III Domenica di Pasqua – Anno A – 26 aprile 2020

La faticosa scelta di coniugare la Parola con la vita

I discepoli di Emmaus

Particolare dell'opera di James Tissot [No restrictions or Public domain], via Wikimedia Commons

Gesù si presenta come un Maestro ai discepoli di Emmaus e spiega con autorità quello che la Scrittura dice del Messia. I discepoli vengono così ricondotti alla verità, quei brani che essi certamente conoscevano e che tante volte avevano ascoltato, ora appaiono rivestiti di luce.

Dal Vangelo secondo Luca (24, 13-35)

Ed ecco, in quello stesso giorno [il primo della settimana] due dei [discepoli] erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo.
Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto».
Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.
Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro.
Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?».
Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

 

IL COMMENTO

di don Silvio Longobardi, esperto di pastorale familiare

La liturgia domenicale propone oggi il brano di Emmaus. È un testo ricco di sollecitazioni, vorrei soffermarmi sulla seconda parte in cui Luca sottolinea lo stretto legame tra la vicenda di Gesù e le antiche profezie. I discepoli sono disorientati, la croce appare ai loro occhi come uno scandalo, segna la fine della speranza. Colui che sembrava essere un “profeta potente” appare nella sua impotenza, come un albero rigoglioso ma senza radici che ben presto si secca. Nelle loro parole si legge l’amarezza e la delusione. Ed è proprio su questo punto che si sofferma il Risorto che rimprovera i discepoli di non saper leggere gli eventi:

“Stolti e tardi di cuore nel credere a tutte le cose che dissero i profeti!” (Lc 24, 25).

Il primo sostantivo [anoêtos] significa letteralmente “senza intelligenza”, “ignoranti” (Rm 1,14). Ma Paolo lo usa anche per indicare un atteggiamento interiore radicalmente sbagliato, come quando rimprovera i Galati con queste parole: “O stolti Galati, chi mai vi ha ammaliati, proprio voi agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso?” (Gal 3,1). Questa stoltezza indica la situazione in cui si trova l’uomo prima di aver ricevuto la grazia della fede: “Anche noi un tempo eravamo insensati [anoêtoi], disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, degni di odio e odiandoci a vicenda” (Tt 3,3).
La stoltezza è accompagnata dalla pigrizia interiore che rende i discepoli lenti nel comprendere e nell’accogliere la parola dei profeti. L’espressione “tardi di cuore” nasconde la durezza del rimprovero, in fondo Gesù non dice che non credono ma solo che sono lenti a credere! Ma se leggiamo con attenzione l’intero contesto appare chiaramente la mancanza di fede.

“Il diavolo – dice Sant’Agostino – induce in tentazione non solo attraverso le passioni, ma anche attraverso le paure provocate dagli scherni, dai dolori e dalla morte stessa” (Prima catechesi cristiana, 27, 55).

Feriti dalla tentazione i discepoli sembrano incapaci di reagire. È interessante notare che l’evangelista usa qui un’espressione molto simile a quella utilizzata da Zaccaria nel cantico del Benedictus. L’anziano sacerdote vede nei piccoli eventi che stanno accadendo nella sua casa la conferma delle antiche promesse, quello che Dio “aveva promesso (= aveva detto) per bocca dei suoi santi profeti” (Lc 1, 70). I discepoli invece non hanno saputo leggere negli eventi della passione il misterioso compiersi della parola profetica, anzi hanno visto in essa la negazione delle promesse. Ma in fondo non è questo il nostro atteggiamento abituale, non facciamo anche noi fatica a coniugare la Parola con la vita? Non accade anche a noi di dare un’interpretazione dei fatti che non parte dal Vangelo e non tiene in nessun conto la Scrittura. In tal modo, nonostante la confessione di fede, non finiamo per vivere senza fede?

Spiegò loro

La croce ha sconvolti i discepoli e ha messo in crisi tutte le loro speranze. Essi non riescono a vedere oltre e non sanno trovare nella Parola la luce per rischiarare quell’evento. Senza la Parola essi diventano stolti, cioè ignoranti, incapaci di comprendere gli eventi che accadono. Hanno bisogno di qualcuno che annunci loro la Parola. Per questo al rimprovero segue l’annuncio, Gesù propone un’attenta pedagogia di fede: “E cominciando da Mosè …” (24, 27). Gesù si presenta come un Maestro e spiega con autorità quello che la Scrittura dice del Messia. I discepoli vengono così ricondotti alla verità, quei brani che essi certamente conoscevano e che tante volte avevano ascoltato, ora appaiono rivestiti di luce. È questo il momento in cui il cuore si accende di speranza, come riconosceranno commossi poco dopo:

“Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” (24,32).

La parola di Gesù rivela il significato nascosto nella parola dei profeti. La storia antica s’intreccia con la nuova. I discepoli comprendono così che la croce non è una deviazione rispetto all’annuncio profetico ma il suo compimento, anzi la piena rivelazione di quanto era stato detto ancora “in ombra”. Accogliere Gesù non significa per loro abbandonare la storia in cui sono cresciuti ma vivere in modo nuovo l’esperienza che hanno ricevuto.
L’opera che Gesù ha iniziato lungo la via è affidata ora alla Chiesa. Spetta alla comunità dei discepoli spiegare le Scritture in nome e con la potenza del Risorto. È questo, in modo particolare, il compito della catechesi: non si tratta solo di insegnare una dottrina ma di interpretare, cioè di coniugare la parola antica con la vita quotidiana. È un’arte difficile che richiede una grande libertà interiore sia da parte di chi annuncia che da quella di chi riceve la parola. Dove c’è libertà lo Spirito può operare (2Cor 3,17). La catechesi consiste nell’introdurre gradualmente i discepoli nella verità del Vangelo, poco alla volta il mistero si svela fino a quando appare in tutta la sua bellezza. Anche noi allora, potremo fare l’esperienza che i due discepoli hanno fatto a Emmaus quando “si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero” (Lc 24, 31). Ed è questo incontro che rischiara definitivamente la mente e permette di comprendere il senso di ogni cosa. Qui è racchiuso per noi ogni altro dono.
Questa grazia a noi è data ogni volta che partecipiamo all’Eucaristia. Il racconto di Emmaus diventa per noi una salutare provocazione, c’invita a ripensare il nostro modo di partecipare alla Messa domenicale: con quale disposizione interiore arriviamo alla Celebrazione, con quali desideri e con quanta disponibilità a fare quello che il Signore chiede a ciascuno di noi. Questo tempo in cui siamo privi del Pane di Vita è ancora di più urgente ridare all’Eucaristia la sua centralità nella vita della Chiesa.
L’Eucaristia è la fonte della salvezza, come ricorda san Francesco nella Lettera ai fedeli: “E ricordiamoci bene tutti che nessuno può essere salvo se non per il sangue del Signore nostro Gesù Cristo e per il ministero della parola di Dio che i sacerdoti proclamano e annunciano e amministrano”. Qui veniamo rigenerati con la Parola e nutriti con il Corpo di Cristo. Qui alimentiamo la nostra comunione fraterna e riceviamo la speranza che non muore.

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