XXVI Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - 1 ottobre 2017

Un litigio può pregiudicare una relazione di coppia?

di fra Vincenzo Ippolito

Non possiamo giudicare noi stessi e gli altri per una risposta affrettata, per un rifiuto ricevuto senza pensarci, per l’irruenza sperimentata. Neppure è bene lasciare che situazioni accidentali inclinino i nostri rapporti e determinino in negativo le nostre relazioni. Ripensando ai nostri rapporti in famiglia, dobbiamo dire che ci sono tante parole che si potevano evitare, espressioni fuori posto che era bene non dire.

Dal Vangelo secondo Matteo 21,28-32
In quel tempo, disse Gesù ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, và oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Dicono: «L’ultimo». E Gesù disse loro: «In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. E` venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli».

 

Con la pagina evangelica odierna, siamo a Gerusalemme, tra le mura della città santa. Gesù vi è entrato acclamato come re (cf. Mt 21,1-11), ha poi scacciato dal tempio quanti rendevano un covo di ladri la sua casa di preghiera e ha guarito i ciechi e gli storpi che si erano rivolti a Lui (cf. Mt 21,12-17). Sono gli ultimi momenti della vita del Signore ed il popolo, come il fico trovato lungo la strada (cf. Mt 21,18-22), non ha prodotto frutti di autentica fede e neppure, come l’Evangelista mostrerà nelle narrazioni che seguiranno, sarà disposto a lasciare che la parola del Nazareno scardini la loro supponenza e tutti conduca ad accogliere il suo annunzio di salvezza. Le relazioni con i Giudei si fanno ancora più tese (cf. Mt 21,23-27), ma questo non impedisce a Gesù di vivere l’amore coraggioso che si porta nel cuore e a giocare il tutto per tutto perché il popolo eletto viva la nuova ed eterna Alleanza che Egli è venuto a stipulare.
Anche noi siamo al seguito di Gesù. Con il nostro cuore in tempesta, camminiamo dietro al Maestro, ma sentiamo soffiare sull’albero maestro della nostra vita gli stessi venti contrari che sconvolsero il cuore e la mente dei discepoli. Stare nelle mura della città santa con Cristo, mentre tutti sono pronti a mutare gli “Osanna” di acclamazione nei “Crocifiggilo” di avversione e condanna a morte non è poi cosa da poco. Solo la preghiera può sostenerci nella prova per non vivere l’ammutinamento e lasciare solo il Signore.

Un nuovo insegnamento

Il linguaggio parabolico ci accompagna in queste ultime domeniche. Dopo quella sul perdono (cf. Mt 18,21-35) e sui servi chiamati a giornata (cf. Mt 20.1-16), la parabola che la liturgia oggi ci offre è più breve rispetto a quelle già lette ultimamente, ma non per questo meno incisiva. Interlocutori del Maestro sono i Giudei, i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo che prima si erano avvicinati per obbiettare sull’autorità con cui Egli insegna e opera prodigi (cf. Mt 21,23-27). L’Evangelista costruisce con sapienza la narrazione. C’è una introduzione costituita da una domanda (v. 28a), poi la breve parabola (vv. 28b-30), cui segue una nuova domanda del Maestro e l’applicazione della risposta dei Giudei al contesto storico nel quale Gesù annuncia il Regno di Dio. Lo stile è diretto, finalizzato a mostrare il comportamento ingiustificato dei capi dinanzi alla rivelazione di Dio in Cristo. Provocatoria è la domanda di Gesù, quel suo “Che ve ne pare?” (v. 28) serve a smascherare l’arroganza e la supponenza dei Giudei per mettere in luce la potenza del piano di Dio che “resiste ai superbi e fa grazia agli umili” (1Pt 5,5).
Entriamo anche noi, con l’umiltà che ci ispira la fede, in questo brano del Vangelo, per accogliere dalle labbra del Maestro la dolcezza della sua dottrina, la sua parola di vita che richiede la docile obbedienza per sperimentare in essa la gioia e la pace.

Il dialogo che Gesù intavola con i Giudei, palesemente nemici suoi e avversi al suo insegnamento, è collocata in un clima già chiaramente contrario al Nazareno. Questi non ha paura di disputare con i capi dei sacerdoti e con gli anziani – alla disputa con i saggi Gesù è abituato da quando aveva dodici anni, cf. Lc 2,46 – ed è interiormente mosso dal desiderio di smascherare la loro falsa religiosità e dimostrare quanto camminino nell’errore. Il modo migliore per discutere e permettere di non essere preventivamente rifiutati è l’esemplificazione, l’uso della parabola, il ricorso a racconti. È un genere antico, largamente usato nella Scrittura. Anche Natan, dopo che Davide ebbe peccato con Betsabea (cf. 2Sam 11), presentatosi al re, prima raccontò la parabola della pecora che l’uomo ricco rubò al povero e solo dopo applicò al re ciò che il racconto intendeva insegnare (cf. 2Sam 12,1-15). Così anche Gesù, prima racconta un fatto traendo da esso un insegnamento ben preciso e solo in seguito, quando i suoi interlocutori hanno compreso la conseguenza morale della narrazione proposta, applica alla situazione concreta ciò che Egli vuole mostrare con la precedente narrazione. Attraverso il suo raccontare, il Maestro insegna per immagini e mostra, con chiara evidenza, ciò che le sole parole spesso non riescono a far comprendere. Utilizzare le immagini, servirsi dei racconti, inventati o meno – classiche sono le favole di Esopo e di Fedro nella letteratura antica – risulta utile perché chi ascolta è condotto per mano alla morale che si vuole trasmettere e talvolta – è questo il nostro caso – è chiamato in causa in prima persona così che ci si senta non solo interpellato dal racconto, ma anche in un certo senso autore di quanto si viene narrando, visto che si interviene direttamente nel trarre l’insegnamento. In tal modo il Signore vuole che i suoi interlocutori non ascoltino passivamente, ma si sentano coinvolti nella ricerca della verità.
Abbiamo bisogno di questo tratto delicato del dialogare di Cristo. Egli conosce in precedenza quanto deve insegnare, ma non lo impone, guida i suoi attraverso le tappe di un graduale cammino di crescita e di maturazione, quasi facendo vedere che la verità la si cerca insieme, che è il frutto di un confronto costruttivo, di un dialogare pacato, di una volontà risulta di non vedere le cose che dividono – è la nota espressone di san Giovanni XXIII – ma, al contrario, ciò che ci unisce. È vero, le parole che Gesù rivolgerà ai Giudei in seguito non saranno dure e decise, mai però violente o pretestuose. In tal modo, il Maestro usa tutti i registri comunicativi finalizzati a permettere un cammino autentico di conversione e di ripensamento delle proprie idee, scelte e posizioni, falsamente ispirate alla Scrittura.

Alcuni temi della parabola che Gesù presenta – la chiamata, la vigna ed il lavoro – richiamano la pericope evangelica della scorsa domenica (cf. Mt 20,1-16), diverso, invece, appare il contesto, che non è più il rapporto padrone/lavoratore, ma padre/figli, come anche mutati sono i destinatari e l’insegnamento che Gesù ne ricava.
Un padre ha due figli – sembra che riecheggi qui la parabola del padre misericordioso di Lc 15,11-32 – e ad entrambi egli rivolge il suo invito: “Figlio, va’ a lavorare nella vigna” (vv. 28.30). Non è richiesta dal padre una sottomissione servile ai suoi comandi, ma una obbedienza filiale. Prima di tutto egli usa un vocativo “Figlio”, che non risulta un espediente voluto per carpire la benevolenza dell’altro, quanto, invece, per ricordare la relazione profonda che li lega. Così è Dio – sembra insegnare Gesù – si rivolge a noi non perché vuole la nostra dipendenza, ma perché siamo suoi figli e possiamo vivere nella gioia solo accogliendo, nell’obbedienza, la sua parola che è vita vera e che ci rende liberi. Il figlio è così invitato a comprendere che, alla base del comando rivoltogli, c’è una relazione vera e profonda, insostituibile e strutturante la propria stessa esistenza. È come se Dio dicesse Io ti parlo proprio perché tu sei mio figlio. Mi rivolgo a te e ti offro delle concrete indicazioni perché sei parte di me, del mio cuore, è da me che hai ricevuto la vita e la tua carne si è sviluppata da me, dal mio desiderio di comunicarmi in un atto d’amore. È di fondamentale importanza nella relazione con Dio comprendere che alla base di ogni legge, come fondamento di ogni norma, c’è un rapporto filiale. Dio è nostro Padre e noi siamo suoi figli. Non è il padrone che ci punisce e ci perseguita quando non facciamo ciò che vuole, ma il Padre che ci parla per indicarci la via della vita e della gioia. Se non comprendiamo questo, come Adamo ed Eva, vedremo sempre Dio come antagonista della nostra libertà, non come la sorgente della nostra vita.
Anche nella relazione educativa è importante legare le prescrizioni e le indicazioni che vengono offerte dai genitori alla ricerca sincera del bene dei propri figli. Una madre e un padre parla e chiede determinate cose non per capriccio, ma perché alla base c’è una mutua relazione di apparenza e la volontà di indicare la strada del bene. L’educazione sta alla maturità dell’intera persona come il nutrimento allo sviluppo completo della vita fisica. Non è mai superfluo ribadire la relazione che sta alla base di ogni intervento educativo, perché i figli devono avvertire di essere parte di un organismo vitale che è la famiglia e il loro essere figli richiede una relazione mutua con i genitori e tra loro che è imprescindibile. Quando non ci riconosciamo figli, viviamo da schiavi, come il figlio maggiore della parabola del padre misericordioso, non crediamo alla gratuità dell’amore, alla relazione profonda che ci lega in famiglia, crediamo di meritare l’affetto per quello che facciamo, non per il nostro semplice essere, per il nostro stare in famiglia, come dono di Dio. Il cammino della figliolanza, nelle nostre famiglie, come anche nella fede, non è semplice. Esso implica la consapevolezza della propria dipendenza che non è un limite, ma una ricchezza, se vissuta avendo la maturità e la crescita integrale della persona come fine da raggiungere.

Il cammino dell’obbedienza

La reazione dei due figli dinanzi al comando del padre è diversa, pur se essi dimostrano una eguale incapacità ad entrare nel cuore del padre. Entrambi, infatti, non riescono a capire il valore della parola loro affidata, la relazione affettuosa richiamata, la gioia di partecipare al lavoro della vigna di famiglia, un bene condiviso che è fonte di sostentamento per tutti. Il primo risponde: “Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò” (v. 29). Il secondo, senza tentennamenti, dice “Sì, signore; ma non andò” (v. 30). Gesù, allora chiede ai Giudei: “Chi dei due ha compiuto la volontà del padre. Risposero il primo” (v. 31). Sembra che la parabola richiami gli ultimi insegnamenti del discorso della montagna, quando il Maestro, seduto sul monte come nuovo Mosè, ebbe a dire: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore! Entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21). Non basta rispondere con le labbra alla chiamata del Signore. È necessario che la vita si orienti secondo quanto gli orecchi hanno ascoltato e il cuore ha accolto. Si tratta si vincere il perbenismo di facciata che contraddistingue la religiosità dei capi dei Giudei e andare al cuore della Legge, all’osservanza dei comandamenti, senza nessuna edulcorazione né menomazione. Non serve un Sì detto con le labbra – Isaia (29,13) ammoniva “Questo popolo si avvicina a me solo con la sua bocca e mi onora con le sue labbra, mentre il suo cuore è lontano da me” – una fede solo confessata non serve a Dio e non serve neppure a noi perché siamo chiamati divenire persone adulte, che vivono quello che dicono, che si impegnano a realizzare le promesse affidate alle parole che si pronunciano. La fedeltà alla parola data, l’impegno a perseverare nei patti stipulati, la determinazione a percorrere la via imboccata risulta essenziale, sempre. Il Sì pronunciato il giorno del proprio matrimonio, l’Eccomi della professione religiosa e dell’ordinazione presbiterale ha bisogno di essere confermato giorno per giorno, senza deviare dalla strada intrapresa.
Perché alle parole seguano le opere è necessario impegno e l’aiuto da parte di chi ci sta accanto, il sostegno e la preghiera fatta insieme, ma prima ancora di rispondere come il figlio della parabola è importante pensare, ben calcolare e verificare noi stessi, per non rischiare di aver corso invano. La superficialità nella nostra risposta si paga con la disobbedienza a Dio e con l’incapacità nostra a raggiungere la felicità e la comunione che il Signore ci dona, lavorando nella sua vigna. Non bisogna essere imprudenti nel parlare, ma è bene prima riflettere, usare al meglio il tempo per pensare, per poi rispondere non sull’onda dell’euforia o di sentimenti contrari, ma ponderando le proprie scelte e imprimendo alle parole la nostra ferma volontà di vivere ciò che diciamo.

Quello che maggiormente colpisce nella pagina odierna del Vangelo è il cammino che il primo figlio compie, spinto dalla parola del padre. Sulle prime si è rifiutato di obbedirgli, ha opposto un sonoro No a quanto gli era stato intimato, ma, rientrato in se stesso, ripensa, confronta le parole del padre e le sue parole e ritorna sui suoi passi. La perfezione non sta all’inizio, ma alla fine, non si è veri figli quando si risponde positivamente a quanto ci viene chiesto. Non possiamo giudicare noi stessi e gli altri per una risposta affrettata, per un rifiuto ricevuto senza pensarci, per l’irruenza sperimentata. Neppure è bene lasciare che situazioni accidentali inclinino i nostri rapporti e determinino in negativo le nostre relazioni. Ripensando ai nostri rapporti in famiglia, dobbiamo dire che ci sono tante parole che si potevano evitare, espressioni fuori posto che era bene non dire, ma non per questo dobbiamo credere che siano pregiudicate le nostre relazioni. Il primo figlio inizia un cammino, proprio come il prodigo scappato dalla casa paterna, incomincia a pensare, inizia a riflettere in sé. La parola del padre è stata sì rifiutata sulle prime, ma è lì ad aspettarlo, la parola di Dio sempre attende una nostra risposta, non si ritrae dinanzi ai nostri continui rifiuti. Il Signore attende una nostra positiva risposta, proprio come accade al figlio della parabola. L’obbedienza è un cammino per lui. La sua risposta non l’ha pregiudicato, anche se è stato un netto rifiuto. Egli ha preferito al lavorare nella vigna il seguire la sua volontà, non è riuscito a mettere da parte i suoi disegni davanti alla proposta del padre. Il “Non ne ho voglia” – letteralmente suono “Non voglio” – è un’affermazione perentoria e senza appelli della propria individualità. È come se avesse detto La mia vita la gestisco io, non prendo ordini da nessuno. Sono io che mi determino con quello che intendo fare. La mia volontà e lei sola guida le azioni della vita che è mia. Il primo figlio ha il coraggio di mettersi in discussione, non ha paura di ripensare a quello che è accaduto, non si indurisce nella pretesa di avere ragione, affermando nuovamente la sua volontà contro quella del padre. A che serve fare questo braccio di ferro tra quello che Dio vuole da noi e ciò che noi vogliamo da Lui? Il Signore desidera il nostro bene e lo persegue con la risoluta determinazione di chi ama, con la pazienza di chi si prende a cuore la vita dell’altro, con la speranza di chi affida al tempo le conquiste di una maturità che non può essere imposta. La crescita comporta un cammino che può durare tempi per noi lunghi e dolorosi, ma che risultano fondamentali per divenire adulti nella fede e nella vita.

Decidere di sé senza tener conto della parola dell’altro/a è la morte del rapporto, la fine di ogni relazione. Non si può dire di essere familiari, di appartenersi come coppia, di vivere da buoni amici se davanti a quello che l’altro mi propone io oppongo l’affermazione risoluto della mia volontà, se il mio io diviene il centro di ogni decisione. Vivere in famiglia significa tener conto dell’altro con cui vivo, della parola che egli mi dona, del consiglio che mi offre, delle provocazioni che mi rivolge per vincere il mio egoismo e costruire il noi che caratterizza il nostro essere famiglia. Se la parola dell’altro/a non mi scalfisce, se davanti a lui/lei affermo le mie idee, la mia volontà, come possiamo dire di costruire insieme la storia che il Signore ci ha affidati? Ogni qualvolta affermiamo il nostro io e parliamo al singolare, volendo negare l’unità che il sacramento nuziale ha creato, quando crediamo che dalla parola dell’altro/a venga la morte e non la vita, quando ci ripieghiamo a dire “Non lo voglio” invece di ripetere ciò che davanti all’altare abbiamo pronunciato “Sì, lo voglio … lo voglio con la grazia di Dio, lo voglio”, distruggiamo la nostra vita e non costruiamo la nostra famiglia. In quei momenti siamo chiamati ad avere pazienza, perché il Signore non tarderà ad illuminarci con la sua grazia e a condurci per mano a vedere che, pur senza volerlo, stiamo remando contro il disegno che Egli in principio ci ha affidato. Bisogna avere coraggio di mutare la nostra decisione, di rivedere le nostre idee, di ritornare sulla parola che ci è stata affidata, con l’umiltà di chi sa riconoscere le proprie colpe. Così il figlio ritrova la strada della serenità e nell’obbedienza sperimenta la gioia.

Dio, il Padre che attende il nostro ravvedimento

C’è un particolare della parabola che è bene non farsi sfuggire ed è la pazienza che il padre dimostra nel dialogo con i figli. Non reagisce dinanzi al rifiuto del primo figlio e non esulta davanti alla disponibilità del secondo. Sa che è necessario aspettare, desidera vedere cosa essi faranno. Dalle sue labbra non ascoltiamo né parole di biasimo né di lode, perché il ruolo del padre è quello di offrire possibilità di vita vera, sempre, è suo compito aprire strade nuove per camminare nella responsabilità, crescendo nella comunione. È la vita, la concretezza della quotidianità che dirà chi e come ha obbedito. È bello vedere che, dinanzi al rifiuto del primo figlio, il padre non si adira né mugugna con di lui. Accoglie il rifiuto, prende atto dell’affermazioni della sua volontà e gli lascia tempo. Rifiuta di rispondere perché sa che sarebbe inutile. Lascia solo che la sua parola faccia breccia nel cuore del figlio. Aspetta che giungano tempi migliori. Si matura nella responsabilità, si cresce nella libertà, a nulla servono imposizioni e parole forte che hanno l’effetto contrario. Quando non ci sono possibilità di dialogare – il padre lo dimostra bene – è totalmente inutile aggiungere ogni parola.

C’è una sintonia stupenda tra il silenzio del padre misericordioso che divide tra i suoi figli le sostanze (cf. Lc 15,12), assecondando la pretesa del minore e l’imperturbabilità del padre della parabola di oggi che non si adira, né si turba dinanzi alla palese disobbedienza del figlio. Se riuscissimo anche noi a saper meglio comprendere gli scatti dei nostri figlio! Dovremmo, perché anche noi siamo stati figli e non possiamo di ceto dire di essere stati migliori di loro, perché i nostri piccoli o grandi atti di ribellino anche noi li abbiamo vissuti. Allora perché siamo così intransigenti dinanzi ad un loro rifiuto? Perché chiediamo loro l’obbedienza cieca che noi per primi abbiamo faticato a vivere alla loro stessa età? Dovremmo partire da noi per capire che c’è bisogno di tempo per superare la fase della ribellione e il credere – solo il tempo lo dirà infondato – che un genitore imponga la sua volontà e che non cerchi il vero bene del figlio. Ci vuole tempo perché risulti infondata la pretesa di affermare la propria volontà come unica strada per vivere nella gioia e nella pace. Ci vuole tempo per vedere che la parola dell’altro ci propone vie nuove da battere per essere maturi, non steccati nei quali sentirsi al chiuso, schiavi e non liberi di mettere a frutto i talenti a noi elargiti dal Cielo. Per il padre non è importante ciò che si dice, ma quello che si fa. La sua attende il lavora alacre dei figli, di tutti coloro che, come i servi della parabola della scorsa domenica (ci. Mt 20,1-16), in ogni ora offrono le loro energie. La vigna del Padre celeste è la Chiesa, la mia famiglia, la comunità di cui faccio parte. Non posso godere dei frutti, né pretenderli senza da parte mia un lavoro di collaborazione e di mutuo aiuto. Il Signore vuole avere bisogno di noi, ma sa attendere con pazienza il nostro pentimento, il passare dal rifiuto palesato all’obbedienza silenziosa. La parola del padre è vita per noi, fuori dalla sua vigna non c’è gioia.

L’insegnamento della parabola è nelle battute finali del brano odierno. Come i Giudei, anche noi dobbiamo capire che non è l’appartenenza al popolo d’Israele – per noi alla Chiesa, ad una famiglia cristiana – che ci assicura la salvezza, ma la capacità di obbedire sul serio a quel Dio che non è antagonista della nostra realizzazione, ma la sorgente della gioia che ci attende. Non possiamo accontentarci di una fede fatta di parole vuote, ma priva di una incidenza significativa nel nostro vissuto. Non sono le opere a renderci giusti, così come la sola fede non basta a dirsi veri discepoli del Signore. È importante che le opere manifestino la fede e che la fede plasmi dal di dentro le opere. La salvezza è un cammino, il passaggio dalla disobbedienza a Dio in nome dell’affermazione del proprio egoismo alla fiducia smisurata in Lui che, proprio perché vuole il nostro bene più di quanto noi lo vogliamo e siamo in grado di attuarlo, è degno di fede e di totale obbedienza. Dio è il Padre che tutti accoglie, la strada del ravvedimento è aperta a tutti, anche a noi che crediamo di essere tra le novantanove pecore che non hanno bisogno di conversione. Il figlio che resta in casa ancor più del prodigo ha necessità di comprendere la misericordia del padre. Gesù ce lo ha anticipato, tanti ci passeranno davanti nel regno per l’obbedienza di cuore a lavorare nella sua vigna, anche se giungono, come il buon ladrone, all’ultimo rispetto a noi altri. Dio ci manda sempre profeti che, come il Battista, sono voce di conversione e penitenza. Perché allora rischiare di essere estromessi dall’entrare nel Regno?




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1 risposta su “Un litigio può pregiudicare una relazione di coppia?”

Signore salvaci …Maria aiutaci.. la croce c’è ma è del Risorto. grazie perdono aiuto… chiediamo.. e noi umilità semplicità sacrificio preghiera. Ave Maria e avanti … ascolta radioMaria

Ricordatevi sempre che per mezzo della Croce di Cristo è vinto il maligno, è sconfitta la morte, ci è donata la vita e restituita la speranza.

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