Psicologia

Il malessere di un figlio e i sensi di colpa di una mamma

genitori

di Carolina Rossi e Giulia Palombo

Il malessere di un figlio a cosa può essere ricondotto? Le cause non sono mai banali e vanno sempre ricercate anche nella storia familiare che i genitori portano con loro dall’infanzia. Ecco alcuni sintomi che ci aiutano a comprendere che è necessario cambiare rotta per ritrovare l’equilibrio familiare.

La storia

Gianluca ha solo 10 anni e da sempre è un bambino molto preoccupato. Ultimamente sta soffrendo di stati di ansia pervasiva, apparentemente non attribuibili ad alcun cambiamento specifico nel sistema familiare e delle relazioni, che si manifestano soprattutto la sera. I genitori, Roberta e Carlo, rispettivamente 37 e 39 anni, sono molto preoccupati e spaventati, non capiscono come possa un bambino così piccolo presentare un sintomo così importante. In particolare sembra spaventata la madre che da circa sei mesi, in seguito ad un brutto momento vissuto nella relazione coniugale e con i suoceri, ha fatto ricorso alla psicoterapia per gli attacchi di panico che l’hanno riguardata. Quando i due genitori si rivolgono alla psicoterapeuta infantile, raccontano di essere sempre stati attenti nel proteggere sia Gianluca che la sorellina più piccola dalle varie difficoltà che loro vivevano come coppia, generate soprattutto dai rapporti problematici con le famiglie d’origine. Carlo racconta che Roberta, anche in passato, ha sofferto di attacchi di panico e più volte ha pensato che i problemi di Gianluca potessero essere legati alla personalità ansiosa e ipervigile di Roberta. Esplorando l’universo familiare emerge invece un mondo relazionale connaturato di affetti e legami mai facili, di cui la coppia stessa soffre. Le tante ansie di Roberta hanno una storia molto lunga, provengono dalla sua esperienza di figlia maggiore che ha assunto un ruolo genitoriale perché il papà era alcolizzato e la madre, ad un certo punto, ha incontrato un nuovo compagno ed è andata via. Roberta, affidata alla nonna paterna insieme ai fratelli, si è sempre occupata di loro, separandosene con tanta fatica emotiva solo quando, incinta, lei e Carlo hanno scelto di sposarsi. Oggi Roberta è molto dispiaciuta, vive con grandi sensi di colpa la possibilità che i suoi stati ansiosi possano essere stati assorbiti e, oggi, espressi dai bambini, in particolare da Gianluca.

Invitati dal pediatra a fare qualcosa per i loro figli, Carlo ha un’unica richiesta: quella di poter imparare “come fare bene i genitori”. D’altro canto anche Carlo, figlio unico, non ha alle spalle una vita familiare semplice ed il legame di coppia con Roberta porta tutti i segni di uno spazio relazionale costruito sulla base di un profondo bisogno di fuga, rispetto al quale nessuno dei due fino ad ora aveva preso consapevolezza. Oggi, molto teneramente, stanno scoprendosi anch’essi bambini con vissuti di sofferenza ancora non superati e, per la prima volta, si fermano e arrivano a comprendere che, più delle ansie del proprio bambino, hanno bisogno di prendersi cura di se stessi e del loro legame, culla inquieta e spaventata nella quale i loro bambini stanno crescendo.

La lettura del comportamento

Quando ci si trova davanti a un bambino che presenta dei sintomi di un problema, spesso si rischia di ricorrere semplicisticamente a spiegazioni del tipo “causa-effetto” e di pensare che a monte del problema del bambino possa esserci un adulto colpevole di averlo generato, del tipo: Gianluca è ansioso perché ha una madre ansiosa. Questo modo di leggere un comportamento sintomatico, evidentemente riduzionistico e troppo semplicistico, rischia di non essere funzionale alla risoluzione del problema e di contribuire invece ulteriormente a generare sensi di colpa e frustrazioni in una realtà che presenta dinamiche molto più complesse. Non si possono spiegare i problemi, considerando solo la diadicità dei rapporti, come se questi ultimi fossero determinati dal contributo di sole due persone, del tipo vittima-carnefice. La lettura del benessere dei singoli membri di una famiglia necessita di uno sguardo più ampio che analizza e tiene conto del sistema complesso di relazioni in cui, come in questo caso, è inserito il bambino che presenta il sintomo.

La letteratura scientifica, in tal senso, ci conferma che l’insorgenza di un disturbo nel bambino si colloca primariamente nell’area più ampia del conflitto familiare, possa essere esso esplicito o implicito. Come sostiene Baldascini, psicoterapeuta familiare, i singoli membri di ogni sistema familiare, padre, madre e fratelli s’influenzano reciprocamente e tutti sono influenzati sia dal rapporto fra famiglia nucleare e famiglia d’origine che dal rapporto con l’ambiente in cui l’unità funzionale vive.

Dunque va sempre esplorato il clima familiare per arrivare a “significare la funzione di un certo sintomo”. Ogni famiglia, lungo le differenti fasi del ciclo di vita, affronta diverse richieste di cambiamento che provengono sia dall’evoluzione dei singoli membri della famiglia che dagli stimoli del sistema socio-ambientale in cui essa è inserita. Le istanze di cambiamento innescano fasi critiche durante le quali tutti i membri devono necessariamente fare i conti con un cambiamento che li riguarda, anche in prima persona. Dunque esse sono un vero e proprio banco di prova per la maturazione e la crescita del singolo. La possibilità/capacità di adattarsi flessibilmente attiva ristrutturazioni interne in grado di promuovere nuovi modelli di interazione, diversamente l’incapacità di adattarsi promuove cristallizzazione e crisi sia nel sistema allargato delle relazioni che nei singoli membri.

Un modo particolare per mantenere “inalterata” una struttura familiare disfunzionale è quello di “scegliere” un suo componente e farlo diventare “il problema”. E spesso questo ruolo tocca ai bambini! Tanti sono i casi in cui un sintomo, nel figlio, si rivela essere l’espressione di un disagio nella famiglia: tentativo di tenere insieme i genitori, di ricomporre una frattura, di spostare l’attenzione da qualcosa, di produrre un cambiamento, di prevenire un cambiamento, o ancora, di riempire un vuoto o semplicemente di dare una ragione di vita. In fondo Gianluca, con il suo sintomo, ha procurato unione nei genitori.

Dunque, a fronte di dinamiche così complesse come possiamo attrezzarci? Abbiamo bisogno di bussole, non solo bussole che ci indichino come fare, ma tante volte anche cosa evitare!

Consigli

Riprendendo sempre Baldascini, proviamo qui ad indicare alcuni fattori di rischio che determinano un clima familiare poco adatto ad un sano sviluppo psicofisico del bambino, così da poter essere più consapevoli e scegliere meglio comportamenti e clima da promuovere.

Si tratta di fattori di rischio che possono essere contemporaneamente presenti o combinarsi in vari modi fra loro. Li riportiamo in un elenco qui di seguito perché i genitori possano consultare facilmente per identificare modalità relazionali sbagliate e poco funzionali al benessere familiare e del bambino e auguriamo a tutti i genitori un buon lavoro!

Invischiamento. Parliamo di invischiamento quando i membri della famiglia sono reciprocamente ipercoinvolti, quando cioè invadono i pensieri, i sentimenti e le attività gli uni degli altri. L’invischiamento non permette l’autonomia individuale e se un membro della famiglia sente una spinta verso l’autonomia, tutti gli altri – e forse egli stesso – si sentono in pericolo; i confini troppo deboli fra una generazione e l’altra e le ingerenze, ad esempio delle generazioni più anziane, rischiano di creare confusione tra i ruoli. Ad esempio, nelle famiglie invischiate, può capitare che una nonna detti legge sull’educazione dei figli e i genitori perdano il loro ruolo educativo.

Perché una famiglia funzioni bene, i confini tra i sottosistemi (quello dei genitori, quello dei figli, quello della coppia e quello delle famiglie d’origine) devono essere chiari. Debbono essere definiti in modo tale da permettere ai membri di esercitare le loro funzioni senza indebite interferenze, ma debbono permettere il contatto fra i componenti del sottosistema e gli altri (quindi le nonne non dettano legge ma consigliano, i figli non pretendono ma chiedono).

Iperprotettività. In questo caso i membri della famiglia mostrano un livello di premura e sollecitudine reciproca troppo elevato. L’idea di base è che bisogna proteggere l’altro dai possibili pericoli che corre nel suo rapporto col mondo esterno, in particolare ciò avviene nei confronti dei bambini. Questo atteggiamento porta il bambino a pensare che fuori dalla propria famiglia e dalla propria casa ci siano pericoli insormontabili. L’iperprotettività è fonte in molti casi di profonda insicurezza e scarsa autostima. Chi vive immerso in questo stile relazionale pensa a se stesso come ad una persona che da sola non è in grado di affrontare le difficoltà, proprio perché raramente nella sua vita ha sperimentato di essere in grado di risolvere autonomamente i problemi, essendoci stato sempre chi lo ha fatto per lei.

L’iperprotettività, quindi, non aiuta il bambino a sviluppare relazioni extra-familiari e sociali adeguate.

Rigidità. La famiglia si evolve nel tempo e, nel corso del suo ciclo di vita, si trova ad affrontare difficoltà ordinarie (la nascita dei figli, la loro adolescenza, l’invecchiamento dei genitori) e straordinarie (malattie, lutti, trasferimenti, cambi di lavoro, separazioni), ad essa è richiesta la capacità di adattarsi a questi cambiamenti modificando i modelli relazionali abituali e trovando una nuova organizzazione. Il cambiamento avviene sempre con una ristrutturazione interna che rende possibile l’acquisizione di nuovi modelli di interazione, tali da permettere l’integrazione delle nuove esperienze. Se ciò non avviene è questo un segnale delle difficoltà della famiglia, della sua rigidità e della sua inadeguatezza: la famiglia diviene, allora, “disfunzionale” e non è in grado di essere, come dovrebbe, sostegno ed incoraggiamento alla crescita.

Intolleranza alla conflittualità. Questo è il caso che si verifica quando la soglia di tolleranza al conflitto è molto bassa, per cui qualunque confronto che implica differenza di opinione viene evitato. In questo modo i conflitti non vengono risolti, bensì evitati, e spesso il sintomo del bambino è proprio un modo per contribuire al processo che evita il conflitto.

Coinvolgimento del bambino nel conflitto genitoriale. Nelle dinamiche conflittuali dei genitori il figlio non ha un ruolo passivo, ma si inserisce da attore protagonista. Alleandosi con l’uno o con l’altro genitore, il figlio gioca la sua parte attiva nel conflitto e spesso sceglie, in modo più o meno consapevole, di aderire a certi ruoli, anche altamente disfunzionali, come migliore strategia possibile di “sopravvivenza psichica”. Il costo di questo coinvolgimento può essere molto elevato e può esprimersi attraverso il sintomo: sensi di colpa, vissuti depressivi, ansia, sentimenti di abbandono, adultizzazione precoce, difficoltà di svincolo durante l’adolescenza.

Attività per promuovere dialogo e consapevolezza

Alla luce di tutto ciò, provate a ritagliarvi come famiglia un momento di confronto e a porvi reciprocamente delle domande esplorative che vi faranno meglio comprendere come ciascuno di voi vive le tematiche dei cinque punti sopra esposti:

  • Quanto ciascuno di noi sente di invadere o essere invaso dai pensieri e/o dalle emozioni altrui?
  • Quando e in che modo ciascuno di noi attiva la protezione verso gli altri e quanto invece sente che quella modalità protettiva gli attiva paure e diffidenza verso il mondo?
  • Ci sentiamo una famiglia flessibile e capace di fronteggiare i cambiamenti o ne siamo spaventati?
  • Pensiamo al conflitto come espressione di differenti modi di pensare che non rischia di causare rotture ma di arricchire, o siamo orientati a pensare al conflitto come negativo e quindi da evitare?
  • Quali sono le emozioni che vivo più frequentemente? In quali situazioni le provo? Cosa voglio evitare tante volte con i comportamenti che assumo?



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