IV Domenica di Pasqua - Anno B - 22 aprile 2018

L’amore va detto, spiegato con le parole, testimoniato nei fatti

di fra Vincenzo Ippolito

Il bel pastore, Gesù, si interessa di me, della mia vita, delle vicissitudini della mia famiglia, delle crisi dei miei rapporti, delle difficoltà del mio lavoro. Egli non ci lascia mai soli, con Lui non manchiamo di nulla, è lui la roccia su cui costruiamo, il baluardo in cui confidiamo, alle sue mani consegniamo il futuro dei nostri figli senza paura.

Dal Vangelo secondo Giovanni (10,11-18)
In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

 

La liturgia di questa domenica, Quarta del Tempo di Pasqua, è dominata dalla figura del bel Pastore, centrale nella pagina evangelica odierna. Si tratta di una delle autorivelazioni più belle del Quarto Vangelo, nella quale Gesù si presenta pronto ad obbedire al Padre, offrendo la vita per i suoi. Passiamo così dai racconti delle Apparizioni, letti e meditati nelle ultime settimane a brani tratti dagli insegnamenti di Gesù, prima della sua Pasqua, che ci condurranno, domenica dopo domenica, al giorno di Pentecoste.
Significativo è il cammino che la liturgia ci propone. Nella Prima Lettura (cf. At 4,8-12) l’apostolo Pietro, pieno di Spirito Santo, si rivolge al sinedrio, dinanzi al quale è comparso insieme con Giovanni, dopo la guarigione dello storpio. Senza paura e con franchezza, confessa la sua fede in Gesù Cristo, unica salvezza per gli uomini. È questa la ragione della gioia che sgorga dal cuore, espressa dal Salmo 117, la bontà di Dio si manifesta nelle sue opere che sono una meraviglia agli occhi dei suoi fedeli. Nella Seconda Lettura (cf. 1Gv 3,1-2), invece, continua la catechesi dell’apostolo Giovanni, invitando i suoi a contemplare la grandezza dell’amore di Dio che ci rende suoi veri figli. Siamo chiamati oggi ad ascoltare la voce di Cristo buon Pastore (Vangelo), attraverso l’annuncio della sua Chiesa (1a Lettura) per sperimentare la salvezza, invocando il suo nome e cantando con la vita la bellezza delle sue meraviglie e la gioia di essere figli suoi (2a Lettura).

Dono per amore e rifiuto perpetuato ad oltranza

Con la pagina evangelica odierna, seguendo la narrazione del Vangelo secondo Giovanni, siamo nel tempio di Gerusalemme, prima della Pasqua di morte e resurrezione. Gesù ha donato la vista al cieco nato (cf. Gv 9) e questo ha provocato il risentimento dei farisei, volutamente incapaci di accoglierlo come “la luce del mondo” (Gv 8,12). Dinanzi alla loro grettezza, il Maestro non impugna le armi della disputa, né afferra l’arco dei ragionamenti violenti, ma preferisce la dolcezza di una parola che rinfranca l’anima e guarisce il cuore, convinto che solo l’amore riesce a motivare la conversione. C’è, infatti, una regola nella relazione che Cristo conosce bene: quando vuoi l’aperura del cuore della persona che ami, non attendere che sia lei a fare il primo passo, ma tu per primo, donati e, senza lasciare che l’egoismo prevalga sul bene, apri il tuo cuore e permettile di contemplare il bello che splende in te. È proprio questo che Gesù compie, non si lascia fermare nell’amore da coloro che di lì a poco decreteranno la sua condanna a morte (cf. Gv 1145-54), ma offre opportunità sempre nuove, perché possano sperimentare la pienezza della vita di cui Lui solo è la sorgente.
Dinanzi all’incredulità dei Giudei, che in ogni modo lo avversano, Gesù non si dà per vinta, non perché voglia imporre con forza la sua idea, ma unicamente perché desidera il bene delle persone che lo ascoltano. Più è creduto un uomo pericoloso e più si rivela per quello che è, amore per essenza, vita donata per scelta, esistenza consegnata per il bene degli uomini. Noi scandiamo i rapporti con il risentimento e l’astio, cerchiamo la rivalsa, legandoci al dito quanto non ci piace, persino una parola che è a noi sembrata offesa. Gesù non è così, è uguale a noi in tutto, eccetto che nel peccato, di noi non ha preso il dubbio che spinge a vedere in tutto il marcio ed il male. Invece di defilarsi dinanzi alla durezza del cuore, il suo dono diventa maggiore. È questo che più stupisce di Dio, nel suo rivelare l’amore per noi. Quando vede il nostro peccato, quando si scontra con la nostra incapacità ad accoglierlo e a ricambiare il suo dono, invece di ritrarsi e di attendere tempi migliori, Egli utilizza una modalità che solo Lui conosce e vive senza avvertirne il peso e lo sgomento: Gesù ama in eccesso, sovrabbonda in misericordia, il suo cuore trasborda di tenerezza. Incontra il tuo peccato, vede l’orrore del tuo disobbedirgli, trova che tra le mani hai ancora il frutto proibito, non ti rimprovera, né diviene arcigno, ma fa ciò che strutturalmente è portato a fare, ti ama di più. Perché Dio, a differenza nostra, è convinto che a cambiare la vita del peccatore è la misericordia, non la giustizia, l’amore in eccesso, non la spietata vendetta. Ecco perché ora dalle sue labbra ascoltiamo che si rivela come la fonte della tenerezza e della bellezza, perché solo il bene ed il bello hanno sull’uomo forza di attrazione. E così egli dice: “Io sono il buon pastore”. Gesù non ha paura di rivelare la sua identità, di mostrare il suo desiderio di amare il Padre e, nel vincolo amoroso con Lui, ogni uomo. Gesù vuole essere il pastore di quei farisei che non lo accolgono, dei sadducei che lo rifiutano, dei capi dei Giudei che di lì a poco decreteranno la sua morte, condannandolo ad un infame destino. Più è rifiutato e più si strugge nel ricercare vie alternative per accedere nell’interiorità di coloro che, pur presentandosi come nemici, sono cercati come pecore disperse da ricondurre all’ovile.

Gesù ama così, in eccesso e il dono suo dipende dalla sua capacità di essere se stesso, senza paura. È una grande virtù da imparare questa, non lasciarsi influenzare dagli altri nelle scelte e nei pensieri. Se solo il Signore volesse permetterlo! Non bisogna aver paura di essere se stessi e di lasciar parlare il cuore, sembra insegnare l’Evangelista tra le righe, perché è preferibile sperimentare il rifiuto, piuttosto che vivere consumati dallo scrupolo di non aver detto quello che veramente si pensa. L’amore va detto, spiegato con le parole, testimoniato nei fatti, proprio come fa Gesù, modellando il dire perché traduca l’amore che è sempre in eccesso, valicando le capacità conoscitive di chi è amato. Siamo chiamati a sentirci amati, non solo a conoscere intellettivamente l’amore e a chiuderlo in categorie mentali o comportamentali che rispondono a parametri precostituiti. Chi ama, come Gesù, ama e basta, l’amore è amore sempre, come l’albero che resta uguale a se stesso, può perdere le foglie d’inverno, ma la linfa che lo anima lavora nel tronco perché sbocci con maggiore forza l’impeto di vita della primavera che sempre viene.
È la gradualità, il segreto che Gesù utilizza parlando con i Giudei, quasi a voler battere ogni strada, bussare ad ogni porta nell’intento di essere la gioia del cuore di quanti ora lo osteggiano, ma potrebbero aprirsi alla fede per sperimentare la vera vita in pienezza. È fondamentale in ogni dialogo avere dinanzi agli occhi non solo quello che io desidero nella relazione con la persona cha amo, ma ciò di cui l’altro/a ha veramente bisogno. Il mio donarmi deve tenere conto della sensibilità e della capacità sua di comprendere la mia intenzione e di ricambiare, o per lo meno accogliere, la mia offerta che è motivata dall’amore sincero. Gesù deve cercare di abbattere il muro del preconcetto che impedisce alla mente dei Giudei di aprirsi ad una comprensione vera, ad una relazione affettiva con Lui, non mediata da nessuna preconcetto che filtri le parole e accolga solo quelle che si ritengono secondo i propri canoni. Ecco perché Gesù prima insegna, utilizzando l’immagine del ladro e del pastore, l’uno che si arrampica per entrare e l’altro che non ha paura di passare per la porta dell’ovile (cf. Gv 10,1-6a) e, dopo aver visto che “quelli non compresero di che cosa volesse parlare” (v. 6b), continua, cambiando registro comunicativo, definendosi porta dell’ovile (vv. 7-10) e poi pastore (vv. 11-18). Le parabole di Gesù avranno come epilogo sempre il rifiuto e l’incomprensione dei Giudei (cf. Gv 10,6b. 19-21), ma questo non impedirà al Maestro di continuare a parlare loro, nel desiderio di renderli pecore del suo gregge, capaci di ascoltare la sua voce e di essere condotti fuori dal legalismo che li tiene oppressi in un’osservanza formale della Legge.

Alla scuola del buon Pastore

Quale profondità contengono questi otto versetti che la Liturgia oggi ci dona! Ogni parola è passata alla fiamma incandescente del Roveto ardente del cuore di Dio. Gesù è il pastore bello e buono – i due concetti nel greco classico sono interscambiabili – la sua bellezza è il riflesso del suo cuore misericordioso, il suo volto splende della luce del Padre che lo rincuora e lo spinge a trasformare in vita anche le strade nelle quali la sua creatura sperimenta l’odio e la morte. È forte la parola di Gesù per noi che abbiamo scavato un abisso incolmabile tra il bello ed il bene, tra ciò che appare e quanto è nascosto nel cuore. Bello è Gesù, la sua vita è un vaso che trabocca d’amore; bello è il suo volto, luminoso sul Tabor più del sole; bello lo sguardo suo che ti avvolge d’amore senza toccarti ed appropriarsi di te; bella la sua voce, la voce del Pastore, riconoscibile tra le mille dei mercenari che scappano dinanzi al pericolo; belle le sue labbra, dalle quali, come da sorgente, scorre la parola di vita che diletta l’anima; belle le sue mani che comunicano la vita e scacciano ogni morte; bello il suo corpo che, passato attraverso la morte, effonde sul capo della Chiesa sua sposa, il profumo di nardo della sua vita risorta. Non esiste bellezza se non nel dono. È l’offerta della propria vita che rende bello/buono il pastore, è questo che manifesta la verità del suo essere, la profondità del suo amore. “Io sono il buon pastore – dice Gesù – Il buon pastore dà la sua vita per le pecore”. La bellezza – sembra dire il Signore – il desiderio che l’altro abbia tutto di te, devi effonderlo nel dono, devi offrirlo nella consegna, devi affidarlo nella fiducia. Se la bellezza del tuo amore non la manifesti per timore che l’altro non la comprenda, se ami, ma la tua identità di “amante” la tieni per te, se ti doni, ma il tuo corpo si consegna all’altro/a con riserve, metti la lampada dell’amore tuo sotto il moggio, non arrivi a collocarla sopra il lucerniere perché faccia luce a coloro che sono nella casa. La vita è bella – l’omonimo film di Benigni lo faceva comprendere bene! – se la vivi per l’altro/a, se la metti in gioco per salvare chi ami, se la offri perché, comunicata alla persona che ami, divenga la vita che lui vive grazie al dono che gli hai fatto di te stesso.
A Gesù-pastore importano le pecore, gli interessano – I care, mi interessa era il motto di don Milani che scandiva la sua scuola di Barbiana – per lui io sono il dono del Padre da custodire anche a prezzo di vedersi le mani trafitte, pur di non lasciarmi cadere nel nulla. Il bel pastore, Gesù si interessa di me, della mia vita, delle vicissitudini della mia famiglia, delle crisi dei miei rapporti, delle difficoltà del mio lavoro. Egli non ci lascia mai soli, con Lui non manchiamo di nulla, è lui la roccia su cui costruiamo, il baluardo in cui confidiamo, alle sue mani consegniamo il futuro dei nostri figli senza paura. Il discepolo deve comprendere questo, deve imparare a distinguere la luce da ciò che della luce ha solo un opaco riflesso. Gesù non è un mercenario, né deve essere scambiato per un mercenario – indiretto riferimento a ciò che credono i Giudei – ma è il pastore delle pecore. Dirlo non basta. Il Maestro offre anche i criteri per riconoscerlo, leggendo in positivo ciò che Egli dice di quanti non sono pastori: “Il mercenario invece, che non è pastore, cui le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde, perché è un mercenario e non gli importa delle pecore” (vv. 12-13). Al pastore appartengono le pecore, non abbandona le pecore, quando vede venire il lupo, resta con loro e mette in fuga chi giunge per rapire e disperdere.

La Parola ci sprona ad un serio esame di coscienza: io sono pastore di coloro che il Padre mi ha affidato? Come mi interesso della mia sposa/o? Come nutriamo e custodiamo i nostri figli? Sono un mercenario con un abito da pastore oppure nel pericolo, nell’incomprensione, nell’incapacità di passare all’altra riva, di camminare sul mare del pregiudizio proprio ed altrui scappo per salvare me solo? La mia famiglia è aperta alla carità, si interessa dei problemi degli altri? Siamo chiusi nel nostro egoismo o lasciamo che lo Spirito ci conduca lì dove il Padre richiede la nostra testimonianza?

Un rapporto modellato sull’amore tra Gesù e il Padre

Dopo il binomio bellezza-dono (vv. 11-13), il secondo tratto che l’evangelista Giovanni presenta del buon pastore è la sua capacità di conoscere le sue pecore ed essere conosciuto da loro nel dono di sé, quasi a dire che la bellezza/bontà del suo cuore si manifesta nella conoscenza amorosa dell’altro e nella volontà di offrire la propria vita per lui. Lì dove l’Evangelista parla di conoscenza è da intendere l’amore, come se dicendo “conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” volesse dire Io amo le mie pecore ed esse mi amano in quella circolarità d’amore che genera la vita, nutre la mutua appartenenza e la reciproca donazione. La relazione Io-tu è il luogo segreto dell’incontro del Pastore con ciascuna delle sue pecore, lì nasce e si nutre la chiamata, la conoscenza reciproca, la condivisione della vita, lì l’amante entra nel cuore dell’amato e vi trova la sua gioia, perché l’amore crea legami stabili ed unici, irripetibili ed eterni. Questo fa l’amore di Dio con ciascuno di noi. Cristo può dire, con le parole del Cantico: “Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me”, perché il suo amore non lega, ma libera e conduce l’uomo a rispondere all’amore, perché solo quella dell’amore è la strada della libertà e della gioia vera. È nella cella dell’anima che ogni discepolo avverte l’amore di Gesù per Lui, ma è sulla croce che conosce e trova la conferma che il sentimento avvertito nel segreto del cuore è vero, perché Cristo non disdegna l’offerta, anzi l’amore vero lo richiede, lo sposa, lo cerca. La pecora non vive nella relazione amorosa per gli abbracci del suo diletto, né per la voce sussurrata nel silenzio, ma per la vita che l’amato gli dona.

Bellezza-conoscenza nell’amore scandisce la relazione tra pastore e pecore e questa è così profonda, secondo quanto Gesù ci confida, perché modellata sul rapporto divino, eterno, amoroso, infinito che lega il Figlio al Padre. “Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me come il Padre conosce me e io conosco il Padre” (v. 15). È il come che fa la differenza nell’amore. Tutti amano, ma non tutti come ama Gesù, tante sono le relazioni che viviamo, i rapporti che scandiscono la nostra vita, ma non tutti hanno come modello il rapporto Padre-Figlio. È questa la perfezione dell’amore del discepolo/pecora nella relazione con il Maestro/Pastore: avere una conoscenza così profonda che uguaglia – è il tendere alla perfezione, senza la pretesa di volerla realizzare – il rapporto tra Dio ed il suo Figlio. Gesù è legato a me come è legato al Padre ed io sento, vivo, voglio essere legato a Gesù come Lui è legato al Padre? Se poi pensiamo al sacramento nuziale, avviene lo stesso grande mistero d’amore, perché con la grazia di quel giorno santo, Cristo ha legato a sé gli sposi perché siano una sola cosa come Lui è in unità con il Padre. A Dio, Gesù è unito per la natura divina, a me si unisce per la sua libera scelta di amarmi e ricercare il mio bene. Quello di Cristo nei miei riguardi è un atto di espressa volontà, Dio vuole prendersi cura di me, gli sono caro, mi ama di infinita tenerezza. Gesù mi ama e vuole amarmi. In tal modo, io vivo della vita che il Pastore mi dona, una vita che è la sua vita. Per questo posso dire: io vivo della sua vita. Gesù mi conosce ed ama come conosce ed ama il Padre ed io dovrei conoscerlo ed amarlo – meglio usare il condizionale – come il Padre conosce ed ama Lui, suo Figlio. Siamo nella circolarità dell’amore della Trinità, lì ci conduce Gesù, il buon pastore e solo rimanendo nel cuore del Dio-amore possiamo vivere nella gioia piena e nella lode perfetta, non rifuggendo il quotidiano, ma ritemprando il cuore perché l’amore sperimentato venga trasmesso ai fratelli, con la medesima intensità.

Dove giunge l’amore di Dio per me! La conoscenza di me genera nel Pastore il dono di sé, mentre tra noi il conoscersi porta alle chiusure perché l’altrui debolezza fa paura, il suo limite mette in fuga, le cadute e le pecche spesso ci inorridiscono. Più entri, invece, con l’amore nella vita della persona che ti è accanto, come Gesù, e più la debolezza è accolta, l’errore perdonato, il limite abbracciato con gioia. La conoscenza-amore conduce Gesù al dono della vita, perché un amore che non si dona non è vero, una conoscenza dell’altro che si lascia divorare dalla paura non è animato dallo Spirito-amore del Risorto. “Nessuno ha un amore più grande di chi dona la vita per i suoi amici” (Gv 15,13). Ma il dono è necessitato dall’amore stesso, è l’amore che si veste di dono quando incontra l’altro, è l’amore che prende la via dell’offerta, pur se non richiesta, perché gli occhi dell’amore vedono ciò che l’amato non guarda e giungono lì dove questi non riesca ad arrivare, con le sole sue forze.
La nostra famiglia e comunità è specchio della Trinità? Viviamo con gioia la reciprocità nell’amore e lasciamo che il dono scandisca le nostre relazioni? Che tipo di conoscenza abbiamo della persona che ci sta accanto? Cerchiamo di sperimentare la gioia e far respirare ai figli un clima di autentico amore? La vita di preghiera scandisce la nostra vita e rappresenta il respiro di Dio in noi e tra noi che ci permette di vivere nella sua volontà? Nella relazione nuziale come viviamo la reciproca appartenenza? È appropriazione o libertà nell’amore? La nostra comunità parrocchiale o religiosa come vive e testimonia il primato di Cristo pastore? Ci sentiamo tutti discepoli, pur nella diversità dei ruoli che esercitiamo nella comunità?

Nessuno è escluso dall’amore del buon Pastore

Un tratto particolarissimo che Gesù sempre vive è quello di non voler escludere nessuno dalla salvezza che Egli dona. Il suo cuore, infatti, è per tutti, il suo abbraccio – la croce lo rivela bene – raccoglie gli uomini dispersi, i lontani, le pecore che non hanno pastore e lo cercano, pur senza saperlo. La Chiesa non è e non deve essere un recinto chiuso, dove chi è dentro si sente puro e perfetto, arrivato e diverso dagli altri, perché la Chiesa, per sua natura, raccoglie nel suo seno giusti e peccatori – lo insegna il Concilio, nella Lumen Gentium 8 – “ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione”. Cristo, per lo stesso amore che lo lega a chi è nel recinto e ascolta la sua voce, obbedendogli, si sente spinto a volgere lo sguardo alle “altre pecore” (v. 16). È l’immagine che ci dona san Luca, quando ci parla della misericordia di Dio (cf. Lc 15,4-7): Gesù è il Pastore delle pecore disperse, il Ricercatore delle pecore lontane. Forse è su questa figura che dovremo più concentrare la nostra attenzione, con un cuore ricco della stessa speranza che conduce Gesù a dire: “Anch’esse io devo guidare, ascolteranno la mia voce e saranno un solo gregge, un solo pastore” (v. 16). Avere a cuore tutti, indistintamente è ciò che Gesù fa e che chiede anche ai suoi, quando parla del comandamento che ha ricevuto dal Padre, lo stesso che affiderà ai suoi discepoli nell’ultima cena (cf. Gv 13,14-15; 15,12): amare è servire, amare è donare, lo stesso imperativo che Gesù ha vissuto nei trentatré anni della sua vita terrena: amare è dimenticare i torti, amare è perdonare i fratelli, amare è sedere all’ultimo posto, amare è non aver paura del vero volto dell’altro. Un pastore per tutti è Gesù, perché il suo amore è per tutti.

A Lui, buon Pastore, chiediamo oggi, celebrando la 55a Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, che il cuore dei chiamati sia immagine del suo e mai si stanchino di percorrere le strade degli uomini perché l’amore di Dio, ogni uomo raggiunga. Al tempo stesso domandiamo di concedere alle nostre famiglie la volontà nell’amare come Lui ed il coraggio di guardare sempre a Lui per essere gregge del suo pascolo e trovare, sempre insieme – marito e moglie, genitori e figli, famiglie e comunità cristiane – la vita in abbondanza che il suo Spirito effonde in noi senza riserve.




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