XXII Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - 3 settembre 2017

Solo il vivere secondo Dio e non secondo me o secondo gli uomini conduce alla gioia vera

di fra Vincenzo Ippolito

Solo chi non ama non capisce la croce, solo chi non si è sentito amato fino al dono di sé, si copre il volto dinanzi alla possibilità di percorrere la medesima strada del Maestro. Per chi entra nella croce, quel duro legno è più dolce di un favo di miele, perché è il tabernacolo dell’amore che si nasconde, la dimora del dono senza misura.

Dal Vangelo secondo Matteo 16,21-27
In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno.
Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».
Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni».

 

La pagina evangelica odierna (cf. Mt 16,21-27) segue direttamente quella della scorsa domenica (cf. Mt 16,13-20), da intitolare rispettivamente professione di fede di Pietro e Primo annuncio della Passione. Si tratta di brani da leggere insieme, una sorta di dittico formato da due diversi quadri, perché scene conseguenziali che si illuminano a vicenda, mostrandoci cosa significa per Gesù essere il Cristo secondo il volere del Padre e cosa comporti per noi seguirlo come discepoli lungo la strada del Golgota. Difatti, nell’ultimo versetto del brano letto la scorsa domenica – “Allora [Gesù] ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che era il Cristo” Mt 16,20 – l’Evangelista lascia intendere che i discepoli non hanno quella maturità per annunciare che Gesù è il Cristo. Dalla verifica fatta il Maestro comprende che la loro fede non è ancora salda e hanno bisogno di camminare ancora dietro il Maestro, interiorizzando maggiormente la sua Parola. Anche Pietro si trova nella stessa situazione. Ha confessato la messianicità di Gesù con le labbra, ma credere con il cuore è un impegno molto più gravoso per lui come anche per gli altri discepoli e Matteo lo dimostrerà proprio descrivendo la sua reazione alla parola franca del Maestro che indica nella croce la meta del loro cammino. Se Gesù impone il silenzio – solitamente definito segreto messianico – è perché conosce i discepoli e sa che non hanno ancora compreso in profondità chi è Lui – il Cristo, il Figlio del Dio vivente – e come Egli, secondo la missione ricevuta dal Padre, vuole e deve essere il Messia. Gli apostoli hanno accolto il seme della parola con gioia, ma non ha messo ancora radici profonde ed essi appaiono quindi incostanti nel vedere il bene da compiere e scegliere di attuarlo in totale docilità allo Spirito di Gesù (cf. Mt 13,20-21). Hanno i concetti, ma ora le parole devono riempirsi del giusto senso, del reale significato, del contenuto secondo Dio e non di quello che le idee degli uomini possono intendere e trasmettere. Le nostre parole devono donare il Dio di Gesù Cristo, non quello che noi ci attendiamo, desideriamo o crediamo come nostro Dio. Non è Lui fatto a nostra immagine e somiglianza, ma il contrario e siamo noi che dobbiamo uniformarci a Lui, accogliendolo così come Egli è e si rivela in Cristo, il volto visibile del Dio invisibile.

Gesù dona consistenza e contenuto alle parole umane, le passa nel crogiolo della volontà del Padre per temprarle al fuoco del suo desiderio di bene, per purificarle dai residui dei nostri desideri egoistici e così renderle capaci di trasmettere la verità della redenzione che Cristo porta a compimento nel mistero pasquale. Se i discepoli non hanno idee chiare e distinte su chi è Gesù e su come Egli sia il Salvatore del mondo, invece di evangelizzare, devieranno le folle e non le condurranno ad entrare nel Regno e a partecipare della grazia della salvezza, a gustare la bellezza dell’amicizia con Dio in Cristo Gesù. Le parole dell’annuncio devono tradure i contenuti della fede, l’esperienza del Signore, la grazia della sua Pasqua. In caso contrario, quando non si ha una profonda conoscenza del mistero di Dio, non solo si cade in frasi fatte e si può peccare di superficialità, ma talvolta può accadere che, invece di costruire, distruggiamo. Le nostre parole possono abbattere il bene che crediamo di fare e se costruiamo, edifichiamo il nostro regno, non il Regno di Cristo, quando svuotiamo del giusto contenuto l’annuncio del Vangelo. È quanto nota Paolo, scrivendo ai Corinzi (cf. 1Cor 1,17). Egli sa bene che non è solo importante annunciare il Vangelo– “Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo” – ma anche farlo nel modo opportuno – “non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo” – perché può capitare che, se l’evangelizzatore non sa bene tradurre la comprensione del mistero di Dio nelle parole o se manca di una profonda esperienza-conoscenza del Risorto, per quanto le parole vogliano essere esatte, o mancano della credibilità dell’annunciatore oppure della chiarezza richiesta per entrare nel mistero di Dio e renderlo comprensibile e desiderabile per trovare la via della gioia. In questo caso, colui che dovrebbe confermare nella fede, diviene motivo di scandalo e di devianza dalla retta dottrina.

È necessario per i discepoli continuare ad essere istruiti da Gesù. Non bastano le formule per dirsi cristiani ed evangelizzatori, catechisti e guide di un gruppo ecclesiale, come anche educatori nella fede dei propri figli. Le persone a noi affidate si accorgono se le nostre parole sono ripetizione libresca di ciò che dicono altri, oppure se nascono da una dottrina che è passata nell’esperienza viva del Risorto, le nostre parole trasudano dell’esperienza del Signore che è vita della nostra stessa vita. Quante volte non ci rendiamo conto di essere morsi dalla presunzione di crederci maturi nell’annunciare agli altri Cristo che, a ben vedere, non possediamo in profondità e la cui grazia non è riuscito, non certo per sua incapacità, ma per la nostra durezza, a renderci migliori, santi come Dio ci vuole. Ecco perché Gesù sente il bisogno di spiegare la sua vera identità, di mostrare la modalità della sua messianicità, di dire chiaramente cosa lo attende, di preparare i discepoli alla disfatta apparente della sua croce che rivela fin dove giunge l’amore vero. È di fondamentale importanza spiegare e chiarire, unire i giusti concetti alle parole esatte, perché siamo chiamati a creare una relazione tra la realtà intorno a noi e ciò che di essa ci figuriamo nella mente e poi traduciamo in parole. Risulta essenziale unire parola e cuore nell’incontro con Gesù perché la salvezza nasce proprio da questo scambio. San Paolo lo indica con chiarezza: “Se confesserai con le labbra che Gesù è il Cristo e crederai con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti sarai salvo” (Rm 10,9). Tale armonia il Maestro richiede ai suoi discepoli perché, in caso contrario, non sperimenteranno la potenza della sua misericordia e non godranno della conoscenza amorosa del Padre. Gesù sa che è necessaria la sua spiegazione, insostituibile dimostraci la modalità da attuare per rivelarsi Salvatore nostro. È importante fare la volontà di Dio come piace a Dio ed è questa la cosa che appare più difficile per i discepoli.

Nelle nostre famiglie dobbiamo darci tempo per imparare a imprimere alle parole il giusto significato dei concetti. I chiarimenti e le spiegazioni non sono una perdita di tempo, ma rappresentano momenti importanti nel dialogo di coppia e con i figli. Gesù ci insegna a capire e ad essere coscienti di quello che diciamo, ad imparare da Lui a penetrare sempre meglio la volontà del Padre su di Lui e su di noi. Dobbiamo aiutarci a divenire maturi dentro, a saper interiorizzare i valori che ci vengono proposti e che possono aiutarci a divenire adulti sul serio, sfuggendo alla falsità e alla superficialità imperante. Dobbiamo far scendere nel cuore i contenuti della fede, ruminarli con perseveranza e tradurli, con l’aiuto dello Spirito, in stile evangelici di vita autenticamente cristiana. Per fare questo è necessario avere una regola di vita (cf. 1Ts ), indicazioni concrete da seguire per non disperderci nei mille rivoli della cose che ci attirano e che poi non riempiono il cuore. È necessario vigilare su di noi per non deviare e camminare sempre alla presenza del Signore. Possiamo anche parlare la stessa lingua, usare le medesime parole, ma non sempre intendiamo le stesse realtà. Gli equivoci tra noi non nascono forse da questo? Proprio come capita nella cerchia dei discepoli. Per questo è bene guardare a Gesù ed imparare da Lui a non dare nulla per scontato e a vedere cosa ognuno si porta veramente nel cuore.

Messia non secondo gli uomini, ma secondo Dio

Al tempo di Gesù circolavano nel giudaismo molte correnti di pensiero circa la figura del Messia e tutte, pur nella loro diversità, attendevano un Cristo forte e potente, capace di liberare il popolo eletto dalla mano dei Romani. Che anche i discepoli non siano estranei a queste concezioni lo apprendiamo da quanto Cefa e il suo compagno dicono sulla strada verso Emmaus – “Noi speravamo che fosse lui colui che avrebbe liberato Israele” Lc 24,21 – come anche da altre note che gli Evangelisti trasmettono lungo il cammino verso la Pasqua. Coloro che seguono Gesù hanno una ben definita idea di Dio e si aspettano che il Maestro confermi le speranze espresse e i desideri nutriti nel cuore. Pur appartenenti al popolo d’Israele, credono di poter strumentalizzare Dio, non riescono e non vogliono capire che Egli è totalmente libero dagli schemi umani e che si rivela come e quanto vuole. I profeti si erano mossi in questa linea e più volte avevano tuonato contro la pretesa di voler piegare Dio alle proprie voglie. Ad esempio, Isaia, a nome di Dio, aveva ammonito Israele “i miei pensieri non sono i vostri pensieri”, mentre Osea aveva profetato “non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te” (Os 11,9). Anche Gesù dovrà fare i conti con queste diverse visioni messianiche. Le tentazioni alle quali è soggetto nel deserto (cf. Mt 4,1-11), oltre a richiamare le prove del popolo, rimandano a tre diverse concezioni messianiche che Gesù rifiuta appellandosi alla Scrittura. Sempre il Nazareno verrà tentato di essere il Cristo secondo gli uomini e non secondo Dio – la voce di coloro che, sotto la croce, gli chiedono di scendere per dimostrare la sua divinità è l’ultima di una serie di prove alle quali il Signore non cede, rifacendosi sempre al comando avuto da Dio – perché è il Padre l’unico suo riferimento. La linea autentica nella quale Egli si identifica è quella profetica, bene espressa da Isaia nei Canti del Servo sofferente.

È una tentazione forte quella di assecondare le voglie della gente, modellare la propria identità su quello che gli altri si aspettano, cercare il plauso della folla e lasciare che siano i desideri altrui a determinare le proprie scelte. Gesù rifiuta categoricamente tutto questo e sempre scappa dinanzi a queste pretese che non rispondono al piano di Dio, come quando, dopo la moltiplicazione dei pani, le folle vogliono farlo re e Lui si ritira sul monte tutto solo (cf. Gv 6,15). Il Maestro non ha mezze misure nei riguardi dei suoi quando si creano malintesi circa la sua identità. Ciò che il Padre gli ha comandato di fare, quanto è riuscito a comprendere della volontà divina nel deserto e nelle continue soste in preghiera, lo partecipa con la solenne determinazione di chi è totalmente abbandonato nell’abbraccio di Dio, di chi si fida e confida nella sua parola che è sorgente di gioia vera e perfetta. Gesù accoglie la via proposta dal Padre e sa che in essa c’è una ragionevolezza che gli uomini non possono comprendere, una logica che chi non ama e non ha conosciuto l’amore non può capire in profondità. L’annuncio della passione nasce nel cuore di Cristo dall’amore che Egli nutre per il Padre. Il Figlio accetta la croce e la sofferenza perché vuole essere Figlio in ogni circostanza della vita umana assunta nel grembo di Maria, anche nelle situazioni limite come il dolore e la morte Gesù è e vuole essere in tutto Figlio, che conosce il Padre, che ne ricambia l’amore, pronto sempre e solo a fare ciò che a Lui piace. Gesù non subisce la volontà del Padre, ma la sceglie come propria, la accoglie come sua, ne sposa il motivo, ne condivide la ragione, è proteso a realizzarla con determinazione, a consumarsi per essa con amore. Ecco perché ne parla con serenità. In Lui non c’è la minima possibilità di trovare vita e gioia lontano da ciò che il Padre è e vuole e così il silenzio imposto è rotto dal suo eloquio di chiarificazione su ciò che significa per Lui essere Cristo e su cosa comporti per i discepoli avere un Maestro pronto ad amare gli uomini sino alla fine. Appunta Matteo “Da allora cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi e venire ucciso e risorgere il terzo giorno” (Mt 16,21).
Dobbiamo notare che l’Evangelista sta scrivendo dopo la Pasqua di Gesù e mette sulle labbra del Signore la coscienza che la comunità ha del mistero della sua consegna. Al tempo stesso però l’annuncio di Cristo rivela la profonda consapevolezza che accompagna la sua vita pubblica e che diviene proposta per quanti vogliono seguirlo, assecondando la sua chiamata. Nell’itinerario di sequela non ci sono mezze misure, perché ogni discepolo è chiamato a verificare il proprio cuore per vedere se è in grado di seguire veramente il Signore, se è capace di mettersi seriamente in discussione. Gli apostoli, per avere il coraggio di andare dietro a Gesù, devono radicarsi nel mistero della sua Persona. Per seguire il Maestro è necessario vivere in Lui e di Lui, accogliendo la linfa del suo amore e mai soccombere alle seduzioni del Nemico che tenta di estromettere la presenza e l’opera di Dio in noi.

Contemplando la scena siamo colpiti dal modo in cui Gesù parla, partecipa ai suoi ciò che lo attende, mette in chiaro quello che lo aspetta a Gerusalemme. Nelle nostre relazioni cerchiamo sempre di edulcorare la verità che ci sembra scomoda, di renderla meno invasiva, poco dolorosa. Siamo convinti che è giusto parlare con sincerità e che questo sia il segno del nostro amore, ma non riusciamo a evitare di essere vinti dalle vertigini delle esigenze che la verità ci impone. E così, pur volendo, veniamo meno al quel “Sì, si, no, no” (Mt 5,37) che Gesù ci comanda nel Vangelo. Non dobbiamo aver paura di dire la verità con chiarezza e determinazione, sapendo che solo la verità è sorgente di libertà in noi, nelle persone che ci vogliono bene e che amiamo, come anche tra noi. Se viviamo di mezze parole non siamo liberi nell’amore che comporta sempre il rischio. Chi ama, però, sa che la verità ripaga sempre, anche se devono passare i tre giorni del sepolcro che spesso possono essere simili ai quarant’anni del popolo nel deserto. La verità ripaga sempre, quando lo sa Dio, ma il giusto si abbandona a Lui e riposa sulla sua promessa, sul cuore di Colui che è la sua unica forza e sicurezza.

Si può essere discepoli, rifiutando la croce?

All’annuncio della passione, l’Evangelista non fa seguire la reazione dei discepoli, ma del solo Pietro che prontamente si ribella. “Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai”. Alle parole si aggiungono i gesti “Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo” (Mt 16,13). La scena che ci viene presentata è agghiacciante, il discepolo che prende il posto del maestro, l’uomo di Dio, colui che è chiamato ad ascoltare e ad obbedire si vesti dell’autorità di dare consigli e di redarguire. La narrazione biblica è – ahimè! – ricca di questa dinamica, come ne è piena anche la nostra vita. La pretesa dell’uomo di prendere il posto di Dio è la trappola nella quale spessissimo cadiamo. Pietro agisce con impulsività – la tempestività della lingua raramente è un bene, il più delle volte un danno dalle conseguenze incalcolabili! – l’apostolo non si rende conto che la confessione di fede, opera in Lui dello Spirito, va custodita perché non si inquini, va tradotta in vita perché non rimanga solo parola che il vento porta via. Il pescatore di Galilea non si accorge che il fuoco della superbia sta bruciando i primi germogli della parola del Signore nel terreno del cuore, il Nemico lo sta portando a prevaricare il Maestro, il suo egoismo a mettere in scacco il Figlio di Dio. “Pietro che ha confessato Gesù Cristo – diceva Francesco nella sua prima Eucaristia da papa, nella cappella Sistina, il 14 marzo 2013 – gli dice: Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo. Io ti seguo, ma non parliamo di Croce. Questo non c’entra. Ti seguo con altre possibilità, senza la Croce. Quando camminiamo senza la Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani, siamo Vescovi, Preti, Cardinali, Papi, ma non discepoli del Signore”. Inutile credersi difensori di Dio e dei suoi diritti – Gesù ha diritti? Nessuno! Egli ha scelto di non averne, da Betlemme quando non ha avuto il diritto di nascere in una casa, fin sulla croce, il posto per i malfattori ed i ladri – non serve perseguire la chiarezza di dottrina, che è pur giusta e santa, se questa non trova nella prassi, nella concretezza della vita la sua verifica.

Possiamo anche sentire compassione per Pietro, ma in lui ci siamo noi. Quando non vogliamo accogliere la nostra croce quotidiana, quando presumiamo nella preghiera di dire a Dio, spesso in maniera minuziosa, come debba comportarsi, quando pensiamo di poter rimproverare il Creatore, credendoci capaci o in diritto di mettere sul banco degli imputati Dio che opera sempre con amore e per amore nostro, allora siamo come Pietro, prendiamo Gesù in disparte, lo rimproveriamo, siamo per Lui come il Nemico, cerchiamo di ogni modo di distoglierlo dal progetto del Padre! Quando ci comportiamo così anche con i fratelli, quando cerchiamo, per invidia o per altri sentimenti sempre contrari al vero bene, di distogliere chi ci sta accanto dalla via della croce, quando presentiamo scorciatoie che nulla hanno in comune con il Vangelo, siamo Satana per chi ci sta accanto. Invece di confermare nella fede, di spingere a vivere con coraggio le esigenze della vita cristiana, siamo motivo di scandalo, deviamo e facciamo deviare dal cammino del bene. L’evangelista Matteo vuole che ci specchiamo nella figura di Pietro, nel suo ribellarsi a Dio, nel non accogliere la sua croce, nel suo rimproverare il Signore, perché si renda conto dello sbaglio. E noi come combattiamo la nostra superbia? Come cerchiamo di vincere la prevaricazione di Dio e dei fratelli che dentro ci divora? Come proviamo ogni giorno a soffocare in noi la nostra volontà di mettere il Signore alla berlina, giudicando poco opportuno o per nulla giusto il suo rivelarsi nella debolezza e nella croce?

Pietro con che coraggio rimproveri il Maestro? Quale ardire è mai il tuo da prendere in disparte il tuo Signore per redarguirlo? Ma ti accorgi della tua presunzione, del tuo crederti in diritto di dire a Gesù quello che è bene fare o evitare? Anche tu, come Eva, hai steso la mano ed hai preso dell’albero della conoscenza del bene e del male. Ne hai mangiato il frutto, bello alla vista, desiderabile per acquisire la scienza ed ora ti senti al di sopra di Gesù, lo precedi nella corsa, tu che camminando sul mare sei stato salvato non dalla tua capacità, ma dalla mano del tuo Signore, dove credi di poterti ergerti? Dare consigli al Maestro, prendere il suo posto, rimproverarlo! Ti rendi conto dove sei caduto? Riconosci di essere polvere e cenere come ogni creatura! Ti seguo, Pietro, fratello mio, perché in te mi rivedo e con te voglio imparare a accogliere il mio limite ed amare la mia creaturalità ribelle. Mi voglio amare come mi ama Dio, negli alti e bassi della mia vita, nelle diverse fasi del mio carattere, nelle ribellioni che mi abitano, nelle contraddizioni che dimorano in me. E voglio far questo non per giustificarmi e vivere schiavo di me stesso, ma per risorge con la forza di Dio a vita nuova, per essere illuminato dalla resurrezione del mio Signore che mi salva e sempre mi salverà dal mio vero nemico, quello che mi porto sempre dietro, il mio io.

Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto (Gv 19,37)

Gesù, rispondendo a Pietro, gli ricorda che non può prevaricare il Maestro – Va dietro a me – che andare contro Dio ed il suo progetto significa passare dalla parte del Nemico – Satana – e che il sentire di Dio deve permeare i sentimenti del cuore del discepolo. Il Maestro non ha mezze misure, utilizza parole chiare come in precedenza, affermazioni perentorie che vanno accolte con fede, come quelle che spesso dovremmo avere noi per non cadere nel buonismo che non ha mai condotto nessuno a santità. Quanto è avvenuto con Pietro spinge il Maestro a chiarire a tutti la via che li attende “Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24).

Non esiste un cristianesimo senza croce. È questo, infatti, il suo segno distintivo. Chi presume di annunciare un Vangelo senza lo scandalo di quell’infame patibolo o di togliere al duro legno del Golgota tutte l’atrocità di una morte ignominiosa, svuota la croce (cf. 1Cor 1,17), perché Dio ha scelto la greppia e la croce come luoghi del suo massimo rivelarsi. Lì c’è Dio, possiamo e dobbiamo dire guardando la povertà di Betlemme e la crudeltà del Calvario. Lì c’è Dio, il mio Dio! è questo il criterio che rende la fede cristiana così vicina ai drammi degli uomini, anche se può apparire lontana anni luce dalla ragione dei benpensanti. Chi ha detto che una realtà per essere razionale deve entrare nei limiti dell’umana ragione, pur sempre creaturale? È la croce di Cristo, l’unica a fiorire in vita, che ci fa dire dinanzi ai drammi delle nostre famiglie Lì c’è Dio e ci dona forza per viverle con la gioia di sapersi luogo dove Cristo misteriosamente dimora; è la croce di Gesù che porta tanti ad accogliere come un dono le contrarietà di un matrimonio non semplice, i problemi di figli che sono diversi da come si attendevano o volevano o che con difficoltà si aprono al mondo e alla realizzazione; è lo sguardo rivolto al Golgota che infonde il coraggio di lottare senza mai arrendersi perché forte è l’amore, tenace la volontà di donarsi, granitica la determinazione del sacrificio e dell’offerta di sé fino ala fine, dietro Gesù Cristo.
Solo chi non ama non capisce la croce, solo chi non si è sentito amato fino al dono di sé, si copre il volto dinanzi alla possibilità di percorrere la medesima strada del Maestro. Per chi entra nella croce, quel duro legno è più dolce di un favo di miele, perché è il tabernacolo dell’amore che si nasconde, la dimora del dono senza misura, il patibolo dove la morte è vinta, annegata nell’oceano della misericordia che dovunque si espande. Abbiamo bisogno di guardare alla croce, sapendo che si diventa raggianti nell’amore e nel dono, nell’offerta e nel sacrificio solo tenendo fisso lo sguardo sul Crocifisso. Solo Lui è il Signore. Solo Lui può donarci forza per capire che il secondo me o il secondo gli uomini non conduce a nulla, perché unicamente il secondo Dio è la via della gioia, la porta per il Cielo.




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1 risposta su “Solo il vivere secondo Dio e non secondo me o secondo gli uomini conduce alla gioia vera”

Signore salvaci ..Maria aiutaci ..la croce c’ è ma è del Risorto grazie perdono aiuto Ave Maria e avanti..ascolta radio Maria

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