Maternità surrogata

Rifiutato perché down!

di Ida Giangrande

Maternità 2.0: per i lettori di Punto Famiglia oggi riproponiamo l’incredibile vicenda del piccolo Gammy, figlio di madre surrogata, rifiutato dai genitori committenti perché affetto da sindrome di down e, infine, coraggiosamente accolto della sua madre

È accaduto nel 2014 ma la storia di Gammy, ci aiuta a chiarirci le idee sulla maternità surrogata e a ripensare alle conseguenze, spesso gravose, che questa tecnica porta con sé. 15mila euro per affittare il proprio utero, fino a qualche tempo fa una cosa del genere sarebbe stata fantascienza, oggi invece è tutto normale, anzi la gestazione per altri è addirittura fatta passare come un gesto di solidarietà verso coppie che non possono avere figli.

La storia che sto per raccontarvi viene da lontano, dalla Tahilandia, uno Stato del sud-est asiatico che per molti è un paradiso terrestre, mentre per altri è una di quelle zone del mondo dove la vita si può consumare spesso tra i rottami di un aereo precipitato e una discarica di immondizia. A pagare le spese di questo stato di cose, sono soprattutto i bambini, orfani in gran parte, figli di una vita di scarto, che imparano a sorridere anche di fronte alla morte. Questo è il destino della metà della popolazione tahilandese, l’altra metà è costretta ad arrangiarsi come può per combattere contro lo spettro della miseria nera più della pece, da fare invidia all’inferno.

È in questa cornice che Pattaramon Chambua una giovane ragazza di 21 anni, decide di portare avanti una gravidanza commissionata da una famiglia australiana. Non è una cosa rara nel suo mondo, erano già tante le ragazze che lo avevano fatto prima di lei. “Sì ci stai un po’ male!” aveva riferito qualcuna, “ma poi ti passa. Dopo…vai avanti”. Sì, vai avanti, perché nella vita si impara a convivere con tutto, anche con una violenza come questa.

15mila euro, questa la somma pattuita per i nove mesi di gravidanza. Nessuna implicazione affettiva, nessuna poesia, solo una firma su un contratto, e i soldi a cose fatte. Pattaramon si sottopone alla fecondazione eterologa. Funziona. I bambini sono due, gemelli. A metà gravidanza, però, qualcosa va storto: uno dei bambini è affetto da sindrome di down oltre ad avere delle insufficienze respiratorie.

Per i genitori biologici dei due gemelli, l’unica via è l’aborto selettivo del feto malato perché in fondo chi è disposto a comprare un figlio, lo vuole perfetto. Pattaramon si oppone, lo fa per ragioni religiose, lei è buddista, ma c’è qualcosa in più: è madre.

Quelle creature si muovono nella sua pancia scandendo il battito del suo cuore. Sono una compagnia costante racchiusi nel silenzioso universo del suo corpo, lì dove la vita sarebbe impensabile per qualsiasi altro essere umano, a parte un figlio. Pattaramon non vuole abortire quel bambino, non vuole e decide di portare avanti la gravidanza. Quando i gemellini nascono, i genitori biologici prendono solo la sorellina sana e Gammy, così si chiama il bambino down, rimane affidato alle cure di sua madre, quella surrogata. Ma Gammy è un bambino malato e chi vive in Tahilandia non può permettersi di ammalarsi. C’è bisogno di cure, cure mediche a cui la sua giovane madre non riesce a far fronte. Pattaramon non si rassegna, chiede, bussa, urla, la storia viene scoperta e sale alla ribalta sotto le luci dei riflettori, all’attenzione dei media. Viene lanciata una campagna di solidarietà ‘Hope for Gammy’ per raccogliere i fondi necessari ad un intervento chirurgico. Le immagini della giovane madre con il bambino in braccio fanno il giro del mondo, qualcuno pensa che sia tutta una montatura per racimolare denaro, qualcun altro inorridisce e urla allo scandalo. Come succede sempre in casi come questo, la società civile allestisce una processo morale e mette sotto inchiesta i genitori biologici dei bambini in una sorta di impietoso linciaggio mediatico.

La famiglia australiana è costretta a difendersi, mentre la vita del piccolo Gammy diventa una diplomatica questione di stato che apre una falla nel mercato delle madri surrogate, traffico in cui la Thailandia ha superato l’India e a ricorrervi sono soprattutto coppie australiane che cominciano a temere inasprimenti delle misure e complicazioni legali. A vederla dall’esterno quello che fa più male è che mai come in questo caso, la vita di un bambino diventa il segno di una contraddizione: la contraddizione dell’amore umano. In fondo è così semplice superare il limite, quel limite oltre il quale la donazione gratuita diventa semplicemente appropriazione indebita, l’amore diventa una giustificazione a calpestare ogni diritto e la vita di un bambino non ancora nato, si trasforma in un oggetto privo di diritti, una cosa di cui disporre, da uccidere o da vendere. Com’era bello quando si poteva ancora dire: “Di madre ce n’è una!” oggi nemmeno questo è certo. A chi ha avuto il piacere di incontrare questa ragazza di 21 anni, vittima di un relativismo etico dai confini sempre più sbiaditi, lei stessa ha detto: “Vorrei dire a tutte le donne thailandesi di non entrare nel giro delle madri surrogate, non pensate solo ai soldi. Perché se qualcosa va storto, nessuno vi aiuterà e il bambino sarà abbandonato”.




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