XI Domenica del Tempo Ordinario - Anno B - 17 giugno 2018

Solo chi ama, attende e rispetta il ritmo richiesto dall’altro per crescere

@ EpicStockMedia - Shutterstock.com

di Fra Vincenzo Ippolito

La logica del Regno di Dio è come il seme, si nasconde nel terreno e, con la compagnia del tempo, produce prima lo stelo, poi la spiga e, alla fine, il frutto maturo. Imparare l’attesa è una grande arte, la stessa che scandisce la gioia di ogni madre che vede crescere in se per nove mesi il mistero della vita.

Dal Vangelo secondo Marco (4,26-34)
In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme ger¬moglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura». Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene semi¬nato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra». Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

La pagina evangelica di oggi è tratta dalla prima sezione dell’opera di san Marco (1,14-7,23), dedicata al ministero di Gesù in Galilea. Incastonata nel capitolo quarto, che utilizza il genere parabolico, la pericope ci offre di riflettere, attraverso la figura simbolica del seme, sulla potenza della Parola di Dio nella vita cristiana e su come il Regno del Padre cresce, in maniera silenziosa e nascosta, fruttificando, secondo la grazia del Signore, senza nessun concorso di uomo. Già nella Prima Lettura (cf. Ez 17,22-24), il profeta Ezechiele presenta l’immagine di un ramoscello di cedro che, piantato da Dio, metterà rami e farà frutto. È il Signore che umilia l’albero alto e innalza quello basso, fa germogliare il secco e seccare il verde. L’albero che germoglia è la vita del giusto. Esso “fiorirà come palma, crescerà come cedro del Libano” recita il salmo 91 “per annunciare quanto è retto il Signore”. L’Apostolo Paolo, nel brano che leggiamo come Seconda Lettura (cf. 2Cor 5,6-10) fissa lo sguardo sulla vita oltre la morte, per comprendere che ogni uomo “riceverà la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male”. Dio coltiva la nostra vita come un campo, solo a patto di lasciarlo fare, offrendogli quella incondizionata obbedienza che, nel tempo, come permette al seme di divenire un grande albero, così matura la nostra fede e rende la nostra statura interiore, secondo la misura di Cristo (cf. Ef 4,13).

Anche noi tra le folle per ascoltare Gesù

I primi versetti del capitolo quarto – “[Gesù] Cominciò di nuovo a insegnare lungo il mare. Si riunì attorno a lui una folla enorme, tanto che egli, salito su una barca, si mise a sedere stando in mare, mentre tutta la folla era a terra lungo la riva. Insegnava molte cose in parabole”, Mc 4,1-2a – ci offre lo scenario della pagina evangelica odierna. La gente si raccoglie numerosa intorno a Gesù, per i segni prodigiosi che Egli compie, anche se i parenti e gli scribi venuti da Gerusalemme hanno su di Lui pareri contrastanti – lo vedevamo la scorsa domenica, cf. Mc 3,20-35 – e la grande folla porta il Maestro a sedere su una barca per parlare, mentre tutti rimangono sulla spiaggia ad ascoltarlo. L’Evangelista raccoglie l’insegnamento del Signore in circa trentaquattro versetti, prima di mostrarci Gesù che, venuta la sera, congeda la folla – salteremo questa pericope (cf. Mc 4,35-41) la prossima domenica, per la coincidenza con la solennità della Nascita di san Giovanni Battista – mentre i discepoli lo precedono all’altra riva.

L‘introduzione della parabola del seme pone come centro del brano e sua chiave di lettura la categoria “Regno di Dio” che risulta essenziale nel Vangelo, poiché riflette la predicazione di Gesù. Marco, descrivendo l’inizio del ministero in Galilea, aveva posto sulle labbra del Maestro le parole “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1,15), quale brano programmatico della sua missione. Con Gesù Cristo, il tempo si è riempito della presenza di Dio, perché Egli è “l’immagine visibile del Dio invisibile” (Col 1,15). È quindi necessario che ogni uomo lo incontri, visto che: “La profonda verità sia su di Dio sia della salvezza degli uomini […] risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la rivelazione” (Dei Verbum 2). Se con Gesù, Dio è entrato nel tempo degli uomini, facendosi Egli steso uomo, “non è da aspettarsi alcuna nuova rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo” (DV 4), perché in Gesù, Dio Padre ci è ha dato tutto e ci ha detto tutto. In questo senso, Gesù è il regno di Dio. In Lui “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9), di cui noi partecipiamo misteriosamente. Tutta la tensione che percorre la vita cristiana sta nell’entrare nel regno del Padre che è Gesù, passare attraverso la porta stretta della sua croce, vivere di Lui e per Lui, sperimentando la potenza del suo amore che instaura la signoria di Dio, la sottomissione incondizionata ed obbediente dell’uomo alla divina volontà. In tal modo comprendiamo che, nei Vangeli, il fine della predicazione del Signore, del suo compiere miracoli, dell’avvicinare le folle è che si riannodi l’alleanza di Dio con l’uomo, distrutta dall’antico peccato e “conoscano te, l’unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17, 3). Entrare nel regno, sperimentare la signoria di Cristo significa per l’uomo vivere nella libertà creaturale, collaborare alla realizzazione della gioia, secondo il disegno del Padre. Con questo filo rosso riusciamo a comprendere non solo la pericope odierna, ma l’intera opera degli Evangelisti.

Se leggiamo con attenzione il nostro brano (cf. Mc 4,26-34), ci renderemo conto che l’attenzione di Gesù, nel suo insegnamento, è volta a chiarire quanto sta accadendo nella sua vita. Mentre si attende un messia glorioso e forte, capace di affermare la superiorità dello stato giudaico contro le potenze straniere, il Nazareno si mostra inerme, fallimentare, accusato come un pazzo e rifiutato come un indemoniato. Invece di prendere a disputare con i suoi stessi avversari, per conquistarli alla sua causa, Gesù mostra che Dio attua il suo disegno di salvezza, non con efficienti mezzi umani, ma con la povertà, la debolezza, l’arrendevolezza fino a giungere alla morte. Il Regno di Dio, la sua presenza ed azione nella storia non risponde a criteri umani, né rispetta ciò che l’uomo si attende. L’immagine del seme serve a Gesù perché coloro che lo seguono comprendano che “quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio” (1Cor 1,27-29). Indirettamente Gesù sta indicando la strada che anche i discepoli devono imboccare dietro di Lui: non voler essere grandi (cf. Mc 9,34) e né desiderare di sedere alla sua destra o alla sua sinistra, come i due figli di Zebedeo (cf. Mc 10,37). Quando chiediamo che Gesù realizzi le nostre attese ed assecondi i nostri desideri, senza voler dare a Lui la priorità nelle scelte della nostra vita, senza lasciare che sia Lui a tracciare la nostra strada con la sua croce, siamo fuori dal suo regno, non vogliamo vivere nella sua signoria, ma, come Adamo ed Eva, imponiamo la nostra volontà e cerchiamo gloria ed onore presso gli uomini e non presso Dio. Tutti ci troviamo a questo bivio: accogliere le contrarietà del cammino di sequela oppure farsi strada da sé, usando del nome di Dio, per cercare l’affermazione di noi stessi. Gesù si identifica con il seme della parabola e chiede che anche chi lo segue viva la sua stessa dinamica. Il mondo ricerca una vita senza passare attraverso la morte, il cristiano accoglie la morte come via per una vita che non ha mai fine.

Abbiamo bisogno di tenere fisso lo sguardo su Gesù e di ascoltare continuamente la sua voce, perché le persecuzioni non ci fiacchino, i fallimenti non ci prostrino e le amarezze della vita non ci tolgano la gioia di Dio. Non è semplice, quando siamo disprezzati, mal giudicati, umiliati accusati ingiustamente, puniti per colpe non commesse, pugnalati alle spalle da coloro che avrebbero dovuto amarci e custodirci, non è semplice calmare il cuore e domare l’istinto. Il nostro uomo interiore, in quei momenti, morde le briglie, vorrebbe rispondere, far valere le proprie ragioni, imporre con forza la verità, assecondando la veemenza che fa ribollire il sangue. Talvolta la nostra istintività si colora di ricerca sincera di giustizia, si veste dell’affermazione del bene, si confonde con la volontà di Dio. E così, attuiamo la stessa dinamica che accusiamo negli altri, rispondiamo non porgendo l’altra guancia, ma restituendo il maltorto ed il nostro cuore diventa un vespaio dove il proliferare della zizzania che noi fomentiamo nella crescita, soffoca lo sviluppo del buon seme. Dobbiamo imparare l’arte della purificazione del cuore, bere le acque dell’Etè e dell’Eunoè, come le anime che stanno per accedere in Paradiso, nella Divina Commedia e così dimenticare le colpe e fissare nella mente il ricordo del bene. Solo Gesù può guarirci nelle conseguenze dei fallimenti, solo Lui può spingerci a guardare oltre le tenebre per intravedere la luce. Per questo è necessario tenere fisso lo sguardo sulla sua croce, nella continua meditazione della sua vita e della sua Pasqua, impariamo ad unirci a Lui, a comprendere che non siamo soli, che l’offerta di noi stessi non è vana e che il Padre misteriosamente volge in bene tutto le esperienze che facciamo di male. La costante meditazione della Parola di Dio non solo ci spinge a verificarci nei riguardi degli altri, ma anche a imporre la potenza della croce di Cristo nel nostro cuore. Solo la sua voce vince quelle della nostra inquietudine, solo la sua parola fuga le menzogne del Nemico che cerca in ogni modo di toglierci la pace.

Dalla morte la vita

La nota caratteristica delle parabole è quella di prendere le immagini dalla vita quotidiana e di veicolare con esse il messaggio che Gesù volta per volta si prefigge. Anche con le nostre due parabole accade questo. Nella prima (cf. Mc 4,26-29), il Maestro dice che il regno di Dio è “come un uomo che getta il seme nel terreno”, mentre nella seconda (cf. Mc 4,30-32), il paragone verte su “un granello di senape che […] è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma […] diventa più grande di tutte le piante dell’orto”. In entrambi i casi il Signore, come già in precedenza (cf. Mc 4,1-20), sceglie la figura del seme ora per mostrare come, indipendentemente dall’apporto dell’uomo, la potenza di Dio operi misteriosamente, ora per indicare che i criteri del mondo sono fallimentari, nella logica del regno, visto che il più piccolo diviene il più grande. Il Maestro sembra proporre ai suoi una logica paradossale, ma solo apparentemente, visto che quanti ascoltano la sua parola, guardano a Lui e lo seguono, potranno vedere che la sua stessa vita è l’esegesi più chiara dell’insegnamento che dona alle folle. In tal modo, la chiave per la comprensione di ogni pagina del Vangelo è il mistero pasquale del Maestro, dove il discepolo può attingere la forza dello Spirito, che opera la conformazione della propria vita a quella di Gesù, rendendo possibile il cammino di sequela.

La prima immagine che l’Evangelista ci offre è quella del seme gettato nel terreno. Tutta l’attenzione non è tanto sull’agricoltore, quanto sulla capacità del seme di produrre frutto. È vero, le cure che riceve sono importanti e creano le condizioni indispensabili perché la germinazione si sviluppi, fino alla mietitura. Ma “dorma o vegli [l’uomo], di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce” (Mc 4,27). La Parola di Dio, la grazia della presenza di Cristo nella storia non dipendono dall’uomo e dalle sue buone disposizioni, pur se importanti. La grazia ha in sé la potenza di fruttificare, di germinare e crescere. La Parola del Signore contiene in sé le energie di una trasformazione che non si può né pensare né immaginare. Difatti, l’energia che promana la presenza del Redentore nella nostra vita supera le categorie umane, al pari del vino che rompe gli otri vecchi (cf. Mc 2,22). Nel suo insegnamento, Gesù indica anche i diversi momenti della trasformazione prodigiosa ed impensabile che la sua grazia opera “Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga poi il chicco pieno nella spiga” (cf. Mc 4,28). I tempi del Regno sono di Dio come il Regno appartiene a Lui. Difatti, “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori, se la città non è custodita dal Signore, invano veglia il custode” (Sal 127,1). L’uomo deve attendere i tempi stabiliti e scorgere, con fede, nella storia la presenza del Signore che misteriosamente compie meraviglie di grazia. La legge della gradualità è propria di tutti gli esseri soggetti al divenire. Il tempo è indispensabile nel nostro cammino di crescita e dobbiamo ricordare non solo che la natura non fa mai dei salti, ma che la grazia presuppone la natura, ovvero Dio effonde la sua potenza a secondo della nostra maturità umana, poiché, come non ci tenta oltre le nostre forze (cf. 1Cor 10,13), così si dona, secondo la capacità nostra di mettere a frutto la sua grazia.
Dio fa tutto nella nostra docilità, possiamo dire partendo dalla spontaneità che il seme dimostra nella crescita, ma, in seconda battuta, ogni sviluppo comporta i tempi necessari per una maturazione armonica e totale. Questo significa bandire ogni tipo di appropriazione e manipolazione, perché Dio è libero di agire come meglio crede, quando Lui vuole e con le persone che sceglie. Difatti, “Egli ci ha fatti e noi siamo suoi” (Sal 100,2) e non il contrario, come spesso noi crediamo. La volontà di Dio Padre è sovrana nella vita del cristiano. Per questo bisogna crescere nella docilità incondizionata alla grazia divina. Essa opera nella nostra vita, in maniera silenziosa e fattiva. Non sono le programmazioni pastorali, gli incontri di equipe ed il nostro affannarci ad assicurare frutto, in termini di tornaconto e di successo. È un grande errore credere questo, perché la vanagloria non si addice a chi segue il Signore crocifisso. Tutto dipende da Dio e dalla sua volontà, e visto che “il seme germoglia e cresce. Come egli stesso non lo sa” (v. 27), viviamo nel mistero che non riusciamo a comprendere e nella contemplazione di ciò che Dio compie in noi e tra noi. È necessario accogliere questa nostra dotta ignoranza, senza la paura di non farsi vedere deboli e quindi presi continuamente dall’ansia di ottimizzare tutto e di non lasciare nulla a Dio. Dobbiamo vivere abbandonati alla Provvidenza e con gli occhi attenti a contemplare quanto il Signore opera nella nostra vita, quando noi gli lasciamo lo spazio che Egli vuole utilizzare per essere la fonte della nostra gioia.

La seconda tentazione da evitare, dopo quella di credere che ogni cosa dipenda da noi e dalla nostra spasmodica smania di tutto programmare, è quella della fretta. Non possiamo imporre le leggi di mercato alla nostra vita – il tempo è denaro e bisogna correre senza sosta, limitarne gli sprechi e cercare di trarre il maggiore profitto, dal minore dispendio di ogni tipo di energia – perché il tempo è necessario per ogni tappa della nostra vita, dal nascere – ci vogliono nove mesi di gestazione, prima che il bambino possa vedere la luce – al camminare, dal mangiare al parlare, dalle relazioni da vivere al lavoro da apprendere. Abbiamo bisogno di tempo, darci tempo e dare tempo agli altri. Difatti, seminare senza attendere frutti a breve termine è ciò che l’Evangelista vuole insegnarci, lasciar cadere il seme sul terreno, senza pretendere di vedere la stagione del raccolto è la lezione che dobbiamo imparare. Nelle nostre famiglie la seminagione deve essere continua, seminagione di Vangelo, di valori cristiani, di esempi trainanti. Quello che si dona ai figli ha in se stesso la forza di portare frutto a suo tempo se è buon seme. La pazienza ed il rispetto dei tempi fanno poi il resto perché si realizzi la volontà del Padre sempre! È l’amore la forza che opera in noi e tra noi la trasformazione. Solo chi si lascia abitare dall’amore dell’altro, segno poi dell’amore di Dio in lui, è capace di essere con l’altro e nell’altro Regno di Dio. Solo l’amore attende i tempi e non impone stagioni.

Le piccole cose, pietre per grandi costruzioni

Nella seconda parabola Gesù chiarisce meglio la modalità che il Regno del Padre vive nella storia. Il Maestro, infatti, parla del “granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno” (v. 31) e che, alla fine, diventa un grande albero. La piccolezza – quella che Francesco d’Assisi chiama povertà e minorità ed in Teresa di Lisieux si definisce l’infanzia spirituale – è il segno della presenza di Dio tra noi. Il Signore, infatti, nasconde la sua onnipotenza nell’umana debolezza e nella stoltezza manifesta la sua sapienza. Noi, invece, vinti di una visione troppo pagana della vita, crediamo che i valori siano la forza e la bellezza fisica, la potenza economica, il successo nel lavoro, la capacità di assecondare il proprio egoismo. Nulla di più sbagliato! Tutto questo è “una perdita a motivo di Cristo […] spazzatura” (cf. Fil 3,8) deve considerare il discepolo di Gesù ciò che appare un valore per il mondo. Il cristiano, guardando a Gesù, al mistero della sua Pasqua deve abituarsi ad entrare in questa dinamica, vivendo la sproporzione del piccolo che diviene il più grande e del nascosto nel quale Dio si manifesta agli occhi del mondo. Non è certo semplice abituarsi a questa scala di valori capovolta, imparando dal granello di senape la gradualità e la pazienza della crescita. Siamo, infatti, istintivamente portati a bruciare le tappe, a non aspettare nulla, a pretendere i primi posti, ad essere considerati i più grandi.

La conversione delle nostre categorie sembra tardare, quando il cuore è troppo legato a questo mondo e non si lascia plasmare dalla grazia dell’amore di Cristo. È l’amore, il sentirsi amati da Dio, teneramente coperti dal suo manto di misericordia e fedeltà che ci porta a preferire Cristo e a seguire il suo Vangelo, rigettando ogni lusinga umana e adulazione diabolica. È la seduzione dell’amore di Cristo per noi che determina la nostra scelta di Lui e alimenta il desidero di donargli il cuore, senza compromessi. Il cammino di sequela – che è poi via dell’amore, sequela dell’Amato – passa attraverso l’abbassamento e l’umiliazione (cf. Fil 2,5-11), per giungere alla glorificazione. Ma questo lo può capire solo chi sperimenta l’amore e vive d’amore. Difatti, vivere la logica della piccolezza è possibile solo per chi fa vincere dall’amore. Tutti, invece, vogliamo una gloria senza croce e una gioia senza morte, ma non è possibile questo. Se fosse così, saremmo dei bambini capricciosi, pretenderemmo la felicità, non lavoreremmo per essa. Non è semplice piagare il collo al dolce giogo del Signore, fare propria la dinamica della sua croce, accettare ciò che la vita ci riserva, attendendo che il piccolo seme diventi un grande albero. Basta solo lasciar fare a Dio e capire che Lui solo può cambiare le nostre situazioni, talvolta disperate, in alba di resurrezione e di vita nuova.

Ridiamo alle nostre comunità domestiche la capacità di stupirsi delle piccole cose! Gesti come regalare un fiore, scrivere un biglietto, dire grazie, donare un abbraccio rinsaldano i rapporti e rendono le nostre famiglie più forti nel vivere il Vangelo e nella testimonianza del Regno. Non sono le grandi cose che cambiano la vita, ma quelle piccole che donano colore alla nostra giornata, redendole straordinarie. Se riuscissimo ad entrare nella dinamica evangelica della piccolezza, metteremmo al bando tante cose inutili e lavoreremmo con più attenzione e convinzione sui gesti che contengono in sé la forza di costruire grandi cose.




Aiutaci a continuare la nostra missione: contagiare la famiglia della buona notizia

Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

CONTINUA A LEGGERE



ANNUNCIO

ANNUNCIO

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Per commentare bisogna accettare l'informativa sulla privacy.