Di fronte a me il nulla che aveva umiliato il mio grembo

tristezza

di Giusy D’Amico

Sono andata a vedere “Unplanned”, il film che racconta tutta la verità sull’aborto, e ho ripensato a quando il mio piccolo Francesco se ne è andato troppo presto. Ero nel primo trimestre, e anche se talvolta succede, io ancora oggi, non riesco a dimenticare l’immagine del mio utero vuoto.

“Non c’è più niente”, non avrei voluto mai sentire quella frase terribile. “Non c’è più niente… mi dispiace. Sono 12 settimane… Può accadere nel primo trimestre… Più tardi l’aspetto in ospedale. Sono trecentomilalire per l’ecografia a domicilio”. Così il medico liquidò la mia situazione. Eppure ero stata immobile in quel divano per ore, avevo pregato e supplicato che ci fosse ancora qualche speranza. Ricordo che rimasi sola nella camera di mia madre dove mi ero trasferita appena iniziata l’emorragia, e piansi senza ritegno volevo gridare ma non mi usciva la voce, di colpo erano spariti tutti, forse per piangere lontano da me. Sparito mio marito, mia madre, mio padre… mia sorella arrivò avvertita da qualcuno e tentò inutilmente di calmarmi.

Ricordo solo che giunta in ospedale chiesi alla caposala di mettermi in una stanza da sola non potevo sentire le urla delle donne in travaglio, mi tagliavano l’anima da dentro. Chiesi il sesso del bambino che avevo perduto. Volevo sapere se era un maschio o una femmina e mi dissero che forse era maschio, se fosse stata femmina probabilmente ce l’avrebbe fatta. 

Avevamo pensato che se fosse stato un maschio l’avremmo chiamato Francesco per la grande devozione che ci legava al poverello di Assisi e parlando con lui come se potesse ascoltarmi ancora gli urlai: “Perché non ce l’hai fatta? Io ho lottato per averti, per salvarti. Ti ho desiderato… perché mi hai fatto questo? Mi hai lasciato prima del tempo”. Davanti a me solo silenzio. Nessuno poteva darmi risposta.

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Uscita dalla sala operatoria non smettevo di vomitare e la caposala mi disse che c’erano volute tre anestesie per addormentare la mia tensione. “Forza – mi disse – nei prossimi mesi ci riproverete, sei giovane”. Niente poteva consolarmi. Niente. C’era un lutto profondo nelle mie viscere, c’era il nulla che aveva umiliato il mio grembo, c’era l’impotenza di non aver potuto evitare che quel sogno curato già in ogni minimo dettaglio, andasse in pezzi.

I rumori erano tutti giganti volevo tenermi turate le orecchie e fuggire. Non potevo… l’unica cosa che mi ripetevo dentro era la frase di Giobbe “Il Signore mi ha dato, il Signore mi ha tolto sia benedetto il nome del Signore”. Per lunghi giorni piansi, non tolleravo i rumori, pensavo di continuo a quell’immagine dell’ecografia che illuminava il mio utero vuoto, e a quelle parole di piombo con cui il ginecologo disse “non c’è più nulla”, parole per annunciare la morte del bambino. È morto. Non lo disse mai nessuno. Tutte frasi aggiustate per guardare oltre, ma una donna sa che muore dentro, con il figlio, muore, rimane segnata a vita una parte di lei.




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