Restare accanto

“Tornerò da lei e aspetterò che mi parli”

di Ida Giangrande

Alzheimer, una fiamma che brucia i ricordi di una vita riducendoli a brandelli, ma qualche volta sotto la cenere il fuoco continua a bruciare, e le persone tanto lontane ritornano per restare ancora con noi, basta aspettarle e restare lì ad ascoltare.

La vita sembra scorrere lenta, solo quando è volata via ci accorgiamo di quanto invece sia prezioso ogni istante del tempo che viviamo e di quanto sia veloce e inafferrabile l’incedere dei giorni. Ho avuto il privilegio di vederli passare tutti gli istanti di una vita, nello sguardo apparentemente spento di una donna affetta dal morbo di Alzheimer.  Una zia di mio marito molto più vicina alla figura di una nonna che di una vera e propria zia per lui. Io l’avevo vista poche volte prima che si ammalasse, solo poche volte ma mi erano bastate per capire che era una donna buona, di quella bontà profonda e radicata, che cerca istintivamente il bene dell’altro e si mette a servizio del prossimo anche senza volerlo. Ed ora dopo averne sentito parlare come di una grande cuoca sempre allegra e sorridente, la vedevo lì seduta su una sedia a rotelle e intenta a inanellare cerchi di plastica intorno a un cilindro. Non so dire quante domande mi siano passate per la testa, né quanta tristezza mi gonfiava il cuore nel vedere l’immagine di una bambina nel corpo di una vecchietta; in fondo cos’altro è l’Alzheimer se non una perdita degli anni vissuti, un azzeramento del tempo percorso? Dovremmo essere abituati come società a vedere una condizione come quella, ma ogni volta scopriamo di non essere abbastanza pronti per affrontare questa malattia e ogni volta è sempre più dura colmare le distanze che si creano tra lo sciente e il vuoto dell’incoscienza. L’Istituto superiore di sanità, calcola 500mila ammalati solo in Italia, circa il 5% delle persone con più di 60 anni di età. È una percentuale alta che segna il passo di una malattia della quale forse sappiamo ancora troppo poco. Eppure mentre ero seduta di fronte a lei e la osservavo assorta nei miei pensieri, ho visto accendersi una luce nel fondo dei suoi occhi. Mi ha guardata. Mi ha sorriso e d’improvviso ha cominciato a parlare: “Sto aspettando mio marito che torna da lavoro. Ho cucinato il riso con la verza, perché ai miei figli piace – li ha chiamati tutti, i suoi cinque figli – Salvatore e Nicoletta, mangiano tutto quello che cucino, mentre Pasquale e Alfonsina fanno sempre mille capricci, a Giuseppina invece glielo devo dare ancora io, perché è troppo piccola, ma è una bambina buona”. Mi sono chiesta se stava parlando proprio con me o con una persona immaginaria. “Sono stata una donna fortunata – racconta – mio marito è un gran lavoratore e non mi ha mai fatto mancare niente. Certo qualche volta abbiamo dovuto fare i conti a fine mese, ma signora mia, chi non li deve fare. La vita è tutta un conto. Un altro poco e dovremo comprare pure l’aria che respiriamo!”. Ho capito che non mi aveva riconosciuta e che il cervello in quel momento le stava offrendo la possibilità di ritornare nei suoi stessi panni ancora una volta, anche solo per un attimo. I suoi ricordi stavano affiorando in ogni parola e in ogni gesto. Mi racconta dei suoi figli, di quando doveva ficcarsi sotto il letto per prenderli e farli andare a scuola; io rido e lei con me. Per un attimo ci dimentichiamo della malattia e sembriamo due amiche di vecchia data, che conversano amichevolmente del più e del meno in una scena di ordinaria e squisita normalità. Gocce di memoria che cadono giù dai suoi occhi, come lacrime di perla che io raccolgo con premura e attenzione. La lascio parlare, non intervengo mai e lei continua a buttare giù le scene della sua vita, strappate qua e là all’oblio che avanza impietoso nella sua mente. Continua a raccontarmi di quello che le piaceva cucinare, di quello che le piaceva mangiare, dei duetti con un suo marito, dei suoi mille difetti, ma alla fine conclude sempre: “Era un bravo uomo! Aveva il suo carattere, ma era un bravo uomo”. Mi piaceva sentirla parlare, la sua voce mi portava indietro nell’infanzia di mio marito, mi sembrava di capire perché le voglia così bene, che cosa ci sia di tanto particolare in quella donna. Poi, proprio mentre stavo iniziando a crederci sul serio, la sua voce si è bloccata: prima ha iniziato a parlare di altro e poi ha detto una serie di cose sconclusionate. Quando è ritornata ai suoi anelli di plastica, mi è sembrato di spegnermi insieme a lei, l’ho abbracciata ma lei sembrava impassibile, e invece io so che non è così: i suoi occhi me lo dicevano mentre mi guardavano e mi ringraziavano per averle dedicato lo spazio di qualche istante, per aver ascoltato la voce dei suoi ricordi e averle permesso di tornare a vivere anche se per pochi minuti. Quello che doveva essere un momento triste, era diventato invece una spiegazione: l’Alzheimer non è la peggior cosa che esista, fino a che gli occhi sono aperti sul mondo, la vita è ancora in circolo e c’è speranza per incontrarla di nuovo quella simpatica vecchietta. Così ho deciso di trovarmi del tempo per tornare da lei, mi siederò sulla sedia di fronte alla sua e aspetterò, aspetterò che ritorni da me.




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