Domenica delle Palme – Anno B 25 marzo 2018

Non ti ho amato per scherzo

di fra Vincenzo Ippolito

Vuoi sapere cosa è l’amore e se ami sul serio la persona che hai vicino, se i figli che Dio ti ha donato sono parte di te, del tuo cuore e li ami senza appropriartene, cercando il loro bene e non il tuo interesse? Rispecchiati in Gesù Cristo crocifisso e risorto, immergiti tra le parole di Paolo e troverai il segreto dell’amore, il cuore di Cristo nelle parole dell’Apostolo.

Dalla Lettera ai Filippesi (2,6-11)
In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».
Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».
La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.

 

Oggi, domenica delle Palme, iniziamo la Settimana Santa nella quale la Chiesa contempla il suo Signore e lo segue nel dono della sua vita. Se dovessimo scegliere un nome diverso potremmo dire la grande settimana dell’amore perché è l’amore la ragione del dono di Cristo sino alla morte di croce. È necessario, durante questi giorni, avere occhi attenti per guardare Gesù ed imparare da Lui a vivere d’amore, un cuore nuovo che batta all’unisono con il suo senza temere le tenebre e l’angoscia che impediscono di amare con gratuità, delle gambe svelte per seguirlo lungo l’erta del Golgota dove l’amore diviene vero perché solo nel dono della vita esso riceve il sigillo dell’autenticità. L’amore è la ragione della Pasqua come la carità ed il desiderio di rivelarsi all’uomo era stata la causa dell’Incarnazione del Figlio di Dio nel grembo di Maria. E sia a Betlemme che sul Calvario è presente Maria, la Madre che accompagna il Figlio a generare nell’amore e nel dono, nel perdono e nel silenzio oblativo, l’umanità ribelle, aprendo l’ingresso all’abbraccio misericordioso del Padre. Alla Madre dei dolori affidiamo il cammino di questi giorni per non scappare come i discepoli dinanzi alla croce e seguire sempre l’Agnello dovunque va.

Davanti a me tu prepari una mensa

La liturgia della Parola oggi è ancora più ricca. Per chi partecipa alla celebrazione preceduta dalla Commemorazione dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, dopo la benedizione delle palme, si proclama la narrazione evangelica che riviviamo nei segni liturgici. Quest’anno esso è tratto dal Vangelo secondo Marco (11,1-10). La processione sostituisce l’atto penitenziale e il sacerdote, giunto alla sede, introduce l’orazione colletta, cui segue la liturgia della Parola. Le altre celebrazioni eucaristiche – solo una santa Messa può essere preceduta dalla Commemorazione dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme – seguono lo schema solito. Non per questo, però, la mensa è meno abbondante, visto che il brano evangelico odierno, assai lungo rispetto al solito, narra gli ultimi eventi della vita di Gesù fino alla morte di croce. Si tratta della cosiddetta lettura della Passio – Passione in lingua latina – che soprattutto a coloro che non potranno partecipare ai riti liturgici della Settimana Santa dona di riflettere sulla consegna di Gesù alla morte per la salvezza degli uomini. In tal modo la Chiesa, madre e maestra, offre loro in anticipo il racconto della passione – quest’anno è Marco 14,1-15,47 – così da poter celebrare la Pasqua di resurrezione, senza saltare la morte di Gesù in croce che il Venerdì Santo celebra.
Mentre la prima lettura è tratta dal Libro del profeta Isaia (50,4-7) e presenta la sofferenza del Servo del Signore che si addossa il peccato degli uomini – nella rilettura cristiana il servo è Gesù che prende su di sé le colpe del mondo – come seconda lettura ci è donato uno dei testi più conosciuti dell’Epistolario paolino, il cosiddetto inno cristologico della Lettera ai Filippesi (2,6-11). Si tratta di un testo biblico utilizzato soprattutto nella preghiera della Chiesa – la liturgia delle Ore – ed è bene che lo si rifletta e con esso si preghi per tenere fisso lo sguardo su Gesù, modello della nostra obbedienza al Padre.

La risposta ad ogni nostra domanda è la croce di Gesù

Il brano di Fil 2,6-11 è di non semplice lettura anche per gli studiosi. Più che di matrice paolina – il vocabolario non è propriamente dell’Apostolo – sembrerebbe un cantico, che probabilmente circolava nelle prime comunità e citato da Paolo nella sua missiva ai Filippesi. Il contesto prossimo (cf. Fil 2,1-5) ci fa comprendere per qual motivo Paolo l’abbia citata – focalizzare l’attenzione sull’umiliazione volontaria del Figlio di Dio fatto uomo – ed è proprio il contesto, pur se non riportato dal brano liturgico odierno, che ci permette di capire cosa significa per una comunità professare la fede in Gesù Cristo, Verbo incarnato, umiliato fino alla morte e risorto. È come se Paolo stesse dicendo: se noi crediamo in Cristo, Figlio di Dio, fatto uomo, morto e risorto, dobbiamo seguirlo nell’umiltà, del servizio, nel dono della vita ai fratelli. Il cristiano ha uno stile di vita che gli deriva dalla sua fede in Cristo. È Lui il modello delle sue scelte e ogni suo gesto deve modellarsi su di Lui e sulla dinamica interiore che Egli ha vissuto fino alla morte.
Per capire l’inno secondo l’intenzione che ha guidato Paolo a citarlo, è bene leggere i primi versetti del capitolo secondo (cf. Fil 2,1-5), ma soprattutto fermare l’attenzione all’ultimo – “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5) – che rappresenta la migliore chiave di lettura del nostro brano. Si tratta di un’esortazione accorata, ripresa anche in seguito (cf. Fil 2,12-18) nella quale Paolo mostra quanto debba essere incisivo, nell’esperienza cristiana, ciò che il Signore Gesù ha vissuto e soprattutto l’atteggiamento con cui Egli ha affrontato la sua passione.

Prima di ogni cosa – sembra dire Paolo in maniera perentoria – è necessario fissare il proprio sguardo su Gesù crocifisso. Il cammino della Quaresima ci ha condotto a distogliere gli occhi dal frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, verso cui il serpente ha condotto Eva (cf. Gen 3,1-7) per giungere a Gesù crocifisso. Più entriamo nel mistero del Cristo passinato – così lo definisce sant’Angela da Foligno (1248-1309) – più gustiamo la potenza dell’amore che ha condotto Gesù al dono della vita. “Abbiate in voi” dice Paolo, ovvero in tutto il vostro essere, in ciò che vi rende voi stessi, nella vita individualmente compresa ed accolta, nel vostro corpo dove “la carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne” (Gal 5,17); “Abbiate in voi” dice Paolo, nelle vostre membra dove ciascuno riconosce una legge diversa rispetto a quella della mente (cf. Rm 7,23) e dove si avverte il dramma di contenere in sé la voce del tentatore che conduce al peccato, in noi, formati da Dio fin dal grembo materno, come un prodigio. L’Apostolo con l’espressione “in voi” indica la nostra vita nella sua totalità, le attrattive che la compongono, le situazioni che la contraddistinguono, i problemi che la angosciano, le gioia che la illuminano. La traduzione CEI dice “Abbiate in voi”, cercando di rendere l’originale greco, ma il verbo non è avere, quanto pensare, sentire, conoscere, giudicare. Letteralmente potremmo tradurre “Questo pensate in voi, [ovvero] ciò che anche [fu] in Cristo Gesù”. Il discepolo deve accogliere in sé il pensiero di Cristo, la sua capacità di guardare il mondo e di interiorizzarne ogni attesa, ogni bisogno, ogni umana necessità. Chi segue il Maestro e impara da Lui che è mite ed umile di cuore, sente nello scorrere ora lento ora vorticoso degli eventi umani, la presenza del Padre che lo chiama a scendere nell’arena della storia e a cambiare la rotta della corsa. Paolo non sta richiamando i Filippesi ad un cambiamento superficiale, a limare alcuni comportamenti, rimanendo in superfice. Non si tratta di modificare le proprie scelte perché, se così fosse, si resterebbe sempre sul livello morale della vita cristiana. Bisogna andare in profondità, alle radici delle situazioni che si vivono. Noi siamo abituati a potare i rami, credendo che l’albero faccia frutti solo se si interviene su di essi. Dimentichiamo così che il problema spesso è alle radici, non è fare o non fare una cosa, ma la volontà alla base di un comportamento è importante. Paolo richiede la scelta dell’umiltà, la volontà dell’umiliazione, la determinazione dell’abbassamento, l’accoglienza dello spogliarsi di se stessi, a somiglianza di Cristo Gesù. La conversione a cui la Quaresima ci richiamava era la trasformazione del cuore come sede delle scelte, radice delle azioni, luogo della volontà. Questo non significa che tutto sia polarizzato sulla nostra decisione, ma che questa può cambiare e quindi determinare un diverso stile di vita, solo se, guardando a Gesù, si accoglie in noi la sua grazia e la potenza del suo amore. Se Dio ha promesso “vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne” (Ez 36,26), questo significa che si tratta di un dono suo, che l’uomo è chiamato ad accogliere, ma questo è possibile solo se ha sperimentato in se stesso la potenza della misericordia. Solo l’amore di Gesù per noi accende la volontà dell’uomo e questi è continuamente confermato nella scelta della sequela da uno sguardo amoroso rivolto a Cristo che lo attira a sé. In tale relazione di amicizia, il discepolo scopre che la via di Gesù gli appartiene perché, sotto la spinta dell’amore, non potrebbe scegliere altra strada che quella percorsa dal Maestro.

La famiglia cristiana è il luogo dove si guarda a Cristo e si impara da Lui non per legge, ma per amore e dove si fa tutto, anche se le cose più semplici, solo e sempre per amore, perché solo l’amore rende straordinarie le cose più piccole. È l’amore che esige la fedeltà nella vita coniugale, non si può essere fedeli per legge, così come il discepolo è legato a Cristo per quell’amore che accende la volontà e motiva la sua azione nel mondo. Dobbiamo far vincere in noi e tra noi l’amore, non inteso come sentimento o affetto – se così fosse sarebbe passeggero e non sarebbe per sempre – ma come la forza divina che plasma la volontà e la determina. Sì, è l’amore che determina la volontà, non nel senso che rende cieca ogni decisone sotto la spinta dell’impulsività – l’amore non è né passionalità, pur se la comporta, né impulsività, anche se rende più determinati nell’azione – perché l’amore è l’armonia che regna nell’uomo e nella donna quando tutte le facoltà sono orientate alla persona amata. È vero che non si ama con la volontà, ma l’amore senza volontà è un sentimento passeggero, come un albero senza radici, non è totalizzante in chi dice di amare, così come la volontà se non è plasmata dall’amore diventa pura razionalità, come il dono della propria corporeità senza amore è cieco desiderio di soddisfazione, non linguaggio dell’amore partecipato all’altro attraverso il proprio corpo.

È necessario educarsi all’amore, come anche legare sempre più l’amore alle altre facoltà che sono proprie dell’uomo perché, solo in questo modo, l’amore sarà vero, pieno e totalizzante, proprio come quello che Cristo nutre nei nostri riguardi. Educarsi alla concretezza non significa perdere la poesia dell’amore, ma incarnare l’amore in scelte ponderate, ma reali. È necessario rifuggire il legalismo, come anche il procedere a briglia sciolte, per questo risulta necessario chiedere, con umiltà nella preghiera, il sentire di Gesù. Come si ci può comprendere ed accogliersi senza quella spiccata sensibilità che lo Spirito Santo ci comunica del mistero di Gesù? Possiamo vivere di compassione e di perdono, vincere la vanagloria ed il tornaconto, solo guardando a Gesù, al sacrificio suo. Come Paolo propone l’esempio di Cristo, così anche noi non dobbiamo avere paura di indicare ideali alti ai nostri figli, indicando sempre la strada della carità. Solo il nuovo comandamento dell’amore è, infatti, la legge fondamentale dell’umana perfezione e della trasformazione del mondo (GS 38). Se abbiamo paura di mostrare alle nuove generazioni le vette della vocazione cristiana è perché abbiamo paura di non essere coerenti nella nostra vita. È importante indicare la meta e mostrare che tutti siamo in cammino verso di essa.

La Pasqua di Gesù Cristo nostra stella polare

L’apostolo Paolo in rari casi presenta nelle sue epistole l’esperienza storica del Nazareno, perché tutta l’attenzione è posta sul Risorto che conduce i suoi discepoli ad una vita completamente nuova, nella forza del suo Spirito. Per questo, scrivendo ai Corinzi, dice “se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così” (2Cor 5,16). Dopo la Pasqua siamo in un ordine nuovo rispetto al passato, un ordine definitivo, perché non dobbiamo attenderci null’altro da Dio e né pretenderlo. In Cristo il Padre ci ha dato tutto e ci ha detto tutto. E anche nei pochi casi in cui l’Apostolo parla della vita terrena del Nazareno, è sempre in riferimento al compimento che è giunto con la Pasqua, mostrando ai credenti l’itinerario da attuare nella propria vita di fede. Se ai Filippesi Paolo ricorda la vita terrena di Gesù e come il suo itinerario sia stato profondamento mutato dalla potenza dell’amore di Dio Padre, è per mostrare che ogni nostro comportamento deve essere radicato nel sentire di Cristo, nel suo cuore misericordioso, nella volontà di farsi tutto a tutti per il bene dei fratelli. È, infatti, nel cuore che lo Spirito ci deve rendere conforme a Gesù Cristo, è la nostra volontà che deve unirsi a quella del Padre. Una volta consacrati nel cuore, avremo in noi il pensiero di Cristo e le nostre azioni saranno nella storia la continuazione del suo stesso agire che è in se stesso salvifico.

Avere un modello è la grande sfida in ogni processo educativo, ma ancor più difficile appare lasciare che l’esempio si imprima dentro, più che esso determini un cambiamento esteriore del comportamento. Il vero problema nell’educazione è, infatti, interiorizzare il valore che le parole mediano e gli esempi mostrano, non l’osservanza esteriore delle norme ed il ripetere pedissequamente ciò che altri propongono. Alle parole deve seguire sempre la testimonianza, perché è questa che seduce ed attrae – “Dietro allo sposo/sì, la sposa piace” scrive Dante Alighieri di san Francesco – perché le esortazioni non incidono nell’animo, se non sono comprovate dalla concretezza di un cammino già attuato. Ecco perché, all’esortazione (cf. Fil 2,1-5), Paolo fa seguire la vicenda storica di Gesù Cristo. È nel confronto con Lui che la scelta di umiltà ed il disprezzo della vanagloria risultano non solo strade percorribili, ma soprattutto necessarie. Come, infatti, dirsi cristiani se la dinamica interiore che ha guidato Gesù nelle scelte della sua vita, non dimora in noi, spingendoci a seguirlo, lasciando spazio interiormente al suo Spirito per manifestare anche nel nostro operato l’appartenenza a Lui? Se in Cristo non c’è cesura tra ciò che ha detto e quanto ha fatto, anche noi dobbiamo accogliere il suo Vangelo e guardare a Lui per imparare la docilità allo Spirito che rende possibile ciò che piace al Padre.

L’inno cristologico – è così chiamato il brano di Fil 2,6-11 perché sembra un canto di lode a Cristo Signore – ha una duplice andatura, un doppio movimento. Da una parte abbiamo l’abbassamento di Dio che, iniziata con l’Incarnazione, diviene massima nella morte di croce (vv. 6-8), dall’altro l’esaltazione del Figlio attuata da Dio Padre ed il suo divenire Signore universale, con un nome da tutti adorato (vv. 9-11). Nell’uno come nell’altro movimento – discendente ed ascendente – si nota una gradualità che diviene esemplare anche per noi. Il Verbo fattosi carne, “ha imparato l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8) e, come il chicco caduto in terra, ha atteso che il calore della primavera lo schiudesse alla maturità e al dono proprio della spiga. La radice ultima dei gesti descritti dall’inno è l’amore. Amore del Figlio in tutto obbediente al Padre fino alla morte, amore del Padre che esalta il Figlio e lo rende Signore. Tutto fa l’amore, quando è vero, profondo, eterno.
Nella prima parte (vv. 6-8), in questa progressiva parabola discendente, il Verbo “non ritenne un privilegio l’essere come Dio … spogliò se stesso … si umiliò”. L’amore di Cristo per noi lo conduce a tre azioni conseguenziali: è un amore che lo porta a non appropriarsi di nulla, neppure della sua identità di Dio; è un amore che si spoglia, si svuota perché solo ritraendosi il bene dell’altro può avere la meglio; è un amore che gli fa assumere l’identità di schiavo, quasi mutando la propria, perché amare non vuol dire essere schiavizzato dall’altro, ma cercare ed attuare il suo bene, anche quando l’altro non lo vede e non lo vuole. Per questo dobbiamo perderci nella contemplazione del Signore Gesù, crocifisso e risorto per noi.

Com’è bello il tuo silenzio, il tacere tuo,
di te che sei il più bello tra i figli dell’uomo!
Com’è dolce il respiro lieve delle tue labbra che si chiudono,
incontro della misericordia e della verità,
labbra che diffondono la grazia della giustizia e della pace per sempre.
Taci sì, come nella greppia, non perché, ora come allora, non sai cosa dire,
ma perché ogni dire è superfluo, ora che il tuo corpo è consegnato,
non più al legno, mitigato nella sua durezza dalla paglia,
dove il tuo corpo è dolcemente adagiato
da Colei che tra le donne è la benedetta e tra le madri la più dolce,
no, non più, sei adagiato nella greppia
ma fisso al duro legno dall’assordante battere senza posa su quei chiodi
che trapassano le membra
– oh, membra dolcissime che mai conobbero offesa arrecata, ma solo salvezza recata –
mentre la vemenza dei carnefici è placata,
nel ghigno amaro di chi crede di sapere ed invece non comprende.
Sì, mio Signore, sei bello, il più bello tra i figli dell’uomo
nell’atto della tua consegna a noi peccatori perché il Padre ci guardi come figli,
consegnato per noi al Padre tuo che, per te, diviene nostro.
Com’è limpido il tuo occhio nel riflettere l’azzurro cielo che si apre,
non più come al battesimo, ma silenzioso ora nell’accogliere il tuo spasimo,
tenero abbraccio alla tua offerta.
Bella sì, nel suo vibrare è la tua voce decisa
che non tintinna per odio nel chiedere il perdono,
né che ricusa a chi chiede un ricordo,
ma che promette la vita a chi ora della vita è privato.
Lascia, o mio Signore, lascia che io mi avvicini alla tua croce,
lascia che le voci del nemico non frenino in me
la corsa dell’amore che la tua vista in me accende.
Lascia che le mie mani tocchino le tue labbra per carpirne il segreto del silenzio,
dinanzi al male che dilaga, alla persecuzione che infuria, alla ferocia che spaventa.
Lascia che i miei occhi si fissino nei tuoi
perché si imprima nel mio cuore l’amore crocifisso, le tue piaghe, dove la vita si effonde,
Lasciami entrare nella tua croce perché riposi sul tuo talamo
e, come da un favo, succhi il miele del tuo amore, il balsamo del perdono,
l’ambrosia della misericordia da dispensare ai fratelli.
So che mi lascerai venire a te, perché altrimenti non avrebbe senso il tuo attrarmi.
Legami a te, con i vincoli del tuo affetto,
ungimi con l’olio del tuo Spirito,
consacrami e profumami di lui,
bruciami con il fuoco che mai si consuma,
estingui con la sua indomita fiamma ciò che in me non piace al tuo sguardo
ed insegnami a non tremare nel dispiegarsi progressivo della volontà del Padre,
per me vera sorgente di gioia piena.

Dovremo continuamente rispecchiarci nell’itinerario che Paolo presenta ai Filippesi e rivedere lo spessore del nostro amarci. È da Gesù che impariamo che amore è svuotarsi di sé per accogliere la vita dell’altro, proprio come fa una donna quando si apre alla vita; amare è fargli spazio senza condizioni, accogliere senza riserve, mettere da parte la propria ricchezza, anzi condividerla senza nulla pretendere dall’altro; amare è spogliarsi di tutto, divenire povero per arricchire l’amato, facendo divenire la propria vita abito per lui, coperta che lo riscalda avvolgendolo nella notte, nube che lo ricopre per proteggerlo dalla calura del giorno; amare è umiliarsi perché l’amore ci fa piccoli come il Verbo a Betlemme, l’amore ci fa parlare per il bene dell’altro come Gesù nella predicazione lungo le strade della Galilea, l’amore guarisce per la gioia dell’altro come fa Gesù senza aspettarsi la riconoscenza di quanti ha beneficato, amare è accogliere la morte perché l’amato che ti mette a morte senza riconoscerti amante e riconoscersi amato, abbia la vita, la vita in abbondanza. Tu sei amore ed umiltà, canterà san Francesco sul monte de La Verna dopo aver ricevuto le stimmate, sigillo dell’amore dell’Amante per lui. L’amore è umile, la carità è paziente, è benigna la carità, non si vanta, non si gonfia, non cerca il suo interessa, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta canterà Paolo, scrivendo ai Corinzi.

Anche nella seconda parte (vv. 9-11) è l’amore, questa volta non del Figlio, ma del Padre che opera meraviglie. Gesù si consegna nell’abbraccio della croce ed il Padre non lo lascia nel buio della morte, ma il suo amore è capace di salvarlo, di richiamarlo in vita, di farlo Signore dell’universo, al cui dominio ogni creatura deve assoggettarsi. È bello contemplare la pazienza di Cristo che attende il tempo opportuno in cui l’amore del Padre lo salverà dal sepolcro, accende in noi la speranza e la certezza di essere da Lui strappati da ogni schiavitù il vedere che la morte è vinta non solo, ma che la dignità che il Padre dona ai suoi figli obbedienti è di gran lunga superiore ad ogni attesa. Lasciar fare a Dio è ciò che Cristo ci insegna anche nelle situazioni limite, lasciar fare a Lui che sa sempre ciò che è buono per noi e per la nostra famiglia, per il nostro futuro e per i nostri figli. Questo non vuol dire deresponsabilizzarsi, ma fare la propria parte come ha fatto Gesù, fino in fondo ed attendere che anche Dio faccia la sua. Questo è la storia della salvezza, il frutto maturo della cooperazione di Dio e dell’uomo. Solo allora la nostra vita riceve i colori della gioia e noi ci rallegriamo per le meraviglie che Dio opera nella nostra storia. La resurrezione è il dono dei doni che il Padre concede al Figlio e quanto più profondo è il grado di umiltà raggiunto volontariamente, tanto più alta è la misura dell’esaltazione che Dio concede. Lo aveva cantato Maria nel Magnificat “Ha rovesciato i potenti dai troni ha innalzato gli umili” (Lc 1,52) e anche l’apostolo Giacomo così esorterà i suoi “Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà” (Gc 4,10).

La famiglia cristiana è il luogo dove l’amore si esprime nell’attesa paziente dell’opera di Dio, delle sue meraviglie. In essa si vive l’abbandono reciproco e la mutua consegna. Io mi fido dell’altro e mi abbandono a lui/lei come Gesù si consegna al Padre ed attende con fiducia i tempi del suo rivelarsi. Le nostre famiglie sono le dimore della meraviglia e dello stupore, perché l’amore sempre stupisce l’amato e lo riempie dei doni che esprimono l’abbondanza non attesa, la gratuità non sperata. Dobbiamo lasciarci meravigliare dall’amore dell’altro/a e non limitare o mortificare i suoi gesti e le sue attenzioni perché l’amore vero genera solo dono e gioia senza fine, da accogliere sempre.

Il segreto svelato
Vuoi sapere cosa è l’amore e se ami sul serio la persona che hai vicino, se i figli che Dio ti ha donato sono parte di te, del tuo cuore e li ami senza appropriartene, cercando il loro bene e non il tuo interesse? Rispecchiati in Gesù Cristo crocifisso e risorto, immergiti tra le parole di Paolo e troverai il segreto dell’amore, il cuore di Cristo nelle parole dell’Apostolo. Solo la croce svela fin dove giunge l’amore, solo la resurrezione mostra quanto l’amore sia più forte della morte. L’amore è la ragione della croce di Gesù, della sua passione, anche per noi è così? È l’amore il motore dei tuoi abbracci, l’energia dei tuoi baci, la fiamma del Signore che ti spinge al dono e al perdono nella tua famiglia? Solo nel mistero Pasquale troveremo l’amore di Dio di cui le nostre famiglie hanno veramente bisogno.




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stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

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