XXVIII Domenica del T. O. – B

La malattia del sentirsi giusti

Sentirsi-giusti

di fra Vincenzo Ippolito

Sentirsi giusti è la malattia che spesso inclina i nostri rapporti familiari. Ci si sente giusti con la coscienza in nome di chissà quale legge.

Testo (Marco 10, 17-30)

In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».

Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.

Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?».

Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio». Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».


La scorsa domenica, sulla scorta di Mc 10,2-16, ci siamo fermati a riflettere sulla vocazione all’amore sponsale. Oggi, seguendo il Maestro, vediamo cosa comporti accogliere Dio con cuore indiviso, nella vocazione di speciale consacrazione. Questo, però, senza dimenticare che l’unica e medesima chiamata è a vivere l’amore come Gesù Cristo, nella reciprocità e complementarietà delle diverse vocazioni che rendono bella la Chiesa di Dio, per l’effusione del suo Spirito.

La sete del cuore

Gesù è in cammino – siamo ormai abituati a vedere Gesù continuamente ed instancabilmente itinerante –  e, lungo la via, gli si avvicina, dice Marco, un tale – in Matteo 19,20 è definito giovane, Luca (18,21), come anche Marco, lascia intendere che si tratti di un uomo maturo – che “gli corse incontro e, gettatosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?» v. 17. La descrizione dell’Evangelista è più ricca di quello che potrebbe a prima vista sembrare. Egli, infatti, unisce gesti – correre, gettarsi in ginocchio – e parole – «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?» – che manifestano bene il travaglio interiore della sua ricerca. C’è una voluta tensione nel testo tra la mansuetudine e la calma di Gesù, il suo andare per la strada e l’inquietudine dell’uomo che sembra non darsi pace. Egli ha fretta, corre nel desiderio di portare a compimento il suo desiderio e si getta in ginocchio dinanzi a Gesù, confidandogli tutto ciò che gli pesa sul cuore. Gesti e parole sono intimamente connessi in quest’uomo, segno che nella relazione con Cristo egli vuole starci tutto intero, cuore e mente, forza ed attrattive, sentimenti e spasimi. Le azioni poi sono inusuali, si corre per la fretta di compiere un’opera importante, ci si getta in ginocchio dinanzi ad una persona che si considera superiore e dalla quale ci si attende benevolenza e comprensione. E noi verso chi corriamo? Dinanzi a chi ci prostriamo nel gesto umile della supplica e della richiesta accorata? Al signore di turno e al potente dal quale speriamo di ricevere favori? E nel rapporto di coppia i gesti sono finalizzati a ricevere qualcosa oppure sono il segno della volontà di amare e di donarsi in maniera gratuita?

Sì, gesti significativi e belli sono quelli dell’uomo ricco, ma nascondono il desiderio di avere la vita eterna, ma anche questo è pur sempre un avere, un desiderio di possesso. La sua preghiera non nasce da un animo puro, la sua domanda è inficiata in principio, la sua supplica tradisce un cuore che anche con Dio vuol vivere la logica del profitto. Sembra strano, ma noi portiamo nella preghiera quello che siamo, le logiche che scandiscono la nostra vita, le dinamiche, buone o cattive, giuste o meno, che muovono i nostri gesti. Non è un errore portarle, anzi! Dinanzi al Signore ciascuno conduce il fardello che pesa sulle proprie spalle, ma per consegnarlo, affidarlo a Lui e per ricevere il suo carico leggero, ovvero la capacità di vivere le situazioni in comunione con Dio. «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?» v. 17. Gesti compiti, azioni secondo il galateo religioso, parole che esprimono bene una richiesta nella formula classica del vocativo – Maestro buono, che suona quasi come una captatio benevolentiae, ovvero un voler lusingare l’ascoltatore per ingraziarselo, ma questo non sfugge a Gesù – seguita da una chiara e sintetica richiesta. Nella sua preghiera, formalmente giusta, non c’è Dio, la lode del suo nome santo, il rendimento di grazie per la vita ed i suoi benefici. Al centro, nel cuore delle parole c’è il proprio io – cosa io devo fare – la volontà di fare, ma di fare lui, non di lasciar fare a Dio, l’unico che è in grado di compiere il bene ed il giusto che l’uomo desidera.

Con quest’uomo non siamo tanto distanti dalla preghiera del pubblicano (cf. Lc 18.9-14), tutto ripiegato nel cantare le lodi della sua condotta integerrima, non proteso a lodare il Signore per il bene che gli concede la grazia di compiere. Lì abbiamo l’appropriazione, qui l’egoismo, il desiderio di potere che riduce la relazione filiale con Dio al rapporto freddo tra comandante e soldato, l’uno parla e comanda, il secondo ascolta ed obbedisce in maniera servile. Si prega non per avere, ma per vivere la propria dignità filiale. Un bambino abbraccia la sua mamma per sentire l’amore, per sperimentarsi figlio. Talvolta lo farà anche per ingraziarsela e chiederle qualcosa, ma talvolta, non sempre, altrimenti la relazione non è sincera e l’amore è interessato, non limpido e cristallino. Lo stesso è con Dio. Prego perché ho bisogno di stare con Lui, di guardarlo negli occhi, di farmi guardare nel profondo del cuore. Prego perché il mio silenzio si riempia della sua Presenza, la mia mente della luce della sua conoscenza, i miei gesti dell’operosità che il suo amore accende in noi. Corro da Lui per aggrapparmi alla roccia del suo Cuore, corro sulla via dei tuoi comandamenti perché tu allarghi il mio cuore (Sal 118). Corro perché è Lui che rinnova come aquila la mia giovinezza (Sal 103,5), mi getto in mare come Pietro perché mi è stato annunciato che Lui è il Signore (Gv 21). Dinanzi a Dio mi prostro perché Lui è il Signore della mia vita, il creatore dell’universo. Lo adoro per la sua grandezza, Lui Altissimo onnipotente, bon Signore, io piccolissimo vermine suo – diceva san Francesco – Egli abisso di carità, io di miseria e di debolezza. Nella preghiera ci sono anche io, ma in un continuo scambio di reciprocità tra me e Dio, tra ascolto e lode, silenzio e supplica. Se poi vogliamo vedere l’autentica preghiera, quella che giunge, come un freccia, al cuore di Dio, dobbiamo guardare a Gesù, al suo relazionarsi con il Padre e lì apprendiamo che non è l’uomo a fare, ma Dio a disporre, non la creatura ad attivarsi per il bene, ma il Creatore ad intervenire per donare salvezza. Con l’uomo che va da Gesù ci troviamo nell’universo opposto. Dove c’è l’io posto come sorgente di vita, non c’è Dio perché spodestato dal cuore, non ha un trono sul quale poter essere signore.

La famiglia, piccola Chiesa, cenacolo domestico dove lo Spirito scende potente con lingue di fuoco, è scuola di preghiera autenticamente cristiana come lo fu la casa di Nazaret per il piccolo Gesù. In essa si cresce in età, sapienza e grazia. Ma per essere maestri di preghiera, i genitori devo coltivare l’umiltà, mettendo al centro Dio e la persona amata. Essi devono porre gesti significativi che sono poi il risvolto di un amore che mai è egoismo e ricerca di tornaconto. L’altro non è nella mia vita colui che parla e al quale obbedire – quante volte si vive come servilismo il rapporto di coppia! – e neppure l’altro è chiamato a compiere sempre ciò che io voglio. Insieme dobbiamo pensare e fare per crescere in amore e in affiatamento, in sensibilità e capacità di costruire comunione. È questo il segreto anche della preghiera, fare noi e Dio e questa comunione i figli devono imparare dai gesti e dalle parole dei genitori.

Comprendere ciò che si chiede con insistenza

Gesù non scaccia l’uomo, ma lo accoglie come un giorno la madre dei figli di Zebedeo e desidera che rifletta sulle parole che ha utilizzato nella formulazione della sua richiesta. Potremmo dire che il Maestro utilizzi la tecnica dello specchio, ovvero Egli, riprendendo quanto detto dal suo interlocutore, lo porta ad una maggiore consapevolezza, riflette, come uno specchio appunto, quanto ascoltato e tutto rimanda al suo uditore. Quale equilibrio Gesù dimostra nei Vangeli! Non si lascia prendere la mano, non è vinto dall’impulsività né dall’errore dell’altro che in noi determina un’alterazione della pace interiore. Cristo è mosso dal bene di colui che gli sta dinanzi e vuol portarlo gradualmente ad entrare nei gesti e nelle parole, che per quell’uomo rappresentano un vero e proprio mistero perché, al pari dei figli di Zebedeo, non sa quello che sta chiedendo (cf. Mc 10,38). Se riuscissimo a pensare prima di fare qualcosa e di parlare, eviteremmo tanti problemi a noi e numerosi dolori anche agli altri! Gesù non si sofferma sull’appellativo maestro, tanti lo chiamano rabbì per l’autorevolezza del suo insegnamento, ma sull’aggettivo buono poiché nessuno è buono se non Dio solo v. 18. Il Signore gli sta dicendo che è fuori luogo voler carpire la sua benevolenza. Dio non è buono per ciò che compie o per quanto potrebbe fare, ma in sé stesso è buono. Lo sta quasi, potremmo dire, provocando: “Tu mi chiami buono, allora per te io sono Dio, il Signore della tua vita? Ti sei prostrato davanti a me, mi consideri allora il tuo Creatore? Chi sono io per te? Un semplice benefattore oppure il Dio che manifesta la sua misericordia e accorda gratuitamente la sua grazia? Dio solo è buono. Non dare a nessuno altro questo aggettivo perché solo il Signore è buono e fa il bene”.

Usare le parola è un’arte, utilizzarle al momento giusto è una grazia, servirsene per il bene è prudenza, parlare come conviene è saggezza. La domanda di Gesù, a ben pensarci, è spietata, scardina le false sicurezze. L’uomo chiede la vita eterna, ricerca il senso della sua esistenza e domanda la strada per ottenere quanto chiede. Gesù, dal canto suo, gli dice di entrare nel senso delle sue parole, di vedere la motivazione dei suoi gesti, di rendersi conto che, pur di raggiungere il suo fine, lo sta chiamando Dio, ma lo crede veramente?

Crediamo nelle parole che diciamo, oppure tante cose si dicono tanto per dire? Riflettiamo prima di aprire la bocca? Soprattutto con i figli colleghiamo mente, cuore e labbra oppure ci facciamo portare dagli eventi, senza che ci sia un minimo discernimento nella coppia? Crediamo ancora – che brutto questo avverbio in amore! – nel legame del nostro rapporto, nella grazia che ci ha unito e che ci tiene, invisibilmente, ma realmente uniti per tutta la vita? Crediamo che il Ti amo dell’altro nasce dal cuore come il sorriso di un bimbo?

Ma le parole nel caso di quest’uomo celano il suo desiderio, la sua sete, la sua volontà di luce e di vita, di gioia e di senso. E questo Gesù lo sa bene. Ma è necessario venire fuori nell’amore, purificare i desideri, mostrare coraggio nelle scelte, rifuggire compromessi inopportuni. È indispensabile, con Dio e tra noi, passare dal fare all’essere, dal tornaconto al dono, dall’obbedienza servile, all’ascolto amoroso. Un cammino non semplice per quell’uomo come anche per le nostre famiglie. Potremo riuscirci senza confidare in Dio e porre in Lui solo tutta la nostra speranza?

Nella Sacra Scrittura la bussola

Il Maestro non è venuto per abolire la Legge, ma per darle compimento. Difatti, la prima cosa che chiede all’uomo è l’osservanza dei comandamenti della seconda Tavola, ovvero quelli che riguardano i rapporti con il prossimo. Dà per scontato la conoscenza teorica, mentre richiede con determinazione una condotta di vita secondo la Legge. La Scrittura nella vita del popolo è il cuore della fede. Dalla Bibbia discende la vita quotidiana e la conoscenza dei gesti mirabili compiuti da Dio per il suo popolo. Dai Libri dell’Antico Testamento si impara a pregare e a rispettare il prossimo, a celebrare le liturgie nel tempio e a crescere come membra vive del popolo dell’alleanza. La Scrittura è il faro della vita del credente, dell’israelita come del cristiano e non si può prescindere da una conoscenza amorosa e da una lettura orante del Testo sacro – proprio oggi leggiamo, come seconda lettura, un brano tratto dalla Lettera agli Ebrei che presenta la Parola di Dio come viva, efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio, Eb 4,12 – nel quale Dio mi parla, mi dona orientamenti di vita, mi offre i criteri per leggere la storia e scorgervi la sua misteriosa Presenza. La relazione con la Parola rivelata dal Signore apre il cuore verso i fratelli, perché una lettura che non sfocia in carità, una riflessione che è ricerca di una santità personale come stato di perfezione morale e che non vive l’ansia per la sorte dei fratelli è sterile, fine a se stessa. Ecco perché Gesù cita i comandamenti che riguardano la relazione con i fratelli perché è questo il bando di prova che stiamo camminando sulla via di Dio. Una santità che esclude gli altri, che considera i fratelli pietre di inciampo sulla via di Dio non è autentica, inorgoglisce e nutre il proprio io, non edifica la santità della Chiesa e non arricchisce il popolo di Dio.

Quale ardire l’uomo manifesta con la sua risposta! «Maestro, queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Ha osservato una legge, non ha incontrato l’amore, ha risposto ad un comandamento, non all’esigenza che nasce in chi si sente figlio prediletto, erede delle promesse ed egli stesso promessa di Dio per le genti. A che serve osservare una norma se il cuore è lontano? A che giova tenere a mente la Scrittura, ripeterla sette volte al giorno come ogni pio israelita, se poi il Dio che invochi non è il motivo del tuo canto, la ragione della tua vita, la forza del tuo impegno tra i fratelli? E ancora una volta, egli presenta la dinamica del fare, dell’osservare, dell’essere giusti. Gesù sta parlando, ma il suo dire non lo scalfisce, la sua parola non lo converte. Non capita anche a noi lo stesso? Andiamo in chiesa, leggiamo la Scrittura in famiglia, come sposi o anche con i figli – è questo un esercizio quotidiano da non saltare mai per dirsi sposi cristiani e famiglia costruita sulla salda roccia di Dio – ma ciò che leggiamo non incide sulla nostra vita, non crediamo che dalla Scrittura, letta, meditata, fatta scendere nel cuore, fluisce lo Spirito della Vita nuova. Quando leggiamo il Vangelo dobbiamo essere come Mosè, accostarci alla roccia, ovvero alla Parola di Dio e con la verga della fede a cui nulla è impossibile, percuoterla perché ne sgorghi acqua a ruscelli. È quanto i genitori devono insegnare ai propri figli. Devono condurli per mano ai sacramenti, a non accogliere invano la grazia, a non misconoscere la potenza di Dio, a sapere leggere e vivere la Parola del Maestro che apre orizzonti nuovi e dispiega progetti grandi – si pensi a quanto Gabriele propone a Maria, cf. Lc 1,26-38 – che solo Dio può attuare. La Scrittura è la bussola per la nostra vita, se la perdi, non sai più dove andare. La Parola del Signore è la stella polare, dona orientamento. La Bibbia per il credente è il corno dell’abbondanza dal quale stilla la ricchezza dello Spirito di Dio. La Parola è forza dirompente di vita, solo se come seme cade in un terreno buono, ovvero arato, dissodato e accogliente. La conversione rappresenta l’aratura del campo del cuore, se non c’è desiderio di cambiare, si rende Dio e la sua parola impotenti.

Quell’uomo, invece, ha obbedito fin dalla giovinezza alla Legge – osservanza pedissequa ad una norma, non fedeltà amorosa ad una Persona, attraverso i precetti! – ma ora non si converte davanti a Gesù, anzi si sente giusto davanti alla Toràh, di cui Gesù è il compimento. Come sentirsi giusti davanti a Dio in nome di una legge pur santa? Sentirsi giusti è la malattia che spesso inclina i nostri rapporti familiari. Ci si sente giusti con la coscienza in nome di chissà quale legge. E l’amore dell’altro, la fedeltà promessa, il bene condiviso dove sono? In nome della propria coscienza si perpetuano le più gravi e grandi ingiustizie – bisognerebbe dimostrare la rettitudine della propria coscienza! – e così l’egoismo consuma i rapporti ed intristisce la vita. Mai sentirsi giusti, tantomeno arrivati! Mai credere di essere a posto perché tutti conserviamo nei riguardi degli altri un debito difficilmente condonabile – non abbiate nessun debito con nessuno se non quello di un amore vicendevole, Rm 13,5 – chiamati quotidianamente a far quadrare il cerchio – solo Dio fa questi miracoli in noi! – tra la gratuità a noi offerta da Dio e quella da noi vissuta con i fratelli.

Lo sguardo di Gesù che ama e chiama alla sequela

Continua la pedagogia del Maestro e questa volta ancor di più spiazza sia il suo interlocutore – se ne sarà accorto? Ma come non accorgersi dell’intensità dell’amore di Cristo? – sia noi lettori. Gesù non dice nulla, non cerca di riprenderlo e di condurlo nuovamente, con in precedenza, sulla via della Scrittura. Cristo stesso si pone come Legge, Legge vivente e personale attraverso la sequela. È, infatti, giunto il tempo di seguire Lui, perché è Lui la pienezza della Legge, di Lui hanno scritto Mosè nella Legge e i profeti (Gv 1,45). Norma normante è la sua vita, i gesti e le parole, il suo pensare ed il suo amare è regola di vita per l’uomo, perché Gesù è l’uomo vero, uscito dalle mani del Creatore e non irretito nel peccato dalla seduzione del Tentatore. Cristo è l’uomo libero, perché la libertà vera è stare nelle regole, ovvero nel recinto della propria creaturalità, senza voler saltare lo steccato per appropriarsi, al pari di Adamo e di Eva, di ciò che appartiene al Signore. Gesù è l’uomo autentico perché, nell’obbedienza, realizza il progetto del Padre, interiormente plasmato dalla divina sua volontà, sostenuto dalla forza del suo Spirito. Fuori di Gesù Cristo non esiste umanità – il Convegno della Chiesa Italiana a Firenze, nel prossimo novembre, rifletterà proprio sul nuovo umanesimo che discende da Gesù Cristo! – umanità vera, umanesimo propositivo e costruttivo, senza Lui tutto, proprio tutto è ridotto a bene di consumo o, ancor peggio, a merce di scambio. In Cristo risplende la proposta di umanità che discende dal cuore di Dio e se l’uomo, per la colpa dei progenitori, non trova in sé la forza di superare il guado della sua volontà ribelle, c’è lo sguardo d’amore di Cristo a dare forza, infondere coraggio, concedendo l’impossibile, poiché lo sguardo di Cristo comunica l’amore che è lo Spirito Santo.

“Gesù fissò lo sguardo su di lui e lo amò” v. 21. Non più discorsi, ma amore, non più parole che convincono, ma affetto che seduce, non più ammonizioni che redarguiscono il reo, ma dolcezza che esige conversione. Solo e sempre l’amore è il linguaggio da parlare dove la forza dei ragionamenti e delle persuasioni umane non sortiscono più nessun effetto. Gesù si arrende alle vie degli uomini e prende l’unica strada che rende l’uomo immagine e somiglianza di Dio, l’amore. “Al di sopra di tutto vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione” (Col 3,14). Al di sopra di tutto, nella vita di Gesù c’è l’amore. Lì dove l’uomo si arrende, la mente si ferma, la volontà si smonta, lì dove l’uomo sperimenta la durezza del cuore dell’altro, Gesù, con una ferrea volontà, mette a frutto la sua capacità di donare amore, l’amore di Dio Padre in Lui, l’amore dello Spirito che tutto crea e rinnova, l’amore che lo sostiene e lo sosterrà fino alla croce.

Cessino i giudizi, si calmi l’animosità del cuore inquieto, si plachi l’ira perché l’altro non la pensa come noi, vinca l’amore. L’animo si rassereni, l’intelligenza si plachi, vengano deposte le armi degli astrusi ragionamenti, regni l’amore. Sì, batta monete sempre e solo l’amore, l’amore di Dio, l’amore di Cristo Signore perché l’amore, solo l’amore ci spinge (cf. 2Cor 5,14)!

Nel dialogo, Gesù comprende che l’amore suo, riversato a piene mani nel cuore dell’uomo, può dargli la forza di compiere quel salto di qualità che colora la vita di gioia e fa sorgere il sole della letizia. È la via cordis, la strada del cuore, la via dell’amore. In Lui, sorgente dell’amore è il Padre. L’umanità di Cristo effonde sulla sua creatura prediletta lo Spirito che il Figlio eterno scambia con il Padre, da sempre e per sempre. Nello sguardo del Maestro c’è la potenza dell’amore della Trinità a cui nulla è impossibile. Gli occhi di Cristo sono di fuoco, il fuoco del desiderio di trasmettere l’amore e di amare e, per intensità contraria nel bene, quegli occhi suoi superano di gran lunga il Caronte infernale descritto da Dante “con occhi di brace”. Nello sguardo di Gesù c’è la forza per entrare nella nuova ed eterna Alleanza, per passare dal fare all’essere, per vincere il tarlo della ricchezza e liberarsi dal formalismo di una legge vissuta non con il cuore. Nello sguardo di Cristo c’è il cuore di Dio che è padre e madre insieme, un cuore che si commuove, freme per la compassione, partecipa intimamente alle sorti della sua creatura.

“Non riesci a superare te stesso, la tua creaturalità ribelle recalcitra sotto i colpi di una debole volontà? Guarda a Gesù e lasciati amare da Lui. Cadi sempre negli stessi errori, sei lento nel realizzare il bene che sogni, nella carità che desideri, nel ricambiare l’amore che accogli? Volgi il tuo sguardo a Gesù e diverrai, come Mosè, raggiante di luce. Ti senti nel buio della tentazione, nell’angoscia della tribolazione, un branco di cani ti circonda, ti assedia una banda di malvagi (Sal 21,17)?,Invoca il dolcissimo nome del Salvatore, grida con Pietro, “Signore, salvami!” ed Egli afferrerà la tua mano, riportandoti al sicuro sulla barca della sua Chiesa. L’incostanza ti consuma nella preghiera, l’odio cerca di soffocare in te il grano del bene nella vocazione sponsale? Incontra lo sguardo di Gesù, Egli solo ti ama di un amore eterno (Os) e può rinsaldare l’amore di un tempo, rafforzare la promessa fatta, rivitalizzare il tuo essere con l’altro/a una carne sola.

Gesù è il medico, lui può curarti, è il buon pastore, può custodirti, è la vite feconda che nella tua docilità fruttifica in abbondanza, l’acqua viva che zampilla dalla roccia del tuo cuore ferito d’amore. Egli è il Pane disceso dal cielo per sfamarti, il Sole che sorge dall’alto per illuminarti, la Nube che ti protegge dalla calura, la brezza leggera che ti dona il refrigerio, la Pace che ti ritempra nelle forze. Con Lui non temi alcun male, la tua famiglia procede sulla strada del dono, i tuoi figli crescono come virgulti d’ulivo e la tua sposa/il tuo sposo è vite feconda nell’intima tua casa.

Sì, sogniamo con Dio – possono cantare gli sposi cristiani – progettiamo con Lui, costruiamo sulla salda roccia del suo amore il nostro essere una carne sola. Vogliamo sperimentare nella nostra casa la luce della sua Presenza. C’è una difficoltà per noi irrisolvibile? Invochiamo il Maestro, bussiamo con costanza alla porta del suo cuore. Non sappiamo vivere il perdono e l’accoglienza? Gli anni hanno reso difficile il cammino dell’amore? Lasciamoci guardare da Gesù, i suoi occhi comunicano l’amore, il suo sguardo conferma i dubbiosi, rafforza gli spossati, consola gli afflitti, la sua voce richiama persino dalla morte alla vita. Si, amor mio – dovrebbero spesso dirsi gli sposi cristiani – fidiamoci dello sguardo vigile di Dio che non prende sonno, di Lui Custode delle nostre anime, Pastore grande delle pecore del gregge del Padre suo”.

Sotto lo sguardo di Gesù le nostre famiglie devono vivere, crescere, soffrire, sperare, amare, offrire, gettandosi con coraggio nella sequela esigente dell’amore. Lo sguardo di Cristo ci dona forza nel vincere il dubbio, nel debellare l’incapacità di perdonare, nel superare la stanchezza del cammino. Gli occhi di Gesù comunicano pace e ci risanano nel cuore. Cosa avverrà se, nelle nostre famiglie, regnerà Cristo nella potenza della sua divina Persona, la sua presenza, la sua azione, la grazia della sua Parola, dei suoi sacramenti!

La parola di Gesù rende ragione del suo sguardo: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!» v. 21. Cosa manca nella nostra vita, nella relazione di coppia, nei rapporti con i figli? Gesù ci spinge a fare un esame di coscienza senza nasconderci dietro un dito: possiamo dire di procedere sulla via di Cristo, che è quella del rinnegamento, della povertà interiore, del dono gratuito, dell’amore fedele? Siamo disposti ad anteporre l’amore alle cose, gli interessi all’attenzione e alla cura per l’altro/a? Riusciamo a mettere come priorità la nostra famiglia oppure, in nome del lavoro, fuggiamo dai nostri impegni di sposi, giustificandoci continuamente? Seguiamo Cristo insieme, come sposi, come famiglia? Cerchiamo di vivere insieme la domenica come giorno del Signore e della Chiesa domestica? Cristo è per noi l’unica cosa necessaria?

La famiglia, vivaio di vocazioni all’amore

Quell’uomo era venuto correndo, si era prostrato in ginocchio, aveva chiesto con passione. Ora, invece, dopo aver ascoltato Gesù, “si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva molti beni.” v. 22. In lui, la ricchezza soffoca la parola del Maestro ed impedisce all’Amore di regnare, all’affetto di vincere, al bene di dilagare senza misura. Cristo lo ama e l’uomo si intristisce, gli chiede di seguirlo e lui si allontana, di liberarsi di tutto ed egli si fa scuro in volto. Non era stato forse quel tale ad andare da Gesù a chiedere la strada della vita? Ed ora perché non vuole prenderla con altrettanta fretta? Non è bene, infatti, mettere limiti all’amore di Dio e dell’altro/a, porre impedimenti all’affetto, dubitare della potenza dell’amore.

È questo che la famiglia deve evitare nell’educazione all’amore che non si ritrae dinanzi al sacrificio e che nell’audacia manifesta tutta la sua forza. Così la famiglia diviene il vivaio naturale della chiamata, oltre che all’amore coniugale, alla consacrazione e alla vita presbiterale perché l’intensità dell’amore è lo stesso, pur nei diversi stati di vita, così come identico è la meta, costruire in terra il Regno di Cristo Signore.

“Mi rivolgo a voi, famiglie cristiane – scriveva Giovanni Paolo II dopo il Sinodo sulla Vita consacrata, il 25 marzo 1996 – Coltivate il desiderio di dare al Signore qualcuno dei vostri figli per la crescita dell’amore di Dio nel mondo. Quale frutto dell’amore coniugale potrebbe esservi più bello di questo? È necessario ricordare che se i genitori non vivono i valori evangelici, difficilmente il giovane e la giovane potranno percepire la chiamata, comprendere la necessità dei sacrifici da affrontare, apprezzare la bellezza della meta da raggiungere. È nella famiglia, infatti, che i giovani fanno le prime esperienze dei valori evangelici, dell’amore che si dona a Dio e agli altri. … Prego perché voi, famiglie cristiane, unite al Signore con la preghiera e la vita sacramentale, siate vivai accoglienti di vocazioni”.

La prossima domenica la canonizzazione di Luigi e Zelia Martin, genitori di santa Teresa di Gesù Bambino, mostrerà quanto la bellezza della vita coniugale vissuta con Dio, secondo il suo progetto, sia la radice di una santità travolgente, come quella della giovane carmelitana di Lisieux, capace ancora di incantare e far nascere negli uomini la nostalgia della vita beata.




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3 risposte su “La malattia del sentirsi giusti”

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