“È la carne di Cristo, è la carne di Maria”

Di fra Vincenzo Ippolito

Vi è una straordinaria sintonia, un mirabile scambio tra Maria e Gesù: lo Spirito modella il cuore della Madre ad immagine del cuore mite ed umile del Figlio che viene alla luce, come nel grembo della Vergine il Paraclito cesella l’umanità santa del Figlio ad immagine della carne immacolata della Madre.

È la notte del Natale del Signore del 1223. Francesco è a Greccio, attorniato dai suoi e dalla gente accorsa dai centri vicini. Quindici giorni prima, ha fatto chiamare un uomo, di nome Giovanni, riferendogli la sua intenzione: “Se vuoi che celebriamo a Greccio l’imminente festa del Signore, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei fare memoria di quel Bambino che è nato a Betlemme, e in qualche modo, intravedere con gli occhi del corpo (corporeis oculis pervidere) i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie ad un neonato, come fu adagiato in una mangiatoia e come giaceva sul fieno” (cfr. 1Cel 84: 468). “Voglio intravedere con gli occhi del corpo” sono le parole di Francesco che ogni fedele fa proprie in questa notte santa. È come se il serafico Padre desse voce al desiderio del cuore dell’uomo di vedere Dio, di perdersi, al pari di Mosè (cfr. Es 34,5-9), nella contemplazione amorosa del suo volto, di inabissarsi nell’oceano smisurato della sua luce. Francesco è un innamorato e come ogni amante vuole vedere l’amato, deve vederlo, di lui vuol conoscere tutto, desidera apprendere ogni segreto della vita del Cristo. È come se Francesco non si accontentasse di ascoltare il Vangelo, deve vederlo. Ecco allora che – scrive Tommaso da Celano – “si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introduce il bue e l’asinello. In quella scena si onora la semplicità, si esalta la povertà, si loda l’umiltà. Greccio è diventato come una nuova Betlemme” (1Cel 85: 469). Vedere con gli occhi del corpo i disagi dell’uomo Dio, toccare l’umiltà di Betlemme, la povertà del Redentore che rivela l’immensa carità del Padre: sono queste le grazie da chiedere al Signore per gustare il mistero del suo Natale.

Guardare al presepe con gli occhi di Francesco

Il brano evangelico secondo Luca che leggiamo nella notte santa (cf. Lc 2,1-14), disegna plasticamente lo scenario scarno ed essenziale di Betlemme che Francesco rivive a Greccio. Nel racconto non ci sono parole di troppo, tutto è ben misurato perché nulla deve e può nascondere o sminuire il realismo e la povertà della scena. Giuseppe e Maria sono nella città di Davide, che non è Gerusalemme dove il figlio di Iesse domina come re sulle dodici tribù di Israele. Betlemme è la città del Davide pastore, il più piccolo dei fratelli, “fulvo, con begl’occhi e gentile di aspetto” (1Sam 16,12), chiamato ad essere re al posto di Saul. Betlemme ricorda la povertà delle sue origini, il suo giovane coraggio, il suo indefesso lavoro di pastore, il suo amore per i fratelli. Ed è lì a Betlemme, nella sperduta borgata di Efrata, che il Salvatore deve nascere, opponendosi alla sapienza umana della Gerusalemme che cerca la forza, che lotta contro il potere romano, che si abbandona ai soprusi e alle ingiustizie pur di affermarsi.

Vi è poi un altro particolare che Luca presenta, il censimento dell’impero sotto Cesare Augusto, mentre Quirinio era governatore della Siria (cf. Lc 2,1-2). Lungi dall’essere un inciso di storiografia scarna e puntuale dei potenti di turno e dei loro ordini, l’evangelista vuole inscrivere la nascita del Salvatore nella storia universale. Gesù – sembra affermare Luca – si è veramente incarnato, si è fatto uomo tra gli uomini, la sua non è una discesa apparente, ma la vera condivisione della nostra umanità. Da allora Dio avrà un volto, quello del Figlio di Maria, un nome, Gesù che significa Dio è salvezza, camminerà con gli uomini, ne condividerà la sorte, perfino quella del dolore e della morte. Il popolo non avrà più bisogno di leggere la Legge perché Gesù ne è la pienezza, nella sua carne è scritto il piano di salvezza che il Padre vuol proporre ad ogni creatura. Guardando Lui ogni uomo diverrà raggiante nell’amore ricevuto e nella carità donata, nella riconciliazione accolta e nel perdono elargito, nella salvezza sperimentata e nella condivisone offerta. A Betlemme, noi incontriamo la dinamica di carità e di umiltà che il Figlio di Dio ha liberamente scelto di vivere sulla terra e diviene sintesi programmatica di tutta la vita del Redentore, come anche del cammino del suo discepolo che desidera crescere in spessore di autentica umanità.

Dal Cristo povero alla Vergine poverella

 “[Maria] Diete alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce, lo depose in una mangiatoia perché non c’era posto per loro nell’albergo” (Lc 2,7). Siamo dinanzi al cuore del Vangelo dell’incarnazione e la narrazione non è poi così lontana dalle cronache dei nostri giornali. Maria, una fanciulla di circa dodici anni o poco più, è sola nel dare alla luce il figlio. Le è negato sia il conforto di una madre, sia la gioia dei parenti. Maria deve vivere l’estrema povertà di quel Figlio che dirà “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Lc 9,58). Il suo Figlio, da lei teneramente amato, che ai suoi discepoli chiederà di “non portare né borsa, né bisaccia, né sandali” (Lc 10,4) chiede a Maria la scelta dell’estrema povertà, la condivisione con Lui della sorte dei dimenticati e dei poveri della terra. Vi è una straordinaria sintonia, un mirabile scambio tra Maria e Gesù: lo Spirito modella il cuore della Madre ad immagine del cuore mite ed umile del Figlio che viene alla luce, come nel grembo della Vergine il Paraclito cesella l’umanità santa del Figlio ad immagine della carne immacolata della Madre. Maria è la nuova Eva che, a differenza della prima, formata dal costato di Adamo, ha lei dato al Cristo, il nuovo Adamo, il vero Adamo non una costola, ma l’intera sua carne. Ben lo dice Agostino: “Caro Christi, coro Mariae”, “È la carne di Cristo, è la carne di Maria”.  Il Redentore riceve dalla madre la natura umana da nobilitare, da riconciliare con il Padre, da riplasmare, nella quale insufflare lo Spirito della vita nuova dello Spirito-amore. Questa meravigliosa unione di cuori spingerà san Francesco d’Assisi a scrivere: “Lui che era ricco sopra ogni cosa volle scegliere in questo mondo, insieme alla beatissima Vergine, sua madre, la povertà” (2Lf 5:182).

Maria è sola in quel parto come tante madre sono sole ancora oggi nel dare alla luce i loro figli; la Vergine è abbandonata come tante donne non difese nel diritto naturale a donare la vita, a concederla con la medesima gratuità con cui l’hanno ricevuta; la figlia di Anna e Gioacchino non ha nessuno sulle prime che possa sorridere e rallegrarsi con lei per il dono di Dio. Maria è la serva del Signore nella provvisorietà della vita, è la povera di YHWH che non ha altra ricchezza al di fuori di Dio, è la discepola fedele del suo Figlio che, prima ancora che Lui parli, già gli obbedisce, che lo segue prima che Gesù apra gli occhi e la guardi, che lo imita e, per il dono dello Spirito, si conforma a Lui nel suo sentire, nella sua umiltà, prima che Gesù riveli in pienezza, nell’umiliazione della croce, tutta la ricchezza dell’amore del Padre. Maria vive la kénosi, l’umiliazione, la povertà estrema e non se ne fa un problema. In lei il peso della nostra fragilità, quella carne che ci scandalizza, quella provvisorietà che ci sgomenta, è vissuta nel totale ed incondizionato abbandono in Dio. La povertà in Maria, come anche in Gesù, è accolta con gioia, perché la dignità della creatura sta proprio nell’essere se stessa, piccola, fragile, indifesa. E così Dio si fa uomo egli stesso, la forza diventa debolezza, la ricchezza diviene povertà, la vita senza fine si rende mortale, il Creatore riceve – scrive Francesco – “la vera carne della nostra umanità e fragilità” (2Lf 4:181). Gesù è, infatti, il Dio che viene tra gli uomini per insegnarci ad essere uomini, a non aver paura dei limiti, delle cadute, della debolezza e neppure della malattia e della morte. Gesù prende su di sé quello che all’uomo fa scandalo perché gli uomini possano entrare definitivamente nel progetto d’amore del Padre.

Dalla povertà all’amore

 

La scena di Betlemme, oltre la povertà, mostra la carità del cuore di Gesù. Difatti la radice dell’autentica povertà di Dio è l’amore. Amare significa donarsi in modo gratuito, totale ed incondizionato, vuol dire farsi povero. L’amore, quello vero, arricchisce l’altro, veste l’amato fino a spogliarsi, lo nutre fino a morire di fame, lo disseta al punto da ferirsi il petto come il pellicano del deserto che, quando non sa come nutrire i suoi piccoli, si ferisce e lascia che succhino il suo sangue. Amare è dire all’altro “Ho bisogno di te, della tua attenzione, della tua cura e non ho timore di dirtelo, di chiederlo, di mendicarlo alla porta del tuo cuore”. Ecco perché la povertà nasce dalla radicalità dell’amore e l’amore fiorisce nella totalità del dono. La povertà del Figlio di Dio rivela l’amore, gli dona voce per essere udito, spazio per farsi conoscere, luce per rivelarsi, calore per offrire refrigerio. Gesù è tutto l’amore del cuore del Padre e delle umane ricchezze Egli rifiuta tutto fin dalla sua nascita perché chi può gareggiare con l’amore eterno di Dio? “Chi – scrive san Bernardo – è capace di correre alla pari con un gigante, gareggiare in dolcezza con il miele, in mitezza con l’agnello, in candore con il giglio, in splendore con il sole, in carità con colui che è l’Amore?”. Gesù deve scegliere la povertà perché nulla vale l’amore del Padre e l’uomo deve imparare che solo il fuoco della divina carità riscalda il suo piccolo cuore e lo dilata. La carità è potenza nella debolezza, luce nelle tenebre, acqua nell’arsura, pienezza di gioia nel dolore. L’amore è la forza più grande della vita di Dio ed egli vuole che lo diventi anche per l’uomo, nella sua fragile umanità. In tal modo, l’amore non cancella la debolezza, ma la sostiene e l’accoglie, non nasconde la povertà creaturale, ma la vive con gioia, non teme di mettersi in gioco, dimentico di sé e protesa al bene dell’altro. Senza l’amore l’uomo non ha il coraggio di vedersi in profondità, ma senza la povertà, l’amore è una pianta priva di radici e destinata presto a seccare.

 

L’uomo povero, nella visione francescana, è l’uomo vero, ovvero l’uomo profondamente riconciliato con se stesso, che accoglie la sua precarietà e vive dell’amore di Dio e dei fratelli. L’uomo vero dona amore, senza appropriarsi dell’altro, cresce nella coscienza del suo strutturale bisogno di completamento con libertà interiore. Il povero è abbandonato alla Provvidenza, si fida di Dio, del suo amore, lo considera Creatore e Padre, lo ama come l’unico capace di rendere possibile quanto all’uomo è inimmaginabile. La povertà amante o, potremmo anche dire, l’amore povero, dona a Dio il primo posto ed accoglie l’altro come fratello. Ecco perché dall’amore nasce l’accoglienza della povertà e dalla povertà nasce e si sviluppa la fraternità universale dei figli di Dio, dei fratelli di Cristo, la nuova civiltà dell’amore. Per fare questo l’uomo deve incontrare Cristo! In lui solo, infatti, “l’uomo ritrova la grandezza, la dignità ed il valore propri della sua umanità [solo in Cristo] è nuovamente creato [Difatti, se] vuol comprendere fino in fondo se stesso [egli] deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve «appropriarsi» ed assimilare tutta la realtà dell’Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso” (Giovanni Paolo II, Redentor Hominis 10).

 

Dall’amore alla povertà, dalla minorità alla fraternità: è questo l’itinerario di Francesco. Essi vogliono essere poveri come Gesù perché desiderano essere veri, autentici nella sequela, radicati nel Vangelo, totali nel dono della propria vita per la causa del Regno, abbandonati alla volontà del Padre. Ecco perché Francesco non ha paura delle proprie debolezze e delle povertà del fratello, delle malattie e delle difficoltà della vita, della precarietà della scelta evangelica e sorride di perfetta letizia. Per questo Chiara accoglierà di buon grado la malattia, sarà di sostegno per le membra vacillanti delle sorelle e le amerà nelle loro difficoltà. Il fuoco della divina carità li ha interiormente infiammati e, sostenuti dalla Grazia, procedono spediti dietro a Cristo povero che ama sino al dono totale di sé.

 

Nell’Eucaristia la povertà dell’incarnazione

 

San Francesco a Greccio sulla mangiatoia fa costruire l’altare e viene celebrata l’Eucaristia: quanto è accaduto a Betlemme si perpetua nel sacramento del Corpo e Sangue del Signore. L’eucaristia, infatti, è la scuola della povertà e dell’amore, la cattedra della minorità e della fraternità. Il nostro “Voglio intravedere con gli occhi del corpo i disagi in cui [Cristo] si è trovato per la mancanza delle cose necessarie ad un neonato” trova proprio nella celebrazione dei sacri misteri la risposta più autentica. Scrive, infatti, Francesco: “ogni giorno egli si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine; ogni giorno viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare nelle mani del sacerdote – poi conclude – noi vedendo pane e vino con gli occhi del corpo (oculis corporeis vedeamus), dobbiamo vedere e credere fermamente che questi è il suo santissimo corpo e sangue suo” (Am I, 16-18.21: 144). Guardando, infatti, Gesù che si fa piccolo e povero nella fragilità del pane noi incontriamo la nostra costitutiva povertà, il nostro essere piccoli ed indifesi, perché quel pane è il segno della fragilità nostra abitata dalla Grazia dell’Eterno. A noi che abbiamo paura della nostra umanità, delle cadute, che fuggiamo dinanzi alle difficoltà, che tremiamo per il dolore e proviamo scandalo per la debolezza, Gesù insegna nel pane e nel vino consacrati ad accoglierci per quello che siamo, a non scandalizzarci della precarietà della vita, a riconciliarci con le contraddizioni della nostra esistenza. E come l’amore abita il pane e lo rende Corpo del Signore, pur conservandone l’apparenza umile, come la carità del Redentore rende il vino Sangue suo, così l’amore di Dio, ovvero la potenza dello Spirito può abitare la nostra umanità, infondere nei vasi della nostra fragile esistenza, come a Cana, l’abbondanza del dono di Dio per ogni creatura. Prendere, benedire, spezzare e dare, sono i gesti eucaristici che Maria compie a Betlemme, le stesse azioni che Gesù farà nella notte della cena e che ogni presbitero quotidianamente ripresenta nell’umanità sua per la vita del mondo, sono una proposta di vita nella notte santa. Gesù bambino dice a ciascuno di noi: “Non aver paura di prendere la tua vita con determinazione come io ho preso la natura umana; non provare orrore nel benedire il Padre perché ha impresso, nella fragilità tua, la mia immagine di amante e di amato; non scandalizzarti nello spezzare, anche quando senti dolore, la tua vita per amore come io faccio nell’eucaristia, lascia che lo Spirito infonda in te il coraggio per donati agli altri senza riserve come io mi dono a te, divorato nel cuore dalla fiamma viva dell’amore”.

 

Il chiarore di questa notte ci avvolge di grazia, come un giorno i frati e i fedeli insieme a Francesco e si rinnovi il miracolo di Greccio anche per noi “Ad opera della grazia che agiva per mezzo del suo santo servo Francesco, il fanciullo Gesù fu risuscitato nei cuori di molti, che l’avevano dimenticato e fu impresso profondamente nella loro memoria amorosa” (1Cel 86: 470).




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