ci attende un lungo noviziato per comprendere che Dio abita e sostiene le nostre precarietà, Egli solo dona la forza del suo amore per non soccombere.

 

Come custodisco la fragilità della persona che amo e come cerco di accogliere i mie limiti? È per me una potenzialità essere deboli? Le mie relazioni familiari, di amicizia e di lavoro  sono scandite dal desiderio dello scambio reciproco, nella gioia di donare ciò che il Signore ha messo come tesoro nel mio cuore? Quali talenti mi riconosco e vedo nella vita della persona che mi è accanto? Come aiuto i miei figli a vivere la debolezza come arte, non nella tristezza di chi dice con rammarico “Non c’è nulla da fare!”, ma con la gioia di vivere l’avventura di seguire Gesù nel porre la propria esistenza a servizio dei fratelli? Ci sono momenti in cui la fragilità mia ed altrui è stata ed è uno scandalo per me? Mi risulta difficile amare nel limite, accogliere nella fragilità? Quali le luci e le ombre che scandiscono la nostra vita in famiglia, nella comunità cristiana e/o religiosa? Nella debolezza vediamo la forza di Dio che misteriosamente ci abita oppure siamo disposti sempre e solo alla lamentela?

Quando la debolezza ci allontana da Dio

La seconda parte del brano liturgico odierno è rappresentato dai primi sette versetti nel capitolo terzo di Genesi. Nell’orizzonte di una strutturale debolezza che è per l’uomo possibilità e proposta per vivere la comunione con Dio, si insinua il mistero del male. L’autore ispirato ci presenta la figura del serpente parlante, la più astuta di tutte le bestie, che inizia a dialogare con Eva. Siamo davanti ad un racconto sapienziale che ci descrive, attraverso significative immagini, la situazione concreta dell’uomo. Si tratta di un riflesso non di ciò che è accaduto all’inizio della storia, ma di quanto avviene ogni giorno, soggetti alle prove del demonio che cerca in ogni modo di farci cadere nelle sue maglie. Il testo biblico sembra descrivere la dinamica interiore sottesa ad ogni peccato personale e mostra, all’interno della liturgia odierna dove il testo di Genesi è abbinata al brano delle tentazioni di Gesù nel deserto, come si combatta Satana e si esce dall’agone quaresimale irrobustiti interiormente dalla potenza di Dio.

Il primo dato che emerge è la solitudine di Eva. Il serpente, la più astuta delle bestie – identificata con il demonio che seduce e tenta l’uomo – si presenta alla donna proprio durante l’assenza voluta di Adamo. La solitudine può essere uno stato di beatitudine e di comunione con Dio – si pensi all’intimità di Mosè con Dio  e ancor di più, nei Vangeli, a Cristo di passare che nel silenzio, lontano dal chiasso della folla, si immerge nel dialogo con il Padre – ma, si è più facilmente esposti alla tentazione, quando il nostro cuore non è ben radicato nel Signore. Il serpente si avvicina alla donna e, utilizzando il suo desiderio naturale di relazione, riesce ad intavolare un dialogo con lei. Il demonio sa bene dove vuol arrivare – togliere dal cuore dell’uomo la certezza che Dio vuole il bene della sua creatura – e pone alla donna una domanda per mettere in dubbio il comando del Signore. La tecnica del Nemico è sempre la stessa, prende la parola di Dio e la cambia, strumentalizzandola ai suoi disegni perversi. In questo Satana è bravo nel vestire le tenebre di luce e nel far apparire la luce tenebra. «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Egli, bugiardo fin dal principio, conduce gradualmente Eva a puntare lo sguardo sull’albero della conoscenza del bene e del male e la donna non si accorge delle trame che il serpente sta tessendo a sua rovina.

L’autore vuole insegnarci prima di tutto a stare attenti alla nostra solitudine, dal momento che in essa siamo più facilmente esposti alla insidie del Nemico. Egli, infatti, non sopporta la nostra amicizia con Dio e le tenta tutte, pur di allontanarci da Lui. Nella solitudine egli, come prima cosa, spinge a dialogare con lui perché sa che, una volta abboccati al suo amo, non possiamo scappare. Non successe così anche a suor Gertrude di manzoniana memoria? Nel descrivere la riposta della monaca alle moine del suo pretendente Egidio, l’autore, facendo intendere tutto, scrive semplicemente “La sventurata rispose. Con il demonio non si scende a patti, né si attacca bottone. Con il Nemico non si dialoga, credendo di poter ritrarsi in qualsiasi nemico perché  siamo forti. Mai credere di poter combattere contro Satana a viso aperto da soli, perché egli è astuto, conosce le nostre debolezze e le volge a sua vittoria. Satana viene abbattuto solo dalla potenza di Dio e se Lui è in noi, a combattere è Lui in noi. La vittoria è assicurata solo a chi è docile all’azione di Dio, al cuore che diviene pura recettività alla grazia.

Nella coppia rimedio alla voce del nemico è la comunione con la persona amata, per un religioso o una consacrata è la sua fraternità, il presbiterio intorno al vescovo per ogni sacerdote, come anche per tutti la parrocchia o un movimento ecclesiale. La debolezza ed il limite, vissute nella comunione che è poi dono e complementarietà, è custodita ed amata e quando ci si lascia aiutare, difficilmente si cade perché l’unità nella diversità è il segno dell’azione di Dio in noi e tra noi. L’essere una carne sola tiene gli sposi uniti e concordi contro gli attacchi del tentatore e solo l’umiltà ci conduce ad accogliere l’aiuto che sono l’altro/a può darci. La persona che mi è accanto  mi illumina a riconoscere i tranelli diabolici e a stare saldi in Dio, rafforzanti dalla sua parola di vita.

Alla scuola del serpente anche Eva inizia a dimenticare la Parola del Creatore e a tradire il suo progetto di amore, considerando i limiti imposti dalla propria creaturalità steccato per la realizzazione del proprio delirio di onnipotenza. Ecco perché la donna così risponde al Signore Dio: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”».

Eva, Eva, ma cosa dici? Possibile che sia bastato così poco perché la voce del Signore Dio non trovi più posto nel tuo cuore? Alla scuola del serpente, hai presto imparato la menzogna, ma non sei tu con Adamo immagine somiglianza di Dio? Lui non ti ha forse creato con le sue mani, insufflando in te un alito di vita? Dove la tua relazione con il Signore che ti ha plasmato, la tua gioia nel saperti in armonia con l’intero creato? Sei stata così facilmente aggirabile?

Satana ci tenta sul nostro delirio di onnipotenza. Misconoscendo la nostra strutturale fragilità  da vivere nell’amore, fa crescere in noi l’autostima al punto tale da desiderare di togliere Dio dall’orizzonte della nostra vita per essere noi dio di noi stessi e degli altri. Il Nemico gioca di fantasia, accende in noi il desiderio, ci mette sulla strada dell’appetibile, ma non ci dice le conseguenze delle nostre scelte sbagliate, i burroni che incontreremo, una volta caduti nella disobbedienza. Nella tentazione Satana fa credere che noi siamo in grado di fare tutto, capaci di essere signori della nostra vita, di sapere conoscere il bene ed il male, di sapercela cavare da soli. Il serpente non deve insistere più di tanto, una volta accesa la fantasia, scompare, perché sa che la nostra mente ed il nostro cuore sono facilmente ammaliabili. La voce del tentatore alletta ed illude, ma i nostri occhi sono accecati dalla volontà assoluta di avere tutto ai nostri piedi. Appare troppa poca cosa essere con-creature insieme con ogni essere vivente, non basta ad Eva e ad Adamo vivere nell’armonia con Dio e con ogni vivente. Bisogna volere di più, sempre di più. È questo il desiderio titanico dell’uomo contemporaneo, mai pago delle proprie conquiste, nella sua corsa spasmodica di spodestare Dio e prendere il suo posto. L’albero della conoscenza del bene e del male indica proprio il voler decidere da sé ogni cosa, senza un riferimento certo, un orizzonte comune. Assolutizzare il proprio limite, credendolo criterio e norma di giudizio è ciò che solletica la brama dell’uomo e così la fantasia incalza. Il frutto dell’albero appare “buono da mangiare, gradevole agli occhi, desiderabile per ottenere la saggezza”. I sensi, accesi nel fuoco della passione di possesso dalla voce del Nemico, non vedono più nulla, niente richiama la bontà di Dio, il suo desiderio di relazione, tutto è mezzo, non più segno del Signore, della sua bellezza e bontà, del suo ordine e della gioia che Egli vuol far nascere nel cuore dei suoi. Dal concepimento del peccato nel cuore alla sua attuazione il passo è breve. Per questo Gesù insegna che è dal cuore che escono tutto ciò che rende impuro l’uomo.

Come custodiamo la nostra solitudine? Ci sono momenti in cui  fuggiamo dall’altro/a e proprio in quei momenti facciamo esperienza dei morsi del male? Chiediamo aiuto, se tentati oppure preferiamo immaginare una vita che non esiste, portati dalla voce del Nemico? È così difficile stare ancorati alla propria storia e accoglierne la debolezza? In cosa noi ci lasciamo prendere dal delirio di onnipotenza? Ci sentiamo dio di noi stessi e della vita delle persone che ci sono accanto? Siamo noi i detentori della verità e sappiamo ciò che è bene e quello che è male oppure, con umiltà, ci rimettiamo a Dio e con pazienza ricerchiamo le vie della sua volontà su di noi?

Nella povertà la via della gioia

Se la causa di ogni peccato – lo insegna Francesco di Assisi – è l’appropriazione, prendere quello che non ci appartiene, credere di poter fare ciò che si vuole, considerarsi migliori degli altri, la via di salvezza è la povertà  creaturale come capacità di vivere il limite come possibilità di relazione. La voce del Nemico seduce ed illude e, una volta caduti, il demonio è pronto a rinfacciarci tutto e a ridere di noi. Dobbiamo seguire Gesù, fare spazio alla sua voce, affidarci all’abbraccio del Padre, permettere che i nostri deserti, da Lui donati o da noi ricercati, siano vissuti nella potenza del suo Spirito che ci spinge a vivere sempre di lui. Che serve vivere di illusioni quando abbiamo Dio? “Colui che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?”. Dio è ben contento di comunicarci la potenza della sua divinità basta solo che metta la sua dimora in noi. Chiediamo la purificazione del cuore perché la grazia dello Spirito ponga in noi la sua abitazione, per gustare la compagnia di Dio ed essere certi che nulla e nessuno, illudendoci, potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù.




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Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

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1 risposta su “Accogliere la propria e l’altrui debolezza è un arte che ci insegna Gesù”

Oggi, piú che mai, abbiamo bisogno di “accogliere la propria e l’altrui debolezza”: veramente “è un’arte” e solo Gesú ce la puó insegnare. Quest’anno è il Centenario delle Aparizioni di Maria a Fátima, dove Maria è venuta a ricordarci di “fare come Gesú ci dice”, come Gesú ci insegna…E questa “arte”, Lúcia, Francesco e Giacinta l’hanno imparato bene…

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