I Domenica di Avvento - Anno B - 3 dicembre 2017

Dalla fiducia accorata alla fedeltà offerta

di fra Vincenzo Ippolito

Oggi non è semplice vivere la fedeltà al proprio ruolo ed essere responsabili nel compito che il Signore ci ha affidato. Eppure è questa la radice della gioia, l’obbedienza a ciò che il Signore chiede. Abbiamo bisogno di recuperare il piano oggettivo della realtà e comprendere che siamo sulla terra per un progetto d’amore da conoscere e vivere nel modo più bello.

Dal Vangelo secondo Marco 13,33-37
Vegliate: non sapete quando il padrone di casa ritornerà.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».

 

La I Domenica di Avvento è come il segnale di inizio di una corsa. Tutti i partecipanti, in trepidazione, attendono di scattare sulla pista e, mentre guardano il giudice che proclamerà il via, si riscaldano sui propri posti, senza perdere la concentrazione. Così siamo anche noi, pronti a scattare ai molteplici segnali della liturgia di questo tempo – il colore violaceo, non si canta l’inno Gloria, uso moderato degli strumenti musicali e dei fiori nell’aula liturgica – per iniziare, con il nuovo anno liturgico, a ripercorrere le tappe della vita di Gesù e a sperimentarne la gioia e la salvezza.
Se la scorsa domenica, solennità di Cristo Re dell’universo, abbiamo tagliato il traguardo, sostenuti nella corsa dal nostro “allenatore”, l’evangelista Matteo, che non ci ha dato tregua, nell’unico intento di portarci alla meta, senza cadere in nessuna penalità, dopo appena una settimana – nella vita cristiana, chi si ferma è perduto, non dobbiamo mai dimenticarlo! – ci rimettiamo in cammino per ricominciare la corsa, con alcuni cambi. Siamo nell’anno B, il nostro coach è san Marco che, nella docilità allo Spirito, ci guiderà a muovi traguardi, con la lettura continua del suo Vangelo. Sedici capitoli, con scene semplici e personaggi dai dialoghi intensi, scandiscono la sua narrazione, tutta incentrata a dimostrare che Gesù è il Figlio di Dio (cf. Mc 1,1). Il lettore è, così, invitato a mettersi al seguito di Gesù per confessare la sua fede come Pietro (cf. Mc 8) e riconoscere nel Crocifisso, come il Centurione, la manifestazione di Dio (cf. Mc 15,39).
Mentre nel Tempo Ordinario leggeremo in maniera continua il Vangelo secondo Marco, nei tempi definiti forti (Avvento, Natale, Quaresima, Pasqua) la Chiesa ci offre brani scelti del medesimo testo evangelico, pagine che meglio possano guidarci ad interiorizzare il mistero della vita di Gesù Cristo che ci viene proposto. Così l’Avvento non inizia oggi proponendoci un brano tratto dal primo capitolo del Vangelo – come noi ci aspetteremo – ma, attraverso narrazioni ad hoc, ci offre di scandire la nostra attesa in una dimensione duplice: sperimentare la gioia del rivivere la nascita di Gesù Cristo – il Signore è venuto e viene, è la preparazione prossima al Natale che celebra il mistero dell’Incarnazione – e attenderlo nella speranza quando ritornerà alla fine dei tempi – Il Signore verrà, è l’indole escatologica dell’Avvento – tenendo così il nostro sguardo rivolto all’eternità di Dio. In tal modo le quattro settimane che scandiscono il tempo di Avvento, oltre a prepararci al Natale – quasi continuando la riflessione sul ritorno di Cristo e sul giudizio della storia dell’ultimo periodo dell’anno liturgico – ci donano di comprendere che il Figlio di Dio venuto nella carne, ritornerà. La Chiesa sempre canta il suo “Maranathà, Vieni Signore Gesù” ed attende, sulla promessa del suo Signore, di entrare con Lui, suo Sposo, nelle nozze eterne.
Non ci resta che prepararci sulla linea di partenza ed attendere il segnale per iniziare la corsa, tenendo sempre lo sguardo fisso su Gesù, mentre ascoltiamo di Lui nel Vangelo e scorgiamo i segni della sua presenza nella storia.

Un mistero svelato a pochi eletti

Già l’evangelista Matteo, in queste ultime domeniche, ci ha portati a sostare a Gerusalemme, nel tempio o anche sul monte degli Ulivi, per ascoltare il Maestro che indicava ora ai suoi avversari ora ai discepoli, il mistero del Regno che si compirà in maniera definitiva alla fine dei tempi. Con la pagina del Vangelo odierno lo stesso scenario ci è proposto da Marco che ammonisce ad essere vigilanti (cf. Mc 13,33-37), a ridosso della narrazione della Passione e della Resurrezione del Signore. Il luogo dell’insegnamento di Gesù – come in Matteo (cf. 24,3) – è il monte degli Ulivi (cf. Mc 13,3a), ma a differenza del primo Evangelista, interlocutori del Nazareno, secondo il racconto di Marco, sono Pietro, Giacomo, Giovanni, Andrea (cf. Mc 13,3b) che, con la loro domanda (cf. Mc 13,4), portano Gesù a chiarire la sua profezia sulla distruzione del tempio (cf. Mc 13,2). L’intero capitolo tredicesimo sviluppa il tema del ritorno del Figlio dell’uomo e proprio questa realtà giustifica l’esortazione alla vigilanza e all’operosità che conclude il capitolo. Proprio questi versetti (33-37) mostrano l’atteggiamento con cui i discepoli devono attendere il ritorno del Signore, vincendo l’apatia e la noia che può sopraggiungere quando si manca di fede o il Signore sembra tardare.

Desti e vigilanti nell’attesa

Il brano evangelico che la liturgia della I Domenica di Avvento (13,33-37) ci dona, si apre con un imperativo “State attenti” (v. 33) – che a ben vedere percorre l’intero capitolo (cf. Mc 13,5.9.23) – e si chiude con un nuovo imperativo “Vegliate” (v. 37). Entrambi stringono come in una morsa il nostro brano, rendendolo compatto e, al tempo stesso, offrendo le coordinate essenziali per comprenderne l’insegnamento. Significativo è poi notare che anche un altro imperativo, “Vegliate”, è più volte presente (v. 34.35.37 nel v. 33 del testo greco, il verbo è diverso, pur se tradotto dalla CEI con un “Vegliate”, sarebbe bene, per mostrare la differenza dei termini, renderlo con “Siate desti”). La struttura del brano diventa quindi chiara: tra la richiesta pressante di attenzione e l’esigenza della vigilanza, le figure dei servi che ricevono dal padrone l’amministrazione della casa e il suo potere (v. 34a) e quella del portinaio (v. 34b) rendono plasticamente cosa significhi attendere il Signore e orientare alla sua venuta tutta la propria esistenza. Nel nostro brano, difatti, l’Evangelista presenta in maniera stringata le esortazioni che negli altri Sinottici verranno sviluppate in parabole vere e proprie, si pensi a quella del servo fidato a cui il padrone ha consegnato l’amministrazione della sua casa (cf. Mt 24,45-51; Lc 12,32-46) o anche quella dei talenti (cf. Mt 25,14-30; Lc 19,12-27). Si tratta dello stile proprio di Marco a cui dobbiamo abituarci, entrando nel testo con acume e perspicacia, lasciando che sia lo Spirito a farci intendere ciò che Egli ha racchiuso, come promessa di bene, nelle parole umane.

Non è semplice per noi stare attenti, vegliare su noi stessi, la nostra condotta di vita, custodendo i doni di Dio, mettendoli a frutto nel modo migliore. Siamo bersagliati da ogni parte e ritagliarsi dei tempi di silenzio per fermarsi e divenire coscienti di ciò che stiamo facendo, con le nostre continue corse, appare quasi impossibile. Basta vedere il ritmo frenetico delle nostre famiglie e comunità. Non c’è un attimo di tregua e l’operosità che il Vangelo ci raccomanda diviene attivismo sfrenato. Quando poi potremmo utilizzare dei momenti per rigenerare il nostro cuore alla sorgente della Grazia, attraverso la lettura della Scrittura, la recita di un salmo o anche di un buon libro che nutre il nostro cuore, o siamo troppo stanchi per una riflessione attenta ed un incontro fruttuoso con il Signore, oppure scappiamo perché il silenzio ci fa paura, disabituati a fare verità in noi stessi, mettendoci dinanzi a Dio per accogliere la sua presenza e sperimentare la sua misericordia. Eppure abbiamo bisogno della luce per conoscere il vero e il bello, il giusto e il buono. Per questo dovremmo far nostra la preghiera del giovane Francesco, che all’inizio del suo cammino di conversione, chiede: “Altissimo e glorioso Dio, illumina le tenebre del cuore mio” (Preghiera davanti al Crocifisso, FF. 276). Come il sole può illuminare il nostro volto solo se ci esponiamo ai suoi raggi, così possiamo stare attenti e vigilare solo se abitiamo il silenzio e rientriamo in noi stessi. La vigilanza è una dimensione del cuore, uno status dell’anima che ricerca Dio. Non possiamo sempre far finta di non aver tempo per noi stessi, dicendoci che le cose da fare sono tali e tante che solo noi possiamo e dobbiamo farle. Tutti questi sono degli alibi, perché non sono sempre gli altri che approfittano della nostra bontà e disponibilità, ma spesso siamo anche noi che non lasciamo spazio a loro e ci sentiamo spodestati, se non siamo noi a gestire tutto.

Perché non dire con chiarezza a noi stessi che abbiamo paura di abitare il silenzio e di guardare in faccia la nostra storia, senza sentire le vertigini delle alte quote del nostro egoismo? Perché non imparare una buona volta l’arte della vigilanza, rendendoci conto che tutto ciò che facciamo non ha senso, se non fatto in Dio e per Lui? Perché non riusciamo a stare attenti alle piccole cose nei nostri rapporti familiari, custodendo parole, espressioni, atteggiamenti che non aiutano la crescita della comunione tra noi, ma che affossano ogni intenzione bella, buona e santa che il Signore mette nel cuore? Perché questo tempo di Avvento non decidiamo di viverlo in modo diverso, aspettando il Signore che viene e verrà sempre, che anzi è già parte del nostro amore, perché è Lui ad unirci, ma forse ha bisogno di risorgere nei sepolcri dei nostri cuori? Perché non aiutarci nel vincere il sonno, pregando con perseveranza per l’altro/a e con l’altro/a, sostenendoci quando il nostro cuore non sa o non vuole vegliare?

Marco, oltre ad esortarci ad essere desti nell’attesa del Signore, mostra anche il motivo della vigilanza. La ragione della veglia è l’indeterminazione della nostra vita – “perché non sapete quando è il momento” (v. 33) – perché sono maggiori le cose che non sappiamo, rispetto a quelle che conosciamo e viviamo. Già prima il Maestro lo aveva detto, stroncando ogni curiosità: “Quando però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre” (V. 32). Il non sapere ci deve portare a stare desti, la nostra insipienza a non credere di potercela cavare, perché il Signore tarda a venire (cf. Mt 25,48). Gesù ci chiede di vivere la precarietà e di accogliere il mistero non solo di Dio, ma anche della nostra stessa vita. Non ha fatto questo Lui, Figlio di Dio, quando è venuto sulla terra? Non ha forse assunto tutto di noi, eccetto il peccato? Precarietà non è forse stata la sua sorella fin dalla greppia di Betlemme? Gesù si è lasciato guidare dalla voce del Padre suo e nostro ed ha accolto la sfida a camminare nella sua volontà, ascoltata nel cuore suo e scritta nella storia.
Indeterminazione, insipienza, precarietà, limite sono situazioni che rifiutiamo e non accogliamo, perché ci portano a perdere il controllo, anche di noi stessi, impedendoci di pianificare la nostra vita. Invece dobbiamo sempre ricordare che noi siamo nelle mani di Dio, è Lui a custodirci, perché ci ama e sa quello che è bene per noi. Accogliere la nostra strutturale dipendenza da Lui, sposare la nostra precarietà esistenziale, non presumere di sapere sempre tutto sono passaggi obbligati per crescere nella fede ed essere uomini e donne veri.

Il motore dell’attenzione e della vigilanza, come anche dell’accoglienza della precarietà e del mistero – non dobbiamo mai dimenticarlo – è l’amore. È l’amore che dona senso al nostro abitare il silenzio dell’altro/a ed il suo rifiuto; è l’amore che ci fa attendere i suoi tempi, nella preghiera e nell’offerta, divenendo segno del Cuore di Cristo che tutto accoglie e nulla pretende; è l’amore che mi rende desto, incapace, pur se il mio corpo sento la fatica della veglia, di non farmi vincere dal sonno; è l’amore che mi porta a custodire la casa del cuore dell’altro/a senza sentirmi padrone della sua vita; è l’amore che mi fa stare sulla porta della vita della persona che si ama, per entrare solo quando l’uscio verrà aperto dall’interno. Non è forse questa la nostra esperienza? Tutto fa l’amore, ma senza amore, tutto è vano!

Dalla fiducia alla fedeltà

Per comprendere cosa comporti lo stare attenti e vegliare, l’Evangelista ci offre due immagini, semplici ed incisive. Scrive san Marco: “È come un uomo, che partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare” (v. 34). I paragoni non sono nuovi, dopo aver ascoltato, in queste ultime domeniche, alcune parabole del Vangelo secondo Matteo, dallo stesso tenore argomentativo. Ciò che colpisce qui è, invece, l’indicazione, tutt’altro che secondaria, “a ciascuno il suo compito”. L’attenzione e lo stare desti – sembra dirci l’autore ispirato – deve concretizzarsi nella disponibilità fattiva ad essere buoni amministratori, a comportarsi come il padrone si aspetta e non a decidere in modo arbitrario dei beni non propri, durante l’assenza del padrone. Questi ha compiuto due gesti di estrema fiducia nei riguardi dei servi: ha lasciato loro la propria casa e ne ha dato il potere. L’Evangelista fa intendere che la benevolenza del padrone non genera l’anarchia, né offre la possibilità di istaurare il potere del più forte, a cui si assoggettano i deboli ed insicuri. Egli, prima di partire, organizza la sua casa, affida delle mansioni, stabilisce un ordine, responsabilizza i servi, dando loro uno specifico compito. La sua casa è come un corpo, ciascuno opera in comunione con l’intero organismo che non solo benefica del lavoro del singolo, ma lo sostiene ed offre a ciascuno il necessario per compiere al meglio il suo specifico impegno. Il Signore, affidandoci dei compiti nella sua casa che è la Chiesa, ripone in noi massima fiducia. La risposta che Egli si attende è la fedeltà al dono suo da custodire con responsabilità e da far fruttificare con impegno. Come “a ciascuno è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo” (Ef 4,7), così il padrone partendo ha dato “a ciascuno il suo compito”, il suo posto, la sua occupazione, il suo impegno, la sua responsabilità. L’armonia in una famiglia, come anche in una comunità religiosa ed ecclesiale, è data dalla capacità di conoscere le proprie capacità e di metterle a frutto per il bene della comunione, secondo Dio. Come “non può l’occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te“; oppure la testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi” (1Cor 12,20-21), così nessuno può prendere il compito di un altro, come la mano non può dire al piede Cammino tu o il braccio all’orecchio Io ascolto al tuo posto. A ciascuno il suo compito, secondo le capacità ricevute in dono. Se il Signore a ciascuno di noi ha dato un compito, questo significa che dobbiamo viverlo con serietà ed impegno, non prendere sotto gamba la mansione ricevuta, sia perché ci è stata affidata da Dio, sia anche perché non possiamo accogliere invano la grazia.
Perché si viva nell’armonia e la pace sia il frutto dell’operosità di tutti è importante che ciascuno conosca il suo compito e, cosciente del dono ricevuto, metta ogni impegno perché il suo lavoro vada a beneficio della bellezza e della gioia dell’intera casa. Bisogna evitare le interferenze nei compiti degli altri, dimenticando le proprie responsabilità, come è necessario che le relazioni nella casa, tra i servi, non siano scandite da gelosie e rivalità, invidie e contese, perché solo se tutti rimangono al posto che il padrone di casa ha assegnato a ciascuno, solo allora ci sarà la gioia. Come nella casa non tutti fanno tutto, ma ciascuno ha il suo impegno, così nella Chiesa, ci sono ministeri diversi, diversità di operazioni, ma è sempre Dio “che opera tutto in tutti” (1Cor 12,6). Cristo ha voluto la sua Chiesa costituita nella diversità dei ministeri – fedeli laici, presbiteri e vescovi, consacrati al servizio del Regno – ma coloro che hanno ruoli di autorità, non solo sono al servizio dei fratelli, ma devono lavorare per la comunione e l’unità. È questo il segno della fedeltà al Signore e dell’opera dello Spirito tra noi. Tra marito e moglie, come anche tra i membri di una comunità, lo Spirito Santo genera l’unità dalla diversità, solo se c’è il desiderio di lasciarsi abitare da Dio. Anche in famiglia, come in un corpo, i ruoli non possono essere cambiati, pena la disarmonia, soprattutto nei figli, e una vita scandita dallo squilibrio e dalla confusione.
Oggi non è semplice vivere la fedeltà al proprio ruolo ed essere responsabili nel compito che il Signore ci ha affidato. Eppure è questa la radice della gioia, l’obbedienza a ciò che il Signore chiede. Nella società attuale non c’è chiarezza di ruoli e l’uomo crede di poter decidere in maniera arbitraria tutto e il suo contrario. Abbiamo bisogno di recuperare il piano oggettivo della realtà e comprendere che siamo sulla terra per un progetto d’amore da conoscere e vivere nel modo più bello. Solo così la nostra vita non sarà un caso, ma una possibilità per sperimentare la gioia. Dalla fiducia accorata alla fedeltà offerta è questo il circolo virtuoso che ci porta a gioire dei doni di Dio e a metterli a frutto tra noi, senza riserve.

Vincere il sonno, per la Parola di Cristo

Il brano evangelico di oggi suona come una continua esortazione alla vigilanza per combattere il Nemico che è sempre in agguato. È lui, infatti, ad insinuare in noi il pensiero che il padrone ritardi e quindi possiamo approfittare della sua assenza per fare delle sue cose ciò che il nostro egoismo vuole e continuamente pretende. Per questo il Maestro ci ammonisce “Fate in modo che, [il padrone] giungendo all’improvviso non vi trovi addormentati” (v. 36). Bisogna fare i conti con la propria debolezza e con le fragilità che scandiscono, pur non volendolo, il nostro cammino. Nella parabola delle dieci vergini (cf. Mt 25,1-13) il sonno accomuna tutte, sagge e stolte, come una battuta d’arresto nella veglia, in attesa dello sposo. Il problema non è tanto il dormire, ma non accorgersi della venuta del Signore o, peggio ancora, farsi trovare addormentati, segno di una mancata fedeltà all’ordine ricevuto e di una vigilanza non vissuta con responsabilità. Il non addormentarsi è il segno più bello di quanto grande sia l’amore e di come l’attesa generi gioia ed operosità perché il padrone si renda conto che la fiducia riposta nei servi non è stata vana.
Il commento più chiaro della nostra pagina evangelica è il racconto della preghiera di Gesù nel Getsemani (cf. Mc 14,32-42). In quell’orto, il Maestro, prossimo alla passione, conduce i suoi discepoli per poi scegliere Pietro, Giacomo e Giovanni – tre dei quattro ai quali Gesù sta rivolgendo le parole del Vangelo odierno, sul monte degli Ulivi – perché veglino in preghiera con Lui. Mentre nel nostro brano si dice che i servi devono vegliare operando secondo gli ordini ricevuti, nel Getsemani il Maestro indica nella preghiera la strada per non essere sopraffatti dalla tentazione, così da non soccombere alla prova. Ma per gli apostoli non è semplice vegliare e pregare, come il Signore ha chiesto loro e come Lui stesso mostra di fare, abbandonandosi completamente all’abbraccio del Padre. Si assopiscono “perché i loro occhi si erano fatti pesanti” (Mc 14,40), dimostrando di non aver fatto tesoro di quanto il Signore aveva donato loro sul monte degli Ulivi. Questo non pregiudicherà la corsa del loro discepolato, perché il Risorto sempre dona ai suoi energie nuove per rialzarsi, imparando dalle cadute a non confidare in se stessi, ma ad abbandonarsi totalmente in Dio.
Vegliare nell’attesa, essere desti pregando, operare, senza perdere tempo: sono queste le indicazioni che l’evangelista Marco ci dona, per continuare la corsa, nell’attesa della venuta del Signore.

La Corona dell’Avvento in famiglia

In un angolo della casa ben in vista oppure accanto al presepe che si sta allestendo, si preparino quattro candele per richiamare l’impegno di ogni famiglia a vegliare e pregare durante le quattro settimane che formano il Tempo di Avvento. Si pensi ogni giorno a ritagliare un po’ di tempo per leggere insieme un salmo oppure per una decina del rosario o per una preghiera spontanea. Quella che segue, rivolta a Maria, Madre di Gesù e nostra, ed ispirata al Vangelo della Prima Domenica di Avvento, può guidare il nostro pregare in famiglia.

Vergine dell’attesa,
insegna alla nostra famiglia
la gioia di attendere il Verbo che in te si è fatto uomo.
Donaci il silenzio dei tuoi nove mesi,
il tuo stupore nell’accogliere l’Altissimo,
la docilità del tuo cuore
nel fargli spazio senza riserve,
il desiderio di partecipare ai fratelli,
come facesti con Elisabetta,
lo Spirito che abita in noi.
Rischiara il buio del cuore con la luce della tua visita,
infondi coraggio alle nostre menti,
sussurrando le parole
che acquietano ogni tempesta,
vinci ogni paura, stringendoci a te.
La nostra veglia sia gravida di carità,
i silenzi di preghiera,
la nostra famiglia della gioia dell’unità.
Tu, Madre e Sorella nostra,
mostraci sempre Gesù,
il frutto benedetto del tuo seno immacolato.
Amen

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