II Dom. di Quaresima (B) - 25 02 2018

Imparare ad essere figli della luce

di fra Vincenzo Ippolito

È importante non solo fare esperienza di Dio, contemplare nella preghiera il suo chiarore che ci avvolge ma è altrettanto necessario tradurre l’esperienza di Dio in parole incisive, proprio come fa Marco, perché sorga nel cuore dei lontani la nostalgia del volto di luce del Signore.

Dal Vangelo secondo Marco 9,2-10
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

 

La seconda tappa del nostro cammino quaresimale ci conduce sul Tabor, il monte della Trasfigurazione del Signore. Siamo passati così dal deserto di Giuda, luogo della prova e della tentazione all’alto monte (cf. Mc 9,2), per imparare da Gesù a pregare, confrontandoci con la sacra Scrittura, vera bussola per orientare la nostra vita di discepoli. Anche la Prima Lettura (Gen 22,1-2.9.10-13.15-18) ci parla di un monte, nel territorio di Mòria, dove ad Abramo è chiesto di condurre suo figlio Isacco, per offrirlo in olocausto al Signore. Dio – il testo lo mostrerà nel seguito della narrazione – non vuole il sacrificio del ragazzo, quanto l’obbedienza incondizionata di Abramo, perché nulla deve prendere il suo posto, nella vita di chi si affida con totalità a Lui. San Paolo, invece, nella Seconda Lettura (cf. Rm 8,31-34), nota che Dio, a differenza di Abramo, non ha risparmiato il proprio Figlio per la salvezza degli uomini. Il cristiano è certo, non solo dell’amore di Dio Padre, ma della sua continua cura e dei doni che Egli è sempre disposto a concedergli.
Nel deserto – sembra essere questo l’insegnamento della liturgia odierna – tra le fiere e gli angeli, mentre il demonio ci tenta in ogni modo (I Domenica di Quaresima), noi siamo chiamati ad ascoltare il Figlio diletto del Padre, perché la nostra vita si rivesti della sua luce e la sua Parola trovi in noi incondizionata obbedienza.

Dio non guarda le nostre colpe, ma sempre ci accoglie

Diversamente dal Tempo Ordinario, la liturgia delle domeniche dei periodi definiti forti – Avvento e Natale, Quaresima e Pasqua – ci donano brani evangelici non consequenziali, per riflettere su particolari tematiche che possano meglio aiutare il nostro cammino di fede, durante quel particolare periodo. Così è anche oggi, saltiamo dal primo capitolo, con il brano delle tentazioni letto la scorsa domenica (cf. Mc 1,12-15) al capitolo nono del Vangelo secondo Marco (9,2-10). Guardando il contesto prossimo, ci rendiamo conto che la nostra pericope si collega bene con quanto è stato in precedenza narrato, attraverso l’espressione “sei giorni dopo”, sostituita, come spesso avviene nella lettura liturgica, dalla più comune introduzione “In quel tempo”. L’evento della Trasfigurazione avviene dopo sei giorni dalla confessione di Pietro a Cesarea di Filippo. Si tratta di un momento chiave nel cammino dei discepoli che, per bocca di Pietro, riconoscono Gesù come il Cristo (cf. Mc 8,29), ma anche di grande contraddizione, visto che lo stesso Simone, dopo aver ascoltato l’annuncio della passione (cf. Mc 8,31-32), prende in disparte Gesù, rimproverandolo (cf. Mc 8, 33). Pur vedendolo ancora incapace di seguirlo sulla strada della croce, Gesù non rifiuta di dare a Pietro sempre nuove possibilità, offrendogli di vivere il settanta volte sette che Dio sempre dimostra di voler attuare, perdonandoci sempre. Difatti, il Maestro non pensa che condurlo sul monte sia inopportuno, né che il suo discepolo non lo meriti, dopo che ha voluto prendere il suo posto, dicendogli che la via della croce non conduce alla gioia. Un errore non pregiudica il cammino, un fallimento non può condannare una persona per sempre.

Gesù è la misericordia di Dio fatta carne, nei suoi gesti vive la potenza del perdono del Padre, sempre pronto ad accogliere ogni suo figlio che ritorna a Lui, come il prodigo che prende la strada di casa, dopo aver sperperato i beni pretesi dal padre (cf. Lc 15,20). Non solo Dio perdona tante cose per un solo atto di misericordia – confidava Lucia all’Innominato, nei Promessi Sposi – ma prima ancora che noi gli chiediamo pietà, Egli, bontà per essenza, amore per natura, già ci ha perdonato, perché Dio non sa non amarci, perdonarci, accoglierci sempre, come il padre che, visto suo figlio lontano, gli corre incontro, lo abbraccia e lo bacia, stringendosi al suo collo (cf. Lc 15,20b). Portando Pietro sul monte, dopo averlo rimproverato aspramente, Gesù sta dicendo che nulla è perduto e che a tutti è aperta la porta per ritornare a vivere nella gioia. L’amore vero, infatti, non ha bisogno che l’amato si riscatti ai suoi occhi perché chi ama non sa non perdonare, nell’eccesso dell’affetto che dentro lo consuma. Il riscatto – se di riscatto si può parlare – riguarda lo stesso reo. Egli sente di dovere affrancarsi dal fallimento da cui si sente oppresso. Questo può verificarsi però solo se dall’esterno si sente accolto e perdonato, visto che dentro di sé è angosciato dal rimorso dell’errore commesso. Dio getta in fondo al mare i nostri peccati (cf. Mi 7,19) e non ricorda in eterno le nostre colpe. A nulla serve l’emarginazione e la punizione – Gesù non attuerà mai questa logica – perché non conduce al ravvedimento e alla consapevolezza dell’errore compiuto, rilegando colui che ha sbagliato a subire una inesorabile condanna che non gli offrirà vie di uscita.
Il rimprovero del Maestro ha portato verità nella vita di Pietro, visto che la sua parola purifica il cuore (cf. Gv 15,3), ma il cammino di sequela continua, non può interrompersi per una incomprensione, anche se grave. Ecco perché, insieme con Giacomo e Giovanni, Pietro è condotto sul monte. Gesù dimentica ciò che è accaduto a Cesarea di Filippo, perché Pietro deve comprendere non solo che ha sbagliato, ma che deve cambiare e si cambia solo se ci si cimenta di nuovo con la prova, se si impara sul campo nuovamente a combattere, dopo essersi rialzati. Sedere in panchina non serve se non a riprendersi, ma un giocatore non imparerà mai guardando giocare gli altri, deve lui scendere in campo, partecipando attivamente alla gara. Così è nel rapporto con Gesù, bisogna vivere l’avventura del discepolato, alzarsi, con la forza di Dio, dopo la caduta e non aver paura di riprendere il cammino, senza lasciarsi fiaccare dai fallimenti. Così Gesù, invece di escludere Pietro, lo ama ancora di più, intensifica il suo insegnamento, creando quel clima di intimità che permetta al discepolo di riprendersi e di guardare il mistero della Pasqua, senza paura, con gli occhi di Dio.

Se riuscissimo ad amare anche noi come ama Gesù, senza legare al dito i torti ricevuti, senza covare nel cuore il rancore per gli errori degli altri! Per questo dobbiamo approfondire la pedagogia di Gesù ed entrare nel suo cuore per non indurirci nell’errore nostro o degli altri, ma per guardare in avanti, sempre, con il cuore ricco di speranza perché Dio è con noi. Non si tratta di far finta di niente – questo è buonismo e non serve a crescere, ma a coprire con un velo la morte che ci portiamo dentro – ma di non permettere che il male determini le nostre scelte e ci porti a chiusure che a nulla servono, se non a chiuderci in noi stessi. Non è semplice offrire continuamente possibilità di riscatto e di vita all’altro/a, ma se l’amore non conduce a questo, si può veramente parlare di amore? Chi potrà salvare dal fallimento il reo, dal rimorso colui che è caduto in un errore? La maturità nell’amore conduce a non aver paura dello sbaglio, a superarlo con determinazione, a guardarlo in faccia, senza avere né vergogna né timore. La correzione genera consapevolezza – non fa proprio questo Gesù con Pietro (cf. Mc 8,33) – mentre offrire possibilità sempre nuove vuol dire non permettere a nessun seme di zizzania di soffocare il crescere del buon seme.

Rivelare in pienezza il mistero della croce

L’apostolo Pietro, all’annuncio della passione di Gesù, aveva sentito lo sgomento ed era stato istintivamente portato a rifiutare la croce come via di salvezza e di gioia. Il Maestro però, conducendolo insieme a Giacomo e Giovanni sul monte, desidera mostrare ciò che veramente significa il suo consegnarsi nelle mani degli uomini e come la sua morte sia inscindibilmente unita al mistero della sua resurrezione. La Trasfigurazione, infatti, serve a mostrare che non ci si può fermare al venerdì santo e che la morte non mette la parola fine della missione di Gesù, perché la luce del giorno dopo il sabato irradia il mondo di vita nuova e di speranza. I discepoli hanno bisogno di comprendere che Dio non vuole la morte, ma la vita e la croce è solo un passaggio, pur se tragico e doloroso per Gesù, perché Egli sperimenti la mano del Padre che lo libera dal sepolcro per vivere in eterno. Più che un insegnamento, il Maestro decide di presentare una catechesi per immagini, potremmo quasi dire, rendendoli partecipi di un’esperienza che, se da un lato conferma il Figlio della rettitudine del cammino intrapreso, dall’altro chiarisce ai discepoli e, attraverso di loro, ad ogni credente, che Gesù non sceglie la morte per la morte, ma che vuole la vita che il Padre gli dona. Salire sul Tabor vuol dire quindi superare lo scandalo della croce con la luce che il Figlio di Dio fatto carne emana, nel chiarore e nella bellezza che la relazione con Dio Padre concede, attraverso la preghiera e nel costante confronto con la Scrittura.

Ci sono momenti della vita in cui le parole non bastano per spiegarsi una scelta intrapresa, anche con difficoltà, e chiarire il cammino che ci attende. È quanto succede con i discepoli, saliti sul monte con Gesù. Hanno ascoltato e ascoltano di continuo la parola di Cristo, durante le sue predicazioni, ma hanno bisogno di confrontarsi con dei fatti che inequivocabilmente manifestino chi è Lui e quale sia la missione affidatagli dal Padre per la salvezza degli uomini. L’evento del Tabor, infatti, manifesta la divinità di Gesù Cristo e apre alle menti degli apostoli un orizzonte nuovo sul futuro che attende il Maestro, una volta consegnato nelle mani dei nemici. È questa la pedagogia che Cristo vive, nella relazione con coloro che lo seguono. Non solo Egli chiede che la sua parola trovi cuori docili e menti attente, ma offre anche di vedere concretamente come il disegno del Padre si riveli nella storia e perché risulti necessario non fermarsi all’apparenza, per andare in profondità, evitando una lettura parziale della volontà di Dio. Ecco perché Gesù, interrogato dai discepoli del Battista, se fosse Lui il Messia, risponde di riferire al Precursore come in Lui si attuano i segni promessi dalle antiche Scritture (cf. Lc 7,18-23). Confrontarsi con dei fatti è più utile rispetto ad utilizzare unicamente la parola come veicolo dello scambio e del chiarimento. Gli eventi hanno una concretezza che si impone, difficilmente evitabile anche per le persone più chiuse nelle proprie idee. Le parole possono anche passare, ma i fatti hanno una portata rivelativa che solo chi non vuole, evita di vedere. Gesù lo sa bene per questo si trasfigura davanti ai tre ignari discepoli. La gloria e la luce che vedranno varrà più di mille parole, perché si imprimerà profondamente in loro ciò di cui saranno spettatori. Non è un caso che san Pietro, nella sua Prima Lettera, ricordi la Trasfigurazione di Gesù, appuntando anche la voce ascoltata dal Padre (cf. 1Pt 1,16-18).

Anche noi dobbiamo comprendere che non bastano le parole per dire l’amore, per crescere nella relazione di coppia, per educare un figlio, per fugare le paure che sempre si incuneano nelle nostre amicizie. Il Nemico – durante questo tempo dobbiamo imparare le sue segrete e perverse macchinazioni, fronteggiandole con determinazione e sgomentandolo con la forza di Dio – semina la diffidenza perché la zizzania che lui sparge mette subito radici in noi, destabilizzandoci e facendo sorgere in noi la paura che ci paralizza. L’unico modo per combattere il demonio, oltre alla preghiera e alla vigilanza, è il vedere che nella nostra vita ci sono fatti concreti che lo smascherano, eventi incisivi voluti da Dio che lo fugano. Ecco perché dobbiamo non solo dire l’amore, ma porre dei gesti concreti che possono divenire pietre miliari, quando le tempeste dei dubbi si abbatteranno sulla nostra casa. Nell’imperversare delle difficoltà, i fatti che parlano e rivelano l’amore sono come il faro che illumina la notte. Così sono i nostri gesti, le parole sussultate nella dolcezza di un abbraccio non atteso, nella tenera carezza di un sorriso che, anche da lontano, ti riempie il cuore di gioia.

Avvolti di luce nuova

I discepoli salgono il monte, al seguito di Gesù, senza sapere ciò che accadrà, una volta giunti alla meta. Ancora oggi, per chi sale il Tabor, la grande basilica della Trasfigurazione ricorda l’evento vissuto da Pietro, Giacomo e Giovanni e lascia facilmente immaginare al pellegrino come su quell’ampia spianata la luce del Signore abbia avvolto i discepoli del suo divino chiarore. Se l’Evangelista non ha descritto la salita, era perché voleva immediatamente giungere alla descrizione dell’evento che gli occhi dei tre apostoli contemplarono, chiamati dal Maestro alla più intima comunione con Lui. Anche in questo caso la penna di Marco riporta in maniera essenziale l’accaduto, senza annotazioni che possano esaurire la nostra segreta curiosità di sapere. “Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù” (vv. 2-3).
Il verbo usato – trasfigurarsi – è il cuore del brano evangelico odierno ed indica il cambiamento dell’aspetto di Cristo, stando all’etimologia del termine, ma, nel caso di Gesù, sta a dire il suo rivelarsi quale Figlio di Dio, nello splendore della sua gloria. La luce che avvolge il Signore non viene dall’esterno, pur se all’esterno risulta circonda da un indescrivibile chiarore – nell’arte, si pensi, a mo’ di esempio, alle opere del Beato Angelico e di Raffaello Sanzio, il Cristo trasfigurato, è sempre circondato da una mandorla luminosa, segno della sua divinità – quanto, invece, la luce promana dall’interno, dall’identità di Cristo che rimane nascosta durante la sua vita terrena. Il mistero della Trasfigurazione rivela l’identità di Gesù quale Figlio unigenito del Padre, la luce è il segno della sua divinità, come anche le vesti che appaiono – appunta sempre l’evangelista Marco – “splendenti, bianchissime” (v. 3). Il Padre accorda al Figlio in tutto obbediente alla sua volontà, di rivelare a Pietro, Giacomo e Giovanni che la morte non potrà nulla contro Colui che è la vita per essenza, il Signore della storia, il Vincitore sul peccato e sulla morte. Gli apostoli dovranno vivere la passione con la segreta consapevolezza e l’incrollabile fede in Colui che non è solo uomo, ma Dio, della stessa sostanza del Padre. Diversamente da Mosè che scendeva dal monte, coprendosi il volto, perché gli Israeliti non vedessero il chiarore del suo volto, dopo aver dialogato con Dio “faccia a faccia, come un uomo parla con un altro uomo” (cf. Es 33,7-11), il Figlio di Maria si svela, toglie il velo che lo nasconde e, per un attimo, manifesta quel chiarore che è proprio della sua divina identità, non un elemento aggiunto alla sua umanità, ma il dato che contraddistingue il suo essere Dio.

Rappresentarsi la scena per noi sembra difficile. Anche Marco si sente in difficoltà nel descrivere l’accaduto e deve ricorrere a descrizioni che della realtà sono solo un’immagine sbiadita, perché come dire il mistero di Dio che si rivela? Come dire Dio che toglie il velo del suo prendere la forma di servo, di schiavo per rivalerci la potenza dell’amore di Dio che ci abita e dall’interno ci trasforma? L’Evangelista aggiunge “Nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle più così bianche” (v. 3b). È importante non solo fare esperienza di Dio, contemplare nella preghiera il suo chiarore che ci avvolge, l’amore che dentro comunica, la gioia che trasmette la vita condivisa con Lui, ma è altrettanto necessario tradurre l’esperienza di Dio in parole incisive, proprio come fa Marco, perché sorga nel cuore dei lontani la nostalgia del volto di luce del Signore. Non possiamo tenere per noi solo ciò che l’amore divino genera nelle nostre famiglie, non è bene misconoscere le meraviglie che la grazia opera, quando vince il nostro egoismo e trionfa sulle ribellioni che vorrebbero determinarci diversamente da come Dio vuole e chiede. Dobbiamo essere uomini di luce, camminare nella luce della vita nuova che il Signore ci dona. Come discepoli di Gesù, è necessario che ci lasciamo portare da Cristo a contemplare la sua gloria, perché avvolti dal suo chiarore, diveniamo figli della luce e del giorno (cf. 1Ts 5,5). Non solo non possiamo vivere nelle tenebre, ma dobbiamo manifestare all’esterno la forza di Dio che è dentro di noi, dal giorno del nostro battesimo. Dal di dentro deve espandersi quella potenza divina che trasforma la nostra vita e che veste di gioia le nostre giornate. Per questo dobbiamo chiederci, in questo camino quaresimale: abbiamo la luce in noi? Nel nostro cuore c’è Dio? Viviamo della comunione profonda con Cristo? Cosa manifestiamo della nostra identità di credenti in Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo? Le nostre case sono luoghi dove la sofferenza e la difficoltà sono trasfigurate, consegnate a Dio perché Egli le abiti con la sua grazia e la potenza della sua misericordia?

La Quaresima è il tempo opportuno per alimentare in noi il mistero della luce divina, facendo sempre più spazio allo Spirito perché ci rinnovi e ponga la sua dimora in noi e tra noi. È Lui, infatti, che può purificarci, fugando la paura della croce e favorendo l’ingresso nel mistero di Dio che per amore si consegna all’odio che gli uomini nutrano, inconsapevoli di chi è Colui che avversano. L’amore che ci portiamo non può e non deve rimanere nascosto alle persone che ci vivono accanto. Non serve nascondere il proprio bisogno di amore, perché questo rappresenta il buio che l’amore dell’altro può rischiarare. Come i tre discepoli, così anche noi dobbiamo permettere a Dio e agli altri di piegare le nostre menti ribelli con l’evidenza di gesti che traducono l’amore e che sono intrisi di dolce tenerezza. L’amore dell’altro mi deve carezzare ed avvolgere come fa la luce del sole, lo sguardo di chi mi ama deve proteggermi, la sua presenza custodirmi da ogni tipo di male. Questo fa Gesù sul monte, evita che il dubbio dei suoi prevalga all’esterno come accaduto in precedenza con Pietro e dona la sua luce perché penetri nelle profondità del loro animo e della loro mente perché si faccia luminosa in loro la conoscenza di Cristo (san Francesco, Parafrasi del Padre nostro, 2) e possano così vivere gli eventi della Pasqua interiormente sorretti dalla fede in Gesù è il Signore, il Dio vivo e vero. Gesù guarisce il dubbio dei suoi, manifestando all’esterno chi è veramente, perché nel cuore i discepoli non vivano la paura di fidarsi di Lui e di abbandonarsi alla sua grazia che tutto riveste, solo se all’interno ha già tutto rinnovato.
Anche noi dobbiamo vivere nella luce e questo è possibile solo se i gesti che facciamo e che gli altri pongono sono così carichi della luce e della tenerezza dell’amore che abita in noi. La famiglia, secondo il progetto di Dio, è il luogo in cui vivere la trasfigurazione dell’amore. La relazione tra l’uomo e la donna li trasforma non solo nell’intimo, ma anche esteriormente perché la gioia di essere una carne sola deve condurli ad aver sempre sete l’uno dell’altro e a portare sempre con sé, pur se divisi nelle mille faccende della giornata, lo sguardo ed il sorriso, la voce e la parola dell’altro/a. È questo che fa Gesù: porta dovunque il Padre suo il cui amore trabocca dal suo cuore. Solo così la vita insieme diviene arte di trasfigurare e trasformare con l’amore, indicando vie per un futuro di gioia e di impegno fattivo perché la società degli uomini divenga sempre più Regno di Dio.

Una ricchezza che ci sovrasta

La descrizione dell’Evangelista non si ferma solo al chiarore, ma si arricchisce di particolari ulteriori che mostrano la ricchezza della scena. Scrive, infatti, Marco “E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Lui” (v. 4). Agli occhi dei discepoli se la luce manifesta la divinità del Signore, il suo confronto con la legge e i profeti che le due figure dell’Antico Testamento ricordano, mostra che Gesù è anche uomo e che, come ogni figlio di Adamo, ha bisogno della lampada della Scrittura per orientare la sua vita nella volontà del Padre. È il confronto con la Parola di Dio fonte di discernimento e sorgente per scelte secondo Dio a caratterizzare la vita di Gesù. In tal modo Egli si mostra come Dio, nella luce che lo avvolge e nelle sue vesti rese bianchissime, al tempo stesso si rivela profondamente uomo nella sincera ricerca della volontà del Padre, nel dialogo con la Scrittura.
Se Marco non ci dona il contenuto della preghiera di Gesù, non è difficile imparare a pregare, avendo dinanzi Gesù che dialoga con Mosè ed Elia. Egli prega e dialoga con il Padre, partendo dalla Scrittura. Cristo non spreca parole – come potrebbe Lui che ha comandato di non sprecarle quando si prega? – ma utilizza la concretezza del dialogo storico che Dio ha adoperato con l’uomo dall’inizio della rivelazione. Gesù si sente nel grande flusso della relazione che Dio ha vissuto con Israele e sa, come uomo, di non poter non tenerne conto. Ma il suo essere Figlio per essenza lo conduce a non fermarsi alla Scrittura come norma e regola di vita e a mostrarsi ai discepoli come la Parola viva che tutto vivifica e rende le nostre relazioni riflesso di quella vissuta con il Padre.

Nell’ascolto il senso del nostro cammino quaresimale

Avvolti dalla nube, i tre discepoli, ascoltano la voce del Padre che riconosce il suo Figlio e se ne compiace. La Quaresima è il tempo per ricercare la compiacenza di Dio, per vivere nel suo amore, per compiere la sua volontà. Se la preghiera non ci porta a dire con Gesù il nostro “Sì”, ad entrare nella sua volontà, affrontando le nostre situazioni limite, sapendo di non essere soli, non possiamo dire di seguire Gesù. La preghiera è uno dei cardini del tempo quaresimale, insieme al digiuno e alla carità. Solo guardando e imparando da Gesù, nelle nostre famiglie saremo in grado di incontrare Dio e di essere totalmente orientati a vivere nella sua volontà e a testimoniare tra gli uomini, con la forza sua, il primato della carità e del dono.




Aiutaci a continuare la nostra missione: contagiare la famiglia della buona notizia

Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

CONTINUA A LEGGERE



ANNUNCIO

ANNUNCIO

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Per commentare bisogna accettare l'informativa sulla privacy.