Una parte di noi è già in cielo (Parte 5)

statua angelo

Una mamma, che ha chiesto di rimanere anonima, ci sta raccontando la sua storia da alcune settimane. (Trovate le quattro parti precedenti su questo magazine). Oggi offre la sua testimonianza ripensando al giorno in cui, incinta di poche settimane, si è recata in ospedale e ha fatto una scoperta molto dolorosa… Subito dopo, però, ha percepito che Dio abitava quella sofferenza e veniva a darle un senso.

Sono passati tre anni, ma ancora ricordo ogni dettaglio di quel giorno. Era il 4 giugno (mi trovavo ad undici settimane di gravidanza), quando ho notato delle perdite. 

Chiamato il mio ginecologo, mi ha detto di recarmi al pronto soccorso. Ho avvisato mio marito, che ha commentato: “Speriamo che Dio non ti chieda quello che ha chiesto a Chiara Corbella”.

Non capivo perché continuava a dirmi cose simili: andavo rassicurata, non spaventata! 

Ero davvero seccata per il suo comportamento. 

Mi sono recata subito in ospedale. In macchina ho iniziato ad avere molta ansia. Temevo per la vita del bambino, per la mia… 

Il cielo era un po’ nuvoloso e rispecchiava il mio stato d’animo. Chiedevo a Dio di restare con me, di vivere con me qualunque notizia avrei ricevuto.

Al pronto soccorso ginecologico ho ricevuto un codice verde e ho atteso ore nel corridoio.

Mi sono quasi pentita di essere andata, vedendo quanto poco urgente fosse considerata la mia situazione. Non ero in pericolo di vita e sicuramente, come al solito, mi ero allarmata per nulla.

Anche mio marito, che non poteva entrare per il Covid, sapendo che venivo ignorata, si è tranquillizzato.

Alle 15.30 di pomeriggio, finalmente, la dottoressa mi ha fatto entrare per visitarmi. Quando le ho raccontato come stavano le cose mi ha quasi rimproverata: “Non si viene in ospedale per un puntino rosso!”.

Mi sono sentita ancora più stupida.

Visitandomi ha notato una piccola ferita nel collo dell’utero: credeva che la causa della perdita fosse quella. E mi sono sentita sollevata: se era così, sia io che il mio bambino stavamo bene.

Al momento di fare l’ecografia, però, ho visto che la dottoressa iniziava ad agitarsi. “Andiamo di sotto, che qui non riesco a vedere bene”, mi ha detto dopo un po’.

Mentre scendevamo nella sala con i macchinari più sofisticati, mi ha chiesto se avessi dei dolori e io ho risposto di no. 

La dottoressa mi ha sottoposto a una seconda ecografia. È rimasta con lo sguardo fisso sullo schermo per un interminabile minuto. Il mio cuore era sul punto di scoppiare. Poi, senza quasi sapere come fare, mi ha detto: “Qui non c’è attività cardiaca”.

Il mio bambino era morto.

Sono scoppiata a piangere, non potevo crederci.

Quel bimbo che doveva essere il nostro “regalo di Natale”, perché sarebbe dovuto nascere il 23 dicembre, era già volato via.

E io ero lì da sola, con una dottoressa e un’infermiera mai viste prima nella vita ad affrontare un lutto del tutto inaspettato.

Dicono che l’embrione non sia ancora nulla. Eppure, mio figlio viveva (lo capivo in modo ancora più chiaro adesso che non viveva più): era stato attaccato a me, si era nutrito di ciò che io gli avevo dato, attraverso la placenta. E il suo cuore aveva pulsato come pulsa il mio: lo avevo visto coi miei stessi occhi.

Un medico, sopraggiunto nella sala ecografie, ha cercato di capire cosa fosse successo. Una volta saputo dalla collega, vedendomi in lacrime, mi ha detto: “Il buon Dio le ha voluto bene… Questo era il momento adatto in cui la gravidanza doveva interrompersi, altrimenti avrebbe potuto dare problemi anche a lei!”

Sin da subito, vedendo quanto “discreta” fosse quella gravidanza avevo pensato: “Questo figlio mi dà proprio l’idea di essere il più tranquillo di tutti… sarà la classica persona buona, un po’ timida, che nella vita non vorrà mai creare disturbo, che si farà sempre da parte per gli altri…”

Avevo intuito bene: se ne era andato appena prima che la gravidanza potesse iniziare a creare problemi alla sua mamma. 

La dottoressa mi ha accennato che avevo due possibilità: o aspettare che la natura facesse il suo corso, oppure sottopormi ad un intervento. 

Ho chiesto un po’ di tempo per chiamare mio marito. “Non c’è più. È morto. – gli ho detto appena ha risposto – Tu lo sapevi che sarebbe andata così…”.

Leggi anche: Una parte di noi è già in cielo (quarta parte) (puntofamiglia.net)

Poi ho avuto il coraggio di dirgli un’intuizione che avevo avuto (e che fino a quel momento avevo tenuto per me): uno o due giorni prima che sapessi di essere incinta, notando il ritardo, ho domandato al Signore: “Davvero vuoi un altro figlio per me?”.

In quei giorni stavo leggendo il diario di Santa Faustina e avevo letto un episodio in cui la suora aveva ricevuto da Dio l’ordine di andare dalla madre superiora a chiedere il permesso di fare una determinata cosa. Il permesso non le era stato accordato e santa Faustina si è poi lamentata con Gesù: “Perché mi hai detto di chiedere qualcosa che sapevi non avrei ottenuto?”.

“Perché non volevo questo da te, volevo la tua obbedienza”.

Ecco, mentre avevo quel ritardo, mi pareva di intuire che “Dio non volesse un figlio da me, ma la mia obbedienza”. Che voleva dire, però? Che dovevo essere disposta ad accogliere la vita, anche se poi non sarebbe arrivato effettivamente un figlio?

Due giorni dopo, ho fatto il test, che ha dato esito positivo: a quella intuizione avuta leggendo santa Faustina non ho più dato peso. 

D’un tratto, ora che mio figlio era morto, l’episodio tornava alla mente. Mi sono detta: “Questo figlio non era per me, Dio vuole la mia obbedienza. Dunque, che devo fare adesso? In cosa devo essere obbediente?”.

In modo sorprendente, durante la telefonata con mio marito, lo sgomento si è convertito in speranza.

E ho visto la verità in modo chiarissimo: mio figlio non era stato solo un errore, non era meno “persona” perché aveva avuto dei difetti cromosomici ed è venuto a mancare così presto. Lui era già eternamente amato dal Padre. 

“Amore, – ho detto a mio marito – io voglio fare l’intervento e chiedere il funerale per il bambino”.

Ero certa che quello fosse un modo per onorare la sua vita, per onorare quel corpicino che, anche se per poco, aveva ospitato un’anima immortale. “Dobbiamo trattarlo da figlio, non da materiale organico. Dio ci chiede questo, secondo me!” 

Mio marito è stato subito d’accordo, mi ha detto che stava per raggiungermi in ospedale. Intanto, io sarei tornata dalla dottoressa e le avrei esposto la mia decisione.

Ero di nuovo sola, con una richiesta molto difficile da fare: chiedere la sepoltura di un “feto” di appena nove settimane (infatti, il piccolo era morto da almeno dieci giorni e non ero “realmente” a undici settimane come pensavo). 

Prima di varcare di nuovo la porta del pronto soccorso, mi sono sentita completamente matta. 

Il feto, normalmente, dopo il raschiamento, viene gettato in un inceneritore. Chi chiedeva un funerale in una situazione del genere?  

“Gesù, non ci riesco, mi sento pazza… – ho detto poco prima di entrare – Non capiranno!”

Allora mi è balzato in mente il ricordo di Chiara Corbella, che aveva accettato di portare a termine due gravidanze di bimbi malformati (che potevano causare problemi anche a lei), li aveva fatti nascere e aveva chiesto come prima cosa, dopo la nascita dei piccoli, il battesimo, per poi lasciarli volare in cielo. 

Sul libro Siamo nati e non moriremo mai più, si diceva che il personale sanitario era diviso: qualcuno contemplava con meraviglia il mistero, altri non comprendevano e la consideravano “pazza”.

“D’accordo, Signore, lo faccio. Chiara lo ha accettato, per te. Lo accetto anche io. Se mi prenderanno per pazza, pazienza…”.

Intuivo, inoltre, che era quella la missione che Gesù aveva dato al mio bambino: mostrare che la vita vale in ogni suo stadio. 

“Io e mio marito siamo molto credenti… – ho detto alla dottoressa- ci piacerebbe fare un funerale al piccolo…”.

Lei ha sgranato gli occhi, poi ha iniziato a spiegarmi i motivi per cui ciò non era possibile…

Vi racconterò prestissimo come prosegue questa storia! Non mancate il prossimo mercoledì…




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Cecilia Galatolo

Cecilia Galatolo, nata ad Ancona il 17 aprile 1992, è sposata e madre di due bambini. Collabora con l'editore Mimep Docete. È autrice di vari libri, tra cui "Sei nato originale non vivere da fotocopia" (dedicato al Beato Carlo Acutis). In particolare, si occupa di raccontare attraverso dei romanzi le storie dei santi. L'ultimo è "Amando scoprirai la tua strada", in cui emerge la storia della futura beata Sandra Sabattini. Ricercatrice per il gruppo di ricerca internazionale Family and Media, collabora anche con il settimanale della Diocesi di Jesi, col portale Korazym e Radio Giovani Arcobaleno. Attualmente cura per Punto Famiglia una rubrica sulla sessualità innestata nella vocazione cristiana del matrimonio.

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