INCLUSIONE
Aspettiamo un figlio con sindrome di Down: che fare?
Ci sono medici che, di fronte a una diagnosi di disabilità per il bimbo in grembo, propongono l’aborto. Davvero non esiste un’altra strada? Perché non accogliere i figli così come sono? Forse sono parole facili da dire, un po’ meno da attuare. Eppure, testimonianze luminose ci sono. Oggi vi parlo di una coppia che ha accolto una bambina con Sindrome di Down.
Qualche giorno fa mi è arrivato un messaggio in una chat di gruppo. La persona che scriveva chiedeva preghiere per una famiglia. Una coppia di sua conoscenza aveva fissato l’aborto dopo aver scoperto che la bimba in grembo aveva la Sindrome di Down e i medici consigliavano di interrompere la gravidanza. Quando ho letto il messaggio, ho pensato che non dev’essere facile ricevere una notizia simile. In un attimo, si viene catapultati in una situazione che non si era immaginata, che sconvolge i piani, che fa sentire piccoli e inadeguati. E poi… “Chi ci sarà, al suo fianco, quando saremo troppo stanchi e vecchi?”, è inevitabile domandarselo, perché nessuno di noi è eterno su questa terra.
L’aborto, in questi momenti di spaesamento, viene talvolta presentato – anche in ospedale – come strada inevitabile, lasciando dei genitori già sgomenti ancora più incapaci di dire “no” alla mentalità eutanasica.
Eppure, quell’aborto proposto come “unica soluzione” (quando non risolve proprio nulla) è una sconfitta di tutti, è una sconfitta per l’intera società. Perché soluzioni diverse (o, meglio, soluzioni vere) esistono.
Mentre leggevo il messaggio, mi dicevo che sarebbe stato bello se quei genitori spaventati avessero conosciuto dei miei amici, una mamma e a un papà genitori di una bambina con Sindrome di Down. Ogni volta che li incontro, mi si dilata il cuore.
Non tutti sono felici, quando li vedono, non tutti amano stare con la piccola. Alcuni hanno paura. È capitato persino a una maestra, che ha detto espressamente: “Mi dispiace, io, con i disabili, proprio non ce la faccio”. Una frase che è stata riferita alla mamma, spezzandole il cuore.
Parliamo tanto di inclusione, ma poi non sempre riusciamo a viverla.
Chissà, forse è anche questo che terrorizza i genitori quando ricevono certe diagnosi. Si sentono soli. Si sentono diversi. Inizierebbero a far parte di un mondo a parte. Un mondo in cui non puoi aspirare ad avere un figlio autonomo, che ha successo, o che semplicemente, piano piano, si realizza, lasciando il nido.
Quel figlio sarà sempre qualcuno da aiutare, qualcuno che resterà più indietro, qualcuno che si relazionerà in modo diverso.
Eppure, quanta ricchezza, se solo riuscissimo a guardare le cose con occhi nuovi, a cercare realtà in cui la fragilità è accolta, a capire che in quel dare a chi (solo apparentemente) non può “ricambiare” non si perde nulla, ma è il vero traguardo.
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È questo che ho imparato dai miei amici: trasmettono speranza senza neppure parlare. Loro non mi hanno mai detto cosa sia significato per ricevere quella diagnosi, ma mostrano coi fatti come la disabilità sia un ostacolo mentale: diventa un problema quando lo vediamo come tale.
Certo, avere un figlio diversamente abile è una grossa sfida, pone delle difficoltà, tutta la famiglia necessita di sostegno. Eppure, quando li guardo e noto la semplicità con cui si rapportano alla figlia, quando li vedo organizzarsi, fare viaggi, progetti, coltivare il loro giardino intorno casa; quando li vedo sorridere, per l’ennesimo dispetto della bambina che ama fare scherzi, quando mi raccontano di come gestiscono i compiti, lo sport, i rapporti famigliari… penso che la disabile sia io, che, a volte, pretendo la perfezione dai miei figli. Forse, senza ammetterlo, me la prendo se arrivano terzi in una gara, perchè potevano essere secondi o primi. Magari neppure me ne accorgo, ma smetto di amarli per sé stessi e inizio a vederli come la mia “fonte di appagamento”.
Ogni giorno è una lotta, per dirmi che devo amarli senza riempirli di aspettative o di ansie.
I miei amici sono molto più liberi di me. Quella bambina frequenta la seconda elementare, anche se dovrebbe andare in terza. Ha un’insegnante di sostegno e ce l’avrà sempre. Alcuni giochi non può farli. Parla in modo diverso dagli altri e a volte non si capisce ciò che dice.
Non sarà mai la figlia perfetta, secondo i canoni del mondo. Non potrà esserlo. E va bene lo stesso.
Perché dona abbracci sinceri, che somigliano a quelli di Dio: grandi e dati senza distinzioni.
Non diventerà mai medico, direttore d’azienda, docente universitaria… ma ditemi che proprio questi professori non hanno bisogno di persone come lei, di essere scomodati nella loro sapienza dal suo sorriso.
Ditemi che dei dottori che consigliano di eliminare una vita perché ai loro occhi “anormale” non avrebbero bisogno di andare a scuola da bambine perfette nella loro imperfezione come la figlia dei miei amici.
“Eh, ma crescere una persona disabile non è facile, parli bene tu, che hai figli sani! Hai idea di quante complicazioni avrà nella vita una persona con Sindrome di Down?”, potrebbe dirmi qualcuno. E lo capisco. Anzi, so che passerei nella stessa fase di spaesamento che conoscono tutti i genitori, all’inizio. Poi, però, se mai capitasse a me, saprei da chi andare per cambiare sguardo.
Proprio ieri l’ho rivista, quella bambina che mi scioglie, e ho pensato: “Menomale che ci sei, piccolina. È anche grazie a te se noi ‘sani’ veniamo smascherati nella nostra ipocrisia. È anche grazie a te se dobbiamo chiederci su cosa stiamo davvero fondando la nostra vita”.
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