Screening prenatali, un tritacarne di vite umane?

gravidanza

(Foto: © Mopic - Shutterstock.com)

In occasione della Marcia per la Vita negli Stati Uniti un rapporto sottolinea l’imprecisione di molti test prenatali, mentre risulta sempre più alta la percentuale di feti abortiti perché “imperfetti”. È davvero possibile che uno strumento nato per curare le fragilità dei più piccoli si sia trasformato in una tagliola sulle vite dei nascituri? Cosa stiamo sbagliando? 

La 44esima Giornata per la Vita è alle porte ormai, un evento che ci vede tutti impegnati a dare il massimo per ampliare la riflessione e il dibattito pubblico sul diritto alla vita. Una testimonianza di primo piano ci arriva dagli Stati Uniti. 

Dopo la sospensione dovuta alla pandemia, i sostenitori della vita senza ma e senza se, sono tornati a radunarsi per la tradizionale Marcia per la Vita nelle principali città. Quest’anno la Marcia ha visto una clamorosa partecipazione di persone. Bellissima la testimonianza di Katie Shaw, 37 anni, portatrice di Trisomia 21.  «Sono orgogliosa di essere qui oggi per marciare e mostrare al mondo che le persone con disabilità hanno diritto di vivere» ha detto davanti a una folla di decine di migliaia di manifestanti. Ogni vita ha un suo valore intrinseco indipendentemente dall’età, dalle capacità, dalle dimensioni, dal momento del concepimento fino all’ultimo naturale respiro.

Pensare che proprio la Sindrome di Down, diagnosticata attraverso i vari screening prenatali, è una delle principali cause di aborto. Islanda e Danimarca si avviano ad essere i primi Paesi in cui la totalità delle diagnosi di Trisomia 21 sfociano in un’interruzione di gravidanza, mentre il Belgio è diventato il primo stato europeo a farsi carico in toto del costo dell’esame del DNA fetale. In Italia, secondo l’elaborazione dei dati Istat fornita dal Ministero della Sanità, le nascite di bambini affetti da Trisomia 21 sono 1 ogni 1200. E la Sindrome di Down purtroppo non è il solo “difetto” per cui abortire una vita umana. Devo ammettere che fa un certo effetto il fatto che negli Stati Uniti proprio nel contesto della Marcia per la Vita un rapporto del Daily Signal ha sottolineato che i deputati repubblicani hanno fatto un’interrogazione alla Food and Drug Administration (FDA) su un rapporto bomba del New York Times che mostra come la stragrande maggioranza dei test prenatali non invasivi sono imprecisi. E quindi l’ansia eugenetica ormai dilagante, non solo uccide ingiustamente tutti gli “imperfetti”, ma anche moltissimi bambini senza alcuna patologia. 

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In Italia già da molto tempo ormai si denuncia questa criticità. Risale al 2014, ad esempio, l’appello del dottor Claudio Giorlandino, che dalle pagine del Messaggero lanciava l’allarme: troppi feti sani abortiti. Giorlandino denunciava che 5 donne su 6 avevano ricevuto dai vari test e screening prenatali, risultati che dovevano essere confermati da ulteriori accertamenti e che spesso portavano le madri a scegliere la via dell’aborto volontario.

Di storie del genere ne abbiamo raccontate tantissime dalle pagine di Punto Famiglia fino a dedicare all’argomento un intero dossier, per sottolineare come spesso uno strumento che era nato per medicare le ferite del corpo, si è trasformato in una modalità per selezionare e scartare vite innocenti. Ne riassumo una tra le tante, lo spaccato doloroso di storie segnate per sempre grazie alla leggerezza con cui spesso si suggerisce l’aborto e all’idea che una vita fragile sia meno importante di tante altre. “Mi dissero che il mio bambino era incompatibile con la vita. Che sarebbe nato morto”, inizia così la testimonianza di Franca. Era la seconda gravidanza. Un figlio voluto, cercato. Andava tutto bene quando alla morfologica il medico comunicò a lei e a suo marito che il bambino aveva una grave malformazione cardiaca.  Non sarebbe mai nato, se fosse riuscito a vedere la luce sarebbe morto dopo poco: questa la sentenza, e da qui un calvario senza fine. “Decidemmo di vedere altri ginecologi. Io non prendevo proprio in considerazione l’idea di interrompere quella gravidanza. Era mio figlio”.

La trafila è lunga e dolorosa, diversi i medici ma la sentenza sempre la stessa. “E quando entri nello studio di un dottore, hai la sensazione di essere una cavia da laboratorio”. Tutto meccanico, asettico, con quella gentilezza affettata che sa di protocollo ed è tipica di chi finge ma alla fine ne vede tutti i giorni e ha perso la capacità di stupirsi di fronte al miracolo della vita così come ha perso la capacità di commuoversi di fronte al dolore. “Ti vomitano addosso sentenze di morte, poi sollevano le spalle, stringono le labbra e, scuotendo la testa, se ne vanno. In fondo il problema è tuo. Sei tu che devi scegliere”. La diagnosi sempre la stessa: malformazione cardiaca. Feto incompatibile con la vita. Non c’era speranza. “Sarebbe comunque un aborto – disse uno dei ginecologi – tanto vale…”, sorride Franca mentre ripensa a quel momento e subito dopo commentando il gesto di quel medico mi dice: “Non ebbe il coraggio di finire la frase. Lasciò cadere le parole nel vuoto perché dire morte avrebbe voluto dire che quel bambino, sebbene malformato, era comunque vita”.

“Tutti erano d’accordo con lui, perfino mia madre. Non volevano quel figlio e alla fine hanno vinto. Ho cominciato ad avere paura del dopo. Di quello che avrei dovuto affrontare”. Aborto terapeutico, lo chiamano così. “Mi dissero che sarebbe stata una cosa veloce che non avrei sentito niente, che avrei dato la libertà a quel bambino, gli avrei impedito di soffrire”. Il protocollo è mandato a memoria, anestesia e poi via, ma ecco all’improvviso ciò che nessuno si aspetta: il vagito del bambino. Era vivo anche se piccolissimo. Franca lo sente piangere, il marito lo vede mentre il piccolo viene immediatamente assistito. Tuttavia c’è poco da fare, la morte sopraggiunge quasi subito. “Volevo fargli l’autopsia. I medici lì ci sconsigliavano anche mio marito non era d’accordo, ma io volevo farlo. Mi imposi. Urlai e alla fine ottenni l’autorizzazione a procedere. La malformazione c’era, sarebbe stato difficile, ma mio figlio avrebbe potuto farcela”.




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Ida Giangrande

Ida Giangrande, 1979, è nata a Palestrina (RM) e attualmente vive a Napoli. Sposata e madre di due figlie, è laureata in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Napoli, Federico II. Ha iniziato a scrivere per il giornale locale del paese in cui vive e attualmente collabora con la rivista Punto Famiglia. Appassionata di storia, letteratura e teatro, è specializzata in Studi Italianistici e Glottodidattici. Ha pubblicato il romanzo Sangue indiano (Edizioni Il Filo, 2010) e Ti ho visto nel buio (Editrice Punto famiglia, 2014).

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