III Domenica di Quaresima - Anno B - 4 marzo 2018

Cristo è il prezzo del nostro riscatto nell’amore

di fra Vincenzo Ippolito

Non sono i sacrifici senza numero che nel tempio si offrono ad assicurare la comunione con Dio, ma l’offerta di Cristo, il suo corpo martoriato, le sue membra sfigurate sono il prezzo del nostro riscatto, il segno che a tutti gli uomini è donata la salvezza e la vita.

Dal Vangelo secondo Giovanni 2,13-25
Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».
Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.

 

La liturgia della Terza Domenica di Quaresima ci conduce nel tempio di Gerusalemme, cuore della fede giudaica. Gesù, tra i primi gesti che compie all’inizio della sua vita pubblica, c’è quello, altamente simbolico, di scacciare quanti dissacrano la casa del Padre, facendola divenire un mercato. Giovanni, l’autore di questa pagina evangelica – i Sinottici collocheranno questo gesto di Cristo a ridosso della sua Pasqua di morte e resurrezione – ci dona tra le righe delle significative indicazioni che mostrano come ogni azione profetica di Cristo sia orientata al compimento della sua missione, visto che il suo cuore, trapassato dal colpo di lancia, sarà il tempio di Dio sempre aperto per accogliere ogni uomo, assetato di vita e salvezza.
Come sfondo a questa pagina evangelica, la Prima Lettura (Es 20,1-17) ci mostra la consegna del Decalogo a Mosè, sul monte Sinai. Codice di alleanza e via di libertà per il popolo uscito dall’Egitto le dieci parole – così vengono definite – rappresentano la carta fondamentale per Israele, i criteri da attuare nella relazione con Dio e con i fratelli. La legge, però, anche se rimarrà punto di riferimento costante per la comunità cristiana (cf. Mt 5,18), è un pedagogo che ci conduce a Cristo (cf. Gal 3,24), perché è Lui la pienezza della legge, nel suo amore troviamo la bussola della nostra vita e il metro di giudizio delle nostre azioni. È questo che san Paolo afferma, nelle battute iniziali della Prima Epistola ai Corinzi, di cui leggiamo alcuni significativi passaggi come Seconda Lettura (cf. 1Cor 1,22-25). L’Apostolo, nelle difficoltà emergenti in quella comunità, vuol ricordare che Cristo crocifisso è il cuore della predicazione cristiana, anche se questo comporta andare controcorrente, rispetto alla mentalità imperante nel mondo.
Il mistero di Cristo Gesù, crocifisso e risorto per noi, è il cardine della nostra professione di fede – sembra dirci la liturgia, in questa terza sosta nel nostro cammino verso la Pasqua – più ci immergiamo nella sua morte, più noi saremo creature nuove, per la vita dello Spirito che Egli ci dona, nella sua resurrezione.

Casa del Padre o mercato?

Iniziando da oggi, le pericopi evangeliche di queste ultime tre domeniche di Quaresima sono tratte dal Vangelo secondo Giovanni e guidano il nostro cammino in preparazione alla Pasqua: oggi leggiamo la narrazione della cacciata dal tempio dei mercanti e dei cambiamonete (cf. Gv 2,13-25), come se la Chiesa volesse dirci: nel tempio del tuo cuore cosa regna, Dio o il denaro? La prossima domenica, leggendo dell’incontro notturno di Gesù con Nicodemo, uno dei capi dei Giudei (cf. Gv 3,14-21) ci verrà detto: Cristo verrà innalzato sulla croce per attirare il tuo sguardo e donarti vita, Egli che non è venuto per giudicare, ma per salvare il mondo; nella V Domenica di Quaresima, ascolteremo poi di alcuni greci che, avvicinatisi a Filippo per vedere Gesù, motivano l’insegnamento sul chicco di grano che, morendo, produce molto frutto (cf. Gv 12,20-33).

La pagina evangelica odierna segue la settimana inaugurale della vita pubblica di Gesù (cf. Gv 1,19-2,11) – parlare di settimana è convenzionale, visto che gli eventi narrati sono raccolti nell’arco di sei giorni – e rappresenta una sorta di brano programmatico, con la ripresa di alcuni temi già presentati dall’Evangelista nel racconto delle nozze di Cana (cf. Gv 2,1-11). Gesù, dopo essere rimasto alcuni giorni a Cafarnao, insieme a sua madre, i suoi parenti e i discepoli (cf. Gv 2,12), sale a Gerusalemme, nelle prossimità della pasqua. L’Evangelista lega la prima visita di Gesù nella città santa alla più importante festa del calendario giudaico, già proiettando la luce della resurrezione, in maniera retrospettiva, sui primi momenti della vita pubblica del Nazareno.
Possiamo dividere il brano in tre parti: nella prima (vv. 13-16) si descrive la cacciata dal tempio dei venditori e dei cambiamonete; nella seconda (vv. 18-21) la reazione dei Giudei, con la loro domanda e la risposta di Gesù – entrambe queste parti si concludono con la rilettura dei discepoli, dopo l’evento della Pasqua (vv. 17. 22) – nella terza ed ultima (vv. 23-25) l’Evangelista descrive la fede dei primi credenti e Gesù che scruta l’interiorità ogni uomo.

Gesù è a Gerusalemme. Salito per la festa di Pasqua con i suoi discepoli – essi non appaiono direttamente nella scena e sembrano spettatori ed interpreti dei gesti e delle parole del Maestro – entra direttamente nel tempio. Giovanni non indugia negli antefatti, ma preferisce descriverci cosa avviene, appuntando semplicemente [Gesù] “trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete” (v. 14). Il verbo principale della frase, che esprime l’azione di Gesù è trovare. Egli, invece, di incontrare gente che cerca Dio, trova un vero e proprio mercato, favorito dall’afflusso di grandi folle venute per la festa. Descrivendoci la scena, è come se l’Evangelista ci facesse guardare la realtà con gli occhi di Gesù, partecipando i sentimenti del suo cuore, dinanzi a quella scena non solo inaspettata, ma anche ingiustificata. I pellegrini venivano nella città santa per il sacrificio dell’agnello – è una pratica questa anche della Famiglia di Nazaret, se Luca ricorda “i suoi genitori [Giuseppe e Maria] si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua” (Lc 2,41) – e la città santa poteva accogliere fino a 125.000 persona che si sommavano alle 55.000 che vi abitavano. In maniera approssimativa gli animali che venivano sacrificati nel tempio potevano arrivare a circa 18.000. Questi dati – forniti dall’esegeta J. Jeremias – mostrano l’importanza e la portata delle feste pasquali, e, al tempo stesso, ci fanno capire come l’interesse ed il profitto economico potevano – e di fatto accadeva così – prendere il sopravvento sul vero significato della celebrazione rituale.

L’Evangelista, nel narrarci la scena, descrive la spianata del tempio occupata dai venditori di animali richiesti per i sacrifici, secondo la condizione economiche di ciascuno, e ci presenta i cambiavalute seduti ai loro tavoli. Questi, vista la proibizione di introdurre nel tempio monete con ritratti imperiali o pagani, cambiavano i denari romani o le dracme attiche con monete di diverso conio, con un rincaro nella transazione che costituiva il loro profitto. Queste indicazioni, che possiamo ricavare da fonti extrabibliche, ci aiutano a capire meglio come Gesù trovi un luogo totalmente votato al commercio e al guadagno, nel quale il Dio di Israele era stato spodestato e sostituito dal denaro, ricercato anche dalla classe dirigente, visto che il sommo sacerdote riscuoteva una tassa per l’istallazione dei posti dei commercianti. Senza fermarsi all’apparenza, Gesù comprende che alla base di quel mercato è in gioco la logica dell’interesse economico e del potere. Il tempio è divenuto un mercato perché coloro che dovevano vigilare sulla fede del popolo e custodire la fedeltà all’alleanza, hanno abdicato al loro compito, accontentandosi di mettersi al servizio del dio Mammona, invece di vivere nella libertà che la pasqua dona ad ogni credente.

Il discepolo di Gesù, dietro il Maestro, non deve lasciarsi prendere da letture parziali della storia e neppure può giudicarla con criteri personalistici. Egli, infatti, sapendo che le strutture di peccato sono conseguenza delle scelte stagliate, non deve scandalizzarsi per il mistero del male che può minacciare anche le istituzioni più sacre, senza per questo far finta di non vedere le cause reali e discostarsene. Dobbiamo imparare a leggere con oggettività le situazioni, guardando in faccia le intenzioni degli altri, senza paura. La verità, per quanto dolorosa, non può essere misconosciuta, il male, con le sue cause e coloro che lo avallano e ne permettono il prolificare, non può essere nascosto. Dobbiamo, invece, chiedere al Signore la grazia della sua luce perché, attraverso di noi, il suo amore limiti i danni delle scelte scagliate e cambi il cuore che, pur se votato al male, può guarire ed essere purificato dalla grazia onnipotente del Signore. Proprio per questo, nel consegnarci la preghiera del Padre nostro, Gesù ci invita a chiedere “liberaci dal male”. Per istigazione del Nemico, il male diventa così ammaliante che lo scegliamo, credendolo un bene. Quando poi le persone che ci amano e ci tengono, smascherano l’inganno, crediamo di essere noi dalla parte della ragione e rifiutiamo coloro che ci correggono, volendo solo che noi riprendiamo la via del bene secondo Dio. È quanto cerca di fare il Signore, liberando il tempio da ciò che ne snatura la sua identità. Solo chi è umile accoglie la correzione e lascia che Dio, attraverso gli altri, possa ricondurlo sulla retta via.

Quante volte, per non essere delusi, non guardiamo i fatti che accadono nella giusta luce e facciamo finta di nulla, preferendo chiudere gli occhi dinanzi alle mancanze nostre ed altrui? Capita che vestiamo i panni della falsità e del disinteresse, per non sporcarci le mani e prendere posizioni che potrebbero destabilizzare quella pace che noi cerchiamo ad ogni costo di salvaguardare?

Operare e non solo guardare

La reazione di Gesù stupisce e quasi sgomenta, se non comprendiamo il suo gesto nel giusto modo, come i discepoli faranno in seguito (cf. Gv 2,18). Egli, dinanzi a quanto accade nella spianata del tempio, “fece una frusta di cordicelle – appunta Giovanni – e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!»” (vv. 15-16). Cristo vede, risale alle vere cause della situazione ed interviene per sradicare il sopruso e restituire alla preghiera e al dialogo con il Padre quel luogo, riconsacrandolo alla lode e alla supplica, nella fedeltà all’autentica tradizione d’Israele. È un dolore per Lui vedere l’istituzione più sacra del suo popolo divenuta una casa di mercato. In essa l’idolatria del denaro ha soppiantato il culto del vero Dio, gli interessi di parte hanno colpito mortalmente il cuore del popolo eletto e perfino i capi, da servi di Dio, sono divenuti detentori del potere, sanguisughe spietate, amministratori di un corpo senz’anima. Come rianimare la fede dei suoi? Come riaccendere l’amore e la fedeltà all’alleanza, all’obbedienza alla Legge e la misericordia verso i più deboli? In Gesù potrebbe vincere lo scoraggiamento, lasciando alla voce del Tentatore la possibilità di incalzare: “Hai fallito nella tua missione! Gli uomini sono miei sudditi, appartengono al mio regno, mai diventeranno figli del tuo Dio!”. Ma Gesù non si lascia sbaragliare dal Nemico perché in Lui l’amore è determinazione e coraggio. Egli è venuto a sradicare dal cuore dell’uomo, vero tempio da riconsacrare a Dio, la presenza del Despota, dell’Avversario infernale. È l’intimo del Signore che risulta scosso da quella situazione di palese ingiustizia. Violenza ed ira le molle dell’agire di Gesù? No, di certo, ma zelo ed amore, ricerca del vero bene e volontà ferma di purificare il cuore dell’uomo dagli idoli e restituirlo allo Spirito che fa nuove tutte le cose. Ecco perché bisogna ben comprendere i suoi gesti – fece un flagello, rovesciò i banchi, gettò a terra – che manifestano il suo desiderio di liberare l’uomo da ogni struttura di peccato e restituire a Dio il luogo che Egli ha scelto come sua dimora. Già Zaccaria aveva preannunciato la purificazione come opera del Messia – “in quel giorno non vi saranno più mercanti nel tempio del Signore degli eserciti” (Zc 14,21) – il cui simbolo era proprio il flagello. Il Cristo sarebbe venuto per fustigare i vizi e scacciare la malvagità dal cuore dell’uomo. Il gesto di Cristo diviene quindi accusa dell’ipocrisia di un culto che sposava l’ingiustizia e l’oppressione delle classi più povere. Così lo comprenderanno anche i discepoli (cf. v. 17), volgendo al futuro il Sal 69,10.

Le istituzioni umane vanno salvaguardate e purificate da ogni infiltrazione dello spirito del male, devono essere liberate dalla logica del sopruso e dell’inganno, del denaro e dell’interesse di parte, ma l’istituzione non è tutto, le strutture umane non possono e non devono soffocare lo Spirito. Il Paraclito vivifica le istituzioni e queste devono custodire il soffio vitale di Dio, in quella mutua dipendenza che rende la Chiesa il corpo di Cristo nella storia. Ma è necessario comprendere che le strutture sono al servizio della Chiesa fatta di persone, perché siamo noi il tempio di Dio, non le chiese fatte di mattoni, la nostra vita deve brillare della luce del Risorto, non le pareti delle nostre chiese. A questo vuol portarci l’impegno penitenziale della Quaresima.
Il discorso non vale solo nell’istituzione-Chiesa, ma anche ad extra, perché il Nemico cerca in ogni luogo di seminare il male e di farlo proliferare, come papa Francesco ci sta mostrando. I sistemi ingiusti, che non rispettano la dignità della persona, che permettono l’oppressione dei poveri vanno avversati, sempre però con mezzi pacifici. Non si possono avallare le ingiustizie né coprire falsamente strutture di peccato che servono per arricchire ed offendere la dignità delle persone, strumentalizzando Dio e le pratiche di culto. L’azione che il cristiano deve compiere nella società, il suo contributo fattivo non nasce dalla lotta di classe, dalla violenza e dalla vendetta, dal desiderio di operare la giustizia con vie ingiuste e far regnare la verità, con le proprie forze. A determinare il nostro impegno nel mondo deve essere, come capita a Cristo, lo zelo, come capacità di operare secondo lo Spirito, di attendere i suoi tempi, servendo l’uomo e affermando, con il dialogo e la sollecita carità, la dignità di ogni persona. Come risulta erroneo pensare che Gesù agisca mosso dall’ira, così è inaccettabile credere che il fine giustifichi i mezzi. Lo zelo che deve animarci all’azione è per la casa di Dio che è nostro Padre, per la vita dei fratelli, che è la comunità di Gesù. Nel dire «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!» (v. 16), Gesù, infatti, si manifesta in tutto Figlio, totalmente proteso a fare ciò che piace al Padre. Zelo per la casa del Padre vuol dire, quindi, per noi vivere la dignità del nostro battesimo e riconoscerla nell’altro/a che mi sta accanto, considerarsi parte di una famiglia più grande che ha in Dio il Padre comune e in Cristo il fratello maggiore che guida i nostri passi nel bene.

Gesù, nel vedere la casa del Padre suo divenuta un mercato, non si lascia portare dall’istintività e la sua reazione è il frutto della sua capacità di analizzare bene la situazione e vedere le reali cause di ciò che osserva. Il suo intervenire manifesta la sua volontà di compiere fino alla fine la missione ricevuta dal Padre: liberare l’uomo da ogni struttura di peccato che impedisce la relazione con Lui e la vita in comunione con i fratelli. Gesù sa bene che la violenza non serve a nulla. Egli stesso, nel Getsemani, redarguirà Pietro perché rimetta nel fodero la sua spada, chiedendo di lasciare anche la tunica a colui che ci domanda in prestito il mantello, quando invia i suoi alla missione.
Ogni azione comporta una reazione. Non è questo solo un principio fisico, ma un dato che risulta dalla nostra esperienza. Quante volte dinanzi a situazioni o anche a parole che consideriamo offensive saltiamo come una molla! Non solo la nostra reazione è proporzionata all’offesa che crediamo ci sia stata perpetuata, ma spesso vince in noi l’impulsività e, sentendoci attaccati, giochiamo sempre in difesa, impedendo all’altro di parlarci pacatamente. La nostra reazione dinanzi alle situazioni deve avere il nostro e l’altrui bene come meta, saltare, come se fossimo stati punti, non serve perché l’irrazionalità non raggiunge nessun fine, se non l’autodifesa e il rancore. Gesù oggi ci insegna a intervenire sotto la spinta dello zelo, della ricerca sincera del bene secondo Dio. Il criterio per intervenire non siamo noi e i nostri sentimenti, ma la capacità di vedersi in Dio e di vedere le situazioni in Lui. Riflettere dinanzi alle cose che accadono nella nostra vita significa discernere ciò che il Padre ci chiede. È questo che fa Gesù. Anche noi dobbiamo lasciarci consumare dallo zelo, i ministri di Dio devono averlo per la salvezza degli uomini e tutti debbiamo manifestarlo nella sincera ricerca del bene, secondo Dio.
Fermare l’impulsività, riflettere sulle cose, decidere con calma la strada da prendere: sono queste le indicazioni che Gesù ci dona oggi.

Il nostro corpo è il vero tempio di Dio

La seconda parte del nostro brano (vv. 18-22) pone l’accento sulla reazione dei Giudei al gesto di Gesù. Il Maestro, dinanzi alla domanda che gli è posta, non cerca di giustificarsi, ma vuole, invece, far compiere un passaggio significativo ai suoi interlocutori che ora stanno vestendo i panni di accusatori. Il Signore dicendo: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (v. 19), indica che il vero tempio dove si incontra il Padre è la sua Persona, il Corpo che il Verbo ha fatto proprio nel grembo di Maria. Passato attraverso la distruzione della morte in croce e vivificato per la potenza della resurrezione, il Corpo di Gesù è il luogo dell’incontro del Padre con ogni creatura. Non sono i sacrifici senza numero che nel tempio si offrono ad assicurare la comunione con Dio, ma l’offerta di Cristo, il suo corpo martoriato, le sue membra sfigurate sono il prezzo del nostro riscatto, il segno che a tutti gli uomini è donata la salvezza e la vita. È Gesù il tempio vivo di Dio, Egli ci chiede di dimorare in Lui, perché desidera abitare in noi, Egli vuole che la nostra vita sia innestata in Lui, come i tralci alla vite per fare frutto, così da permettere allo Spirito-amore di fluire liberamente in noi, rendendoci membra vive del suo corpo che è la Chiesa, perché, attraverso di noi, il regno di Cristo vivifichi e trasformi la storia.

Fammi entrare, o Diletto dell’anima mia, nel tempio del tuo Cuore, permettimi di penetrare nell’intimo tuo, superando la lama tagliente della spada che ti trafisse il costato, mentre sulla croce dormivi, nuovo Adamo, perché da te nascesse la Chiesa, nuova Eva. Sì, il mio amore voglio che superi la forza del ferro che ti aprì il cuore, voglio entrare nel sacrario del tuo intimo, fornace dei tuoi pensieri, sorgente delle tue parole, scaturigine di ogni tuo gesto di amore e di compassione, di tenerezza e di misericordia verso noi peccatori. Ho bisogno di bere da quella fonte, di nascondermi in quella roccia, di inabissarmi nell’oceano della tua compassione, di camminare nella terra promessa che il Padre apre a tutti i suoi figli, passati attraverso il deserto. Tu sei la Dimora della riconciliazione ed io il peccatore che bussa per ottenere perdono, tu sei la Casa del Padre ed io il figlio ribelle che ricerca la via della gioia, tu sei l’Abitazione della misericordia ed io il misero che non trova rifugio. Se Mosè con il suo bastone percosse la roccia e ne scaturì acqua, quanto più la mia preghiera, mossa dallo Spirito tuo, sarà da te esaudito. Ascoltami e rinchiudimi nel tempio del tuo cuore, non per scappare dalla mia vita, ma per ritemprare le mie forze e imparare ad amare i miei fratelli, come te, fino alla fine.

Dobbiamo imparare la custodia degli spazi e dei tempi sacri, segno della presenza di Dio in noi e tra noi. Nella vita, è importante sentire la propria casa come il luogo dove il Signore ci incontra nel mistero della nostra nuzialità e dove i figli trovano il clima di amore e di accoglienza che è essenziale, in ogni momento della loro crescita. Dire casa significa indicare l’intimità coniugale e familiare, luoghi non solo da abitare, ma dei quali avvertire la sacralità, perché Dio dimora dove noi viviamo e, tra quelle pareti, fa fiorire la grazia del sacramento nuziale, con il dono dei figli. Abitare la propria casa significa appropriarsi degli spazi e sentirli propri, curarli perché parlino di noi, dell’amore che nutriamo, dei sogni e dei progetti che condividiamo, dei momenti lieti e meno felici, che ci vedono sempre l’uno accanto all’altro. Lo spazio contiene lo scorrere del nostro tempo e cambia con noi perché i nostri ambienti sono il riflesso di come viviamo e dell’amore che mettiamo nelle varie fasi della nostra vita.
Oltre agli spazi e ai tempi esterni a noi, dobbiamo comprendere che siamo noi per primi tempio e spazio di Dio, prima ancora degli edifici e ancor più preziosi e degni di questi. La nostra vita è la misteriosa dimora di Dio, perché dal giorno del battesimo, siamo la casa dello Spirito che il Risorto ha insufflato in noi, per vivere da figli del Padre e fratelli tra noi. Con il sacramento nuziale il corpo della persona che mi sta accanto è lo spazio dove incontro Dio, come la mia carne lo è per lei. Una carezza, un abbraccio, come ogni gesto di tenerezza ci trascende, perché Dio parla nel nostro linguaggio e misteriosamente lo abita perché tutto in noi e tra noi sia cifra di Lui che è amore per essenza e concretezza per scelta d’amore. Sono chiamato a riconoscere la sacralità che il mio e l’altrui corpo contiene ed insieme, guardando crescere i nostri figli, dovremmo meravigliarci ogni giorno perché Dio ci ha voluti suoi collaboratori nel renderlo visibile nella carne di un altro individuo che da noi ha preso vita.

Interpretare tutto alla luce della Pasqua

Leggendo il brano evangelico odierno, ci è chiesto indirettamente di identificarci con i discepoli. Sono gli unici, infatti, tra i personaggi citati dall’Evangelista, a comprendere i gesti di Gesù e a penetrare il senso delle sue parole. Il loro segreto sta nel rileggere tutto alla luce della Pasqua, perché il compimento della missione di Gesù è la chiave perché tutto sia chiaro della sua vita. Anche noi dobbiamo lasciare che la luce della Pasqua illumini tutto di noi, perché solo l’amore dona senso nuovo ai nostri gesti e ci permette di camminare nella gioia, rifuggendo le tenebre dell’egoismo. Cristo conosce tutto di noi, anche noi siamo chiamati a conoscere il mistero della sua vita per sperimentare in Lui l’abbraccio del Padre che ci rende figli suoi e fratelli tra noi.




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