Prostituzione

“Sono una sex workers o prostituta se volete, fate voi”

di Ida Giangrande

Molte di loro hanno il volto dell’amica di banco di nostra figlia. La vicina di casa, la collega d’ufficio. Donne in tailleur con una doppia vita nascosta e inimmaginabile. Sono le lucciole di giorno, invisibili perché coperte dalla luce del sole.

Negli ultimi anni mi sono appassionata al mito della crisalide. Sapete cos’è una crisalide? Quella delicata fase di passaggio di un bruco che incubato in un baco da seta, attende di diventare una farfalla. È un’immagine tenera, piena di densi significati simbolici. Me ne sono innamorata e sono istintivamente portata a collegare l’immagine di una crisalide al mistero racchiuso in una donna. Non so perché, la delicatezza, la vulnerabilità di una crisalide così fragile ed esposta alle intemperie della natura, mi riporta alla mente una parte delle donne della nostra epoca ferite, usate, comprate. Donne scadute nell’anonimato, usate per il piacere degli uomini, le ultime nella scala del mondo. Prede indifese e invisibili per i loro cari e per la società. Quante ne sono in tutto il mondo! Basta fare un piccola ricerca su Google, neanche molto impegnativa per avere una stima arrotondata per difetto e non certo per eccesso purtroppo. Schiave dello sfruttatore di turno, di una smania di trasgressione sessuale sempre più patologica. Schiave anche di se stesse, dell’indigenza, della cattiva educazione, schiave della totale assenza di famiglie alle spalle, schiave di un deriva culturale e morale che non conosce più limite. Ebbene come si fa di solito con un problema che non si riesce a risolvere, anche la prostituzione è passata al vaglio dei benpensanti come una possibile, regolare e soprattutto tassabile professione. Per cui in rispetto al servizio che offrono, e non certo alla dignità che custodiscono nascosta in qualche angolo remoto della loro anima, non le si chiama più prostitute, ma sex workers. Quante sono le lucciole che operano in Italia? Secondo il Parsec, cooperativa sociale impegnata fin dal 1998 a promuovere il valore e l’identità umana della donna dietro la prostituta, i dati sarebbero i seguenti: sono circa 25.000 le sex workers straniere che lavorano in strada, di queste circa il 7% risulta essere minorenne. Il Parsec stima invece il numero di prostitute straniere che lavorano al chiuso da 12.000 a 15.500. In tutto sono circa 30.000 le lucciole straniere che operano in Italia. E le sex workers italiane? Sempre il Parsec ci dice intanto che le italiane in strada sono molto poche, soppiantate da una più facile manovalanza straniera certamente più eterogenea e soprattutto più a buon mercato. Secondo le stime del Parsec le sex workers italiane sono tra le 7000 e le 8000 su tutto il territorio nazionale, sia al chiuso, che in strada. Circa 40.000 donne quindi, 40.000 bruchi che strisciano nella polvere in cerca di un bozzolo nel quale rinchiudersi per trovare la linfa sufficiente a rinascere. Una fetta di mercato promettente che va ad ingrassare l’appetito sessuale di clienti senza scrupoli, un giro d’affari che alimenta la criminalità organizzata, il traffico di stupefacenti, gli aborti clandestini, la vendita a nero di organi e tessuti embrionali. Quello che più mi colpisce però è che secondo il pensiero comune le prostitute sono solo le extracomunitarie che battono il selciato, costrette dal protettore di turno e restano invischiati in un mercimonio ceco e indolente. Il fenomeno della prostituzione invece è molto più vasto, diffuso e nascosto bene nel panneggio del perbenismo sociale. Ci sono donne che hanno scelto questa ‘professione’ in maniera libera e quelle che invece ci sono arrivate quasi senza volerlo, sono proprio loro che offrono la testimonianza più sentita e dolorosa di una vita senza punti di riferimento affettivi, in cui la mancanza di rispetto per se stesse si traduce nel concepire il proprio corpo con un bene da smerciare al miglior offerente. Sono le lucciole del mattino, quelle che non si vedono perché coperte dal sole; l’indice più alto dell’educazione all’insensibilità, a cui noi e i nostri figli siamo esposti ormai da anni. Il frutto più maturo di una società cieca consacrata a rincorrere chimere come la ricchezza, il denaro, la ciclicità della moda. Era per questo che si svendevano le baby squillo dei Pariol, e alcune loro coetanee lo facevano anche per la ricarica di un telefonino. Ma voglio lasciare che siano loro a parlare perché anche voi possiate restare commossi come è accaduto a me. I nomi sono di fantasia e decontestualizzati, ma sono tutte storie vere e per rispetto al dolore che queste donne provano ogni volta, non le chiamerò ‘sex workers’, ma prostitute.

Navigando su internet mi sono imbattuta in un forum al femminile, dove molte donne si raccontano immerse nell’ombra della distanza virtuale. “Io, madre di due figli – leggo – felicemente sposata eppure, prostituta di professione. Sono italiana e abbiamo sempre vissuto una vita agiata con mio marito, ma poi è arrivata la crisi, il mio negozio di estetica è andato a rotoli insieme agli affari di mio marito che ha rischiato il tracollo finanziario. Facendo la spesa dal fruttivendolo un giorno, il padrone del negozio, si è accorto che non avevo soldi abbastanza per pagare la frutta ai miei figli, mi ha proposto di farlo. Io ho chiuso gli occhi e l’ho fatto. C’è chi si suicida per un fallimento economico. Ho deciso di suicidarmi anch’io, ma in un modo diverso. In fondo si può morire in tanti modi. 100 euro a cliente, posso arrivare a guadagnare fino a settemila euro al mese. Mio marito non sa niente, gli ho detto che sto lavorando come badante presso un anziano e ricco signore. Non mi chiedete cosa sento quando mi guardo allo specchio. Non risponderò”.

Mi sono chiesta cosa l’avesse spinta a consegnare la sua storia ad un forum anonimo. Molti sono stati i commenti, alcune la incoraggiavano, altre la condannavano, ma io non credo che lei sia tornata sul forum a leggere cosa pensavano altre donne della sua scelta. Io credo che quel racconto sia stata la confessione estemporanea di una persona che portava un peso incredibile e che non sarebbe riuscita a condividere con nessuno se non con l’anonimato del web, dove in fondo resti sempre nessuno.

Scorro le pagine, è un social molto frequentato, e tra ricette culinarie e qualcuno che chiede consiglio per il figlio problematico mi ritrovo a leggere: “Mi chiamo Luna, ho cominciato a prostituirmi a 22 anni, quando l’unica alternativa che avevo era tornare a casa dai miei!”. Nessun commento. Una frase persa nel vuoto. In effetto nemmeno io avrei parole per commentare una frase come questa. Cosa può mai dire una donna a un’altra donna che ha deciso di vendere il proprio corpo? Ma non è la sola confessione:

Soldi facili dicono, ma cos’è facile nel mio mestiere? Picchiata da mio padre, sballottata tra mamma e papà che si erano separati, vittima di incesto, sono stata sbattuta fuori di casa da mia madre il giorno del mio diciottesimo compleanno. Ho trovato le mie cose gettate nel cassonetto delle immondizie. Non avevo né una casa né un po’ di denaro; solo un fidanzato violento. A un certo punto ho capito che potevo guadagnare molto sfruttando la mia giovane avvenenza e ho cominciato così. Non volevo clienti vecchi, malaticci, bavosi e puzzolenti, volevo personaggi importanti, gente facoltosa, nella mia ignoranza forse pensavo che lo status sociale di un uomo potesse essere garanzia di una certa cortesia d’animo ma mi sbagliavo. Sono i peggiori, il fetore che si portano dietro non è una questione organica, è un puzzo che sento con il cuore più che con l’olfatto, lo sento ogni volta che mi trattano come un oggetto, che trattano il mio corpo come quello di una bambola senza un’anima, perciò lo volete un consiglio? Non cercate soldi facili”.

Non c’è che dire, testimonianze come questa bruciano la pelle come farebbe il fuoco. Mi sono allora detta che in fondo queste donne avrebbero potuto fare scelte diverse, in fondo non tutte quelle che hanno difficoltà economiche si prostituiscono. Perché queste donne hanno scelto così? Nessuno le ha obbligate a fare quello che fanno, poi gira che ti rigira nel grande caleidoscopio di internet, ho letto un’intervista. Alla domanda di un giornalista che le chiedeva: “Se avessi una figlia femmina, accetteresti che lei intraprendesse il tuo stesso mestiere?”, una prostituta di Milano, 43 anni, sposata ad un marito operaio e madre di due figli maschi risponde: “Penso che la famiglia sia basilare per intraprendere certe scelte. Purtroppo io ho avuto una famiglia priva d’amore genitoriale e che si è liberata presto di me. All’inizio è sopravvivenza, poi diventa un business. Mia figlia non avrebbe bisogno di pensare a questa eventualità. Io ci sarei sempre per lei”.

Allora mi si è rischiarato uno scenario completamente nuovo e minaccioso: sono donne alla deriva, come e forse anche peggio delle schiave costrette a farlo, perché rappresentano l’indicatore di una società che si svuota poco a poco sempre di più a partire dalla prima grande ricchezza: la famiglia.




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