XXIV Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - 17 settembre 2017

L’amore diventa maturo nel perdono, impedendo al male di dilagare nella propria vita

di fra Vincenzo Ippolito

Settanta volte sette vuol dire che il perdono non va contato, l’amore non va misurato, l’affetto non va pesato. L’amore è capacità di donare all’altro ciò di cui ha bisogno e quando l’altro si trova nell’errore, quando si è lasciato illudere da falsi miraggi, la correzione da sola non riabilita il reo che ha bisogno di avere la forza di riprendere il cammino in maniera spedita.

Dal Vangelo secondo Matteo 18,21-35
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

 

Continua oggi la lettura del Vangelo secondo Matteo lì dove la scorsa domenica ci eravamo fermati (cf. Mt 18,15-20). Gesù ha terminato di parlare, assicurando ai discepoli la sua presenza in mezzo a loro, quando Pietro interviene, determinando un cambio di argomento nell’insegnamento. Il quesito che presenta al Signore riguarda il perdono da accordare al fratello che cade in errore. Chi ama non solo corregge – lo vedevamo la scorsa domenica – ma dona sempre possibilità nuove agli altri per riprendere il cammino, dopo ogni caduta. «Il Verbo di Dio – insegna il Concilio nella Gaudium et Spes – ci rivela che Dio è carità e insieme ci insegna che la legge fondamentale dell’umana perfezione, e perciò anche della trasformazione del mondo, è il nuovo comandamento della carità. Coloro che credono alla carità divina, sono da Lui resi certi, che è aperta a tutti gli uomini la strada della carità e che gli sforzi intesi a realizzare la fraternità universale non sono vani». Solo l’amore che diventa perdono è la forza che può trasformare il mondo, iniziando da noi.

Alla scuola del Signore

Il brano evangelico di Mt 18,21-35 si può dividere in due parti. Nella prima (cf. Mt 18,21-22) il Maestro risponde a una domanda di Pietro in modo chiaro ed inequivocabile, mentre nella seconda (cf. Mt 18,23-35), il Signore allarga il discorso, presentando la parabola del debitore spietato per mostrare come il perdono ottenuto di cuore dal Padre debba far circolare il dono del suo amore nelle relazioni tra noi. L’insegnamento dell’Evangelista, nella dinamica del discorso ecclesiologico, diviene ancora più significativo perché, dopo la correzione fraterna (cf. Mt 18,15-18) e la presenza permanente del Risorto nella sua comunità (cf. Mt 18,19-20), il perdono vicendevole è la forza dell’unità tra i discepoli, che proprio dall’amore del Padre, sono resi lievito di un mondo nuovo.
A motivare la nuova catechesi di Gesù è l’intervento di Pietro: “Signore, se il mio fratello commette una colpa contro di me, quante volte dovrò perdonarlo?” (v. 21). Il gesto dell’avvicinarsi, che prepara la domanda, mostra la relazione di familiarità ed amicizia tra i due. L’apostolo, infatti, presenta la sua richiesta perché si sente accolto, mai respinto da Gesù, soprattutto dopo quanto accaduto a Cesarea di Filippo. Egli sa bene che, nel cammino di discepolato, la parola di Gesù deve plasmare il cuore e diversamente orientare la vita. Il chiedere serve per venire fuori dall’anonimato del gruppo e palesare, senza vergogna, i propri dubbi e desideri, le difficoltà e le paure del cammino. Pietro è l’esempio più bello del cuore umano abitato da luci ed ombre, coraggio e debolezza, dalla gioia della sequela e dalla difficoltà del rinnegarsi, un cuore il suo che si affida a Gesù, che confida nella sua comprensione, che si fida della sua sapienza di Maestro impareggiabile, le cui parole sono spirito e vita.

Domanda e risposta è questa la dinamica che scandisce la relazione educativa che Gesù vive con i discepoli. Tratto comune della pedagogia antica, il chiedere mostra l’interesse e l’umiltà di affidarsi ad un altro, il riconoscere l’autorità di colui che è più avanti nel cammino, la necessità di lasciarsi guidare; il rispondere, invece, affondando le radici nell’esperienza, rivela la capacità di donare pezzi di vita che illuminano il cammino dell’altro e gli indicano la meta. La nostra vita è impastata di domande e dalla ricerca di risposte autentiche. Domandare è la strada della conoscenza. Un bambino assorbe tutto del mondo che lo circonda nei primi anni di vita, scruta ogni realtà con gli occhi, impara a riconoscere la mamma ed il papà, le persone che lo circondano e i luoghi della sua quotidianità. In seguito, dopo aver imparato a parlare, si pone le domande per noi più ovvie, ma non per lui che si affaccia al mondo per farlo proprio. Così fa anche Pietro, figura di ogni discepolo. Ha bisogno di scrutare l’orizzonte nel quale Gesù lo sta conducendo con la sua parola, deve, come Mosè, togliersi i sandali per acquisire consapevolezza della terra sulla quale sta camminando, del luogo santo dove Dio si sta rivelando. Gesù suscita le domande dei discepoli, la sua parola li smuove nel cuore, il suo comportamento determina nei discepoli una profonda messa in discussione. Quando lo si vede pregare, non si può non domandargli il segreto del suo colloquio intimo con il Padre (cf. Lc 11,1) e durante il suo predicare, quando insegna in parabole sentono di dover chiedere spiegazioni (cf. Mt 13,10.36) perché quella parola non venga accolta come tra i rovi e le spine, neppure sulla strada, ma sul terreno buono dove possa far frutto con la perseveranza che ciascuno le dona.

Anche noi non dobbiamo aver paura di chiedere e di attendere una risposta, come non dobbiamo aver timore di vincerci, nella smania di conservare una immagine perfetta di noi stessi dinanzi agli altri. Non è un peccato non sapere delle cose, lo è, invece, non palesarlo per uscire dal buio dell’ignoranza e lasciarsi guidare dalla parola dell’altro. Chiedere è segno di umiltà e di fiducia verso l’altro, il non farlo di arroganza e di orgoglio e superbia. Non è detto però che ci siano sempre risposte da ricevere o parole illuminanti da donare. Ciò che conta è ricercare la verità ed il bene senza mai darsi per vinti, mendicare quelle parole che riscaldano il cuore e donano pace alla mente. Anche nel rapporto con i figli è importante donare sempre risposte, ma è ancor più utili mostrare che si è maturi e veri non quando ci mostriamo capaci di parlare e di rispondere ad ogni domanda, ma quando insegniamo la strada della ricerca che non si ferma dinanzi alle mezze verità o alle parole che non calmano i moti del cuore. Nelle relazioni di coppia ed in famiglia, in una comunità religiosa o parrocchiale non bisogna aver paura di mostrarsi per quello che si è, con i talenti che il Signore ha elargito, ma anche con i buchi neri che il cielo della nostra vita ha come possibilità di far splendere la luce di Dio e degli altri in noi. Siamo chiamati a donarci come siamo e insieme e ricercare la gioia, a conseguire la vittoria sul nostro egoismo, a vincere il nostro orgoglio per trovare la via della pace. Solo Gesù può rispondere ad ogni nostra domanda, per questo è di fondamentale importanza riferirsi sempre a Lui. Tra noi dobbiamo vincere il senso di superiorità e la tentazione alla saccenteria per imparare a ricercare le risposte vere fianco a fianco con l’altro/a, con il figlio che Dio ci ha donato, il fratello e la sorella con cui condivido il cammino. Solo vincendosi si impara a crescere. Bisogna, quindi, ingaggiare la nostra battaglia contro il nostro orgoglio, combattere la superbia che ci divora dentro perché, facendo morire in noi l’uomo vecchio, posiamo rivestirci del Signore Gesù Cristo.

Siamo noi il centro?

La domanda di Pietro mette in luce la sua mentalità non completamente plasmata da Gesù e dal suo vivere tra i suoi. “Signore, se il mio fratello commette una colpa contro di me, quante volte dovrò perdonarlo?” (v. 21) cos’altro significa se non “Io come mi devo comportare verso chi sbaglia? Fino a quanto contare dinanzi a colui che mi fa un torto? A che punto deve giungere la mia misericordia e la mia comprensione? C’è una misura per il perdono?”.

In primo luogo notiamo che la domanda è infondata – mettere un limite all’amore non è possibile, perché significa che l’amore non è amore, la misericordia non è tale – ma postula una superiorità rispetto agli altri. Pietro, infatti, si pone su un livello diverso rispetto al fratello. Domandando “quante volte io devo perdonare” lascia intendere che egli è colui che offre il perdono, senza averne bisogno. In un certo senso, a sbagliare è sempre l’altro, io sono al centro perché ricevo l’offesa che ingiustamente mi viene perpetuata e sono poi l’unico in grado di giudicare il bene ed il male. Sembra di ritornare indietro, invece di andare avanti. L’apostolo sta cadendo nella stessa trappola nella quale è incappato a Cesarea di Filippo, decidere ciò che Cristo doveva o non doveva fare. Essere superiore all’altro e sentirci in dovere di giudicarlo, considerandolo come il colpevole in ogni situazione, arrogandoci la giustizia come nostra prerogativa fondamentale è una tentazione ricorrente nella nostra vita. Il centro della domanda di Pietro è la sua vita. Siamo di nuovo alla prevaricazione e alla presunzione. L’apostolo ha nuovamente allungato la mano per rubare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, seguendo Eva e Adamo in quella loro ribellione ostinata, rifiutandosi di seguire con il cuore Cristo che è la vita vera, la verità unica, la via al Padre.
Quante volte anche noi ci crediamo nella condizione di dire e di disfare nella vita degli altri! Ci arroghiamo il diritto di essere giudici delle altrui azioni e non capiamo che ciò che accusiamo negli altri è ciò che anche noi facciamo senza accorgercene. Come Pietro ci sentiamo al centro, noi sappiamo quanto l’altro sbaglia, noi vediamo ciò che egli compie, noi conosciamo le sue intenzioni più recondite, noi soli possiamo offrire la via di uscita, la risoluzione opportuna ad ogni problema. Solo e sempre noi – meglio sarebbe dire il nostro io – siamo in grado di essere al di sopra degli altri e di vedere le situazioni e le persone dall’alto del trono della nostra presunzione. È così difficile scendere dal piedistallo e renderci conto che anche noi abbiamo bisogno di perdono? È così improbabile che a sbagliare non sia l’altro/a ma noi che ci ostiniamo a considerare le cose dal nostro punto di vista, intestardendoci a non voler vedere o sentire ciò che la persona che ci è accanto desidera e mi offre?

Pietro chiama Gesù “Signore” come già a Cesarea di Filippo – “Signore, questo non ti accadrà mai” Mt 16,22 – ma la professione di fede non è accompagnata dalla volontà di averlo veramente come re unico nel proprio cuore, centro dei suoi pensieri, energia pulsante del suo agire, luce per vedere la realtà con gli occhi di Dio. “Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli” – aveva già ammonito il Maestro sul monte delle beatitudini (Mt 7,21) – “ma colui che fa la volontà del Padre mio”. Alla scuola del Nazareno Pietro deve ancora comprendere che c’è ancora tanta strada da fare, deve capire che prima di guardare la pagliuzza nell’occhio dell’altro, dobbiamo notare la trave che c’è nel nostro (cf. Mt 7,3 ss), senza accusare l’altro/a, né scoraggiarsi del cammino di rinnegamento e di purificazione che ci attende.
Quando avremo il coraggio di guardare in faccia la verità? La causa di ogni peccato è e resta il nostro io che possiamo definire nei modi più diversi – egoistico, orgoglioso, superbo – lì c’è la radice di ogni peccato, il centro del nostro estromettere Dio e gli altri dalla nostra vita. Finché non lasceremo al Signore la possibilità di guidarci per mano a morire a noi stessi, a rinnegarci sul serio, non potremo dire di essere dei discepoli che seguono Gesù lungo la strada della croce. Dobbiamo una buona volta guardarci nello specchio che è Cristo con coraggio, senza la paura di non accoglierci, senza lo scandalo di non piacerci. Il cammino dietro a Gesù è scandito dalla verità di Dio e di noi stessi, dinanzi a Lui ci riconosciamo bisognosi del suo amore e lasciamo che la sua misericordia ci ricrei come creature nuove.

La parola di Gesù illumina e apre orizzonti nuovi

La risposta di Gesù non si fa attendere. Diversamente dal rimprovero attuato in precedenza, Gesù non imbocca la strada della correzione – è quella che prendiamo noi quando la domanda dell’altro/a ci infastidisce e siamo pronti a usare la penna rossa già nel quesito a noi posto. Poveri noi! – il Maestro prende la parola e conduce Pietro e quanti lo stanno ascoltando a passare da un amore misurato a un amore senza misura, dal sette volte al settanta volte sette. L’amore – sembra dire Gesù – non si può pesare con il bilancino dell’orefice, né si misura con il metro dell’artigiano, neppure contare come farebbe un matematico, magari vedendone il peso specifico. Il perdono ha come orizzonte l’immensità del cielo, la sua lunghezza è incalcolabile perché non si può stabilire la sua corsa, perché ci sono sempre strade nuove da battere, il perdono ha come unico metro la croce di Cristo, come peso specifico la pienezza del suo cuore capace di lasciarsi trapassare dal colpo di lancia perché da quella sorgente fiumi di acqua viva possano irrigare i deserti dei cuori nostri. “Non ti dico sette volte” dice Gesù rivolto a Pietro. Sembra che all’io di Pietro, così preponderante nella sua domanda, onnipresente nel suo dire, arrogante nel suo giudicare, superbo nella pretesa di offrire perdono, si sostituisca l’io di Gesù. Egli stesso lo vuole, lo propone, lo impone con il suo amore, lo chiede con la sua tenerezza, lo presenta con la sua autorevolezza. A Gesù spetta il dire e il non dire. È Lui il Maestro – quante volte lo dimentichiamo! – a Lui spetta sedere con Signore nel nostro cuore, rompere il silenzio con la sua parola onnipotente e richiedere la nostra incondizionata obbedienza perché la sua parola è spirito e vita, è Lui che rivela il Padre, Lui che ha parole di vita eterna, Lui e Lui solo la porta che ci introduce nel mistero di Dio e dell’uomo. Perché tante volte zittiamo Gesù nella nostra vita? Impedendogli di parlarci, siamo noi che perdiamo l’occasione di crescere nell’esperienza del suo amore e nella conoscenza della vera gioia. Quando lo impareremo?

Pietro ha chiuso il perdono in un settenario da raggiungere, Gesù lo apre ad un infinito nel quale liberarsi. Noi siamo abituati a chiudere, Dio, invece, ad aprire. Convinti che gli steccati ci portino sicurezza, che i limiti imposti ci donino certezze, che il mettere leggi ci assicuri la gioia e la pace, non capiamo che siamo fuori strada. La legge, pur se necessaria nella vita, in amore non può esistere perché l’amore, per identità propria, è assenza di coercizione esterne, libertà vera e piena, capacità di raggiungere l’oggetto del proprio trasporto non per possederlo egoisticamente ma per arricchirlo con il dono di sé. L’amore è legge a se stesso, quando accoglie la potenza dello Spirito che lo purifica e lo rende partecipe della potenza vivificante che è nel cuore di Gesù. Settanta volte sette vuol dire che il perdono non va contato, l’amore non va misurato, l’affetto non va pesato. L’amore è capacità di donare all’altro ciò di cui ha bisogno e quando l’altro si trova nell’errore, quando si è lasciato illudere da falsi miraggi, la correzione da sola non riabilita il reo che ha bisogno di avere la forza di riprendere il cammino in maniera spedita. Il perdono è questa forza di riabilitazione e di guarigione, balsamo che risana e che corrobora. Il perdono è la veste che l’amore indossa per raggiungere l’altro, la trasformazione che attua perché l’amato meglio lo riconosca e lo accolga. Il perdono è un’esigenza che l’amore vive, un desiderio insopprimibile perché può dire di amare colui che resta pago, quando la persona che si dice di amare è in pena? Può dirsi bruciato dall’amore chi non conosce la cura dell’altro a prezzo della propria dimenticanza? Può lo sposo dirsi animato dall’amore se non è in grado di vegliare carezzando la sua sposa, mentre vive ogni tipo di dolore, nel corpo e nel cuore, per il semplice piacere di sapere che la persona amata non è sola nell’affrontare una difficoltà?

L’amore che si spoglia diventa perdono perché l’amato si rivesta di quell’amore che gli restituisce la dignità perduta e non gli fa vivere il rossore per la colpa commessa, la vergogna per il peccato causato. Chi ama veramente non conta fino a sette e neppure fino a dieci – come spesso diciamo noi, giustificandoci, prima di perdere la pazienza – chi ama non conta, non misura, non pesa, non calcola, ma ama e basta. Chi ama non sa non amare e non può sopprimere in sé la forza dell’amore, senza morire. Non amare, per chi ama veramente, significa morire, ma non di quella morte che arricchisce l’altro della vita donata in gratuità, ma della morte di chi, diversamente dal seme, si lascia portare dall’egoismo e vuol salvare la propria vita, senza capire che la sta perdendo. L’amore diventa maturo nel perdono, diviene grande nel lenire gli errori dell’altro, non coprendosi gli occhi per non vederlo, ma impedendo al male causato dall’orgoglio dell’altro/a di dilagare nella propria vita. L’amore diventa perdono quando desidera porre dei limiti al male dell’altro/a, impedendogli che dilaghi come acque maleodoranti che infestando portano la morte. Il male non si respinge con altro male, non si vince con la violenza, non si sconfigge con la durezza, non si fa morire con l’affermazione della propria superbia. Il male si vince con il perdono, lo neutralizza con l’amore, lo si annega nel dono, lo si sconfigge con la gratuità del dono di sé.

Mettere in circolo l’amore

Gesù non si contenta di aver indicato a Pietro l’orizzonte del perdono da accordare al fratello. Il suo discepolo deve entrare nel mistero della gratuità dell’amore che è proprio solo di Dio. Per questo l’Evangelista fa seguire all’insegnamento una parabola che mette bene in luce come tutti abbiamo bisogno del perdono – contrariamente a quanto Pietro aveva domandato – e mostrare quanto sia importante sperimentare la gratuità del dono di Dio per poi esserne dispensatori nei riguardi dei fratelli. Sembra che l’Evangelista voglia dire ai suoi che non basti sapere una verità di fede per poi viverla perché solo chi incontra l’amore smisurato di Dio e ne diventa consapevole, può testimoniarne la bellezza e la capacità propria del perdono nel ricostruire relazioni sempre nuove.

La chiave per comprendere la parabola citata da Gesù è l’ultimo versetto: “Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno il proprio fratello” (v. 35). Perdonare di cuore significa porre un gesto che coinvolga tutta la persona, sentimenti, desideri e volontà. Non si tratta di un condono giuridico da accordare a chi sbaglia, quasi fingendo che non sia accaduto nulla. Perdonare significa lasciare che dalla cisterna della propria interiorità sgorghi cristallina quell’acqua divina che il Signore vi riversa con totale e gratuita abbondanza. La parola di Gesù sposta quindi l’attenzione dei discepoli, come anche del lettore, dal perdona da accordare sempre al perdono da accordare con il cuore. L’amore che Dio nutre per noi diviene perdono, quando incontra la nostra miseria, ma la potenza sua che si sperimenta nel perdono ricevuto diviene forza di trasformazione che gratuitamente si dona all’altro nel suo errore solo quando si diviene consapevoli che il condono delle colpe che il Signore ci ha accordato è un atto di pura e totale gratuità. Si passa quindi dalla gratuità dell’amore sperimentato alla totalità del perdono accordato attraverso un cammino di consapevolezza che va di pari passi con la capacità di gustare la vita di Cristo in noi.
Il re della parabola rappresenta Dio che è sempre capace, mosso dalla sua compassione, di condonare tutti i nostri debiti, ma noi perché non sappiamo far frutto della misericordia che il Padre nutre per noi? Chiamati a mettere in circolo questa potenza smisurata di compassione che Dio riversa in noi, perché la tratteniamo per noi soli? Non possiamo chiedere un perdono che non siamo disposti a concedere. I fratelli, a ben pensarci, ci devono una cifra irrisoria – smisurato nella parabola è il rapporto tra i diecimila talenti e i cento denari – perché allora non essere capaci di perdonare come il Padre fa con noi? Solo chi ha sperimentato ed accolto il suo essere peccatore perdonato può non aver paura di offrire perdono. Solo chi ha sempre dinanzi ai propri occhi la misericordia del Padre che lo ha rinnovato può offrire agli altri possibilità di vita sempre nuova perché nell’altro si rivede, nelle sue colpe si rispecchia, nelle cadute della persona che gli sta accanto ripensa a quando è stato risollevato e sanato dall’amore di Dio.
Mettiamo in circolo tra noi l’amore che non ha paura di farsi perdono e la nostra vita sarà un fiorire di eterna primavera.




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2 risposte su “L’amore diventa maturo nel perdono, impedendo al male di dilagare nella propria vita”

…tutto dipende dall’educazione al perdono fin da piccoli e con l’esempio dei grandi. Ho fatto l’esperienza, durante 16 anni in Brasile, con bambini dell’asilo. Ed è possibile anche se difficile perchè c’è bisogno dell’esempio dei genitori…

Perdonare è un processo spesso lungo. Comincia con la decisione e la scelta di perdonare, quando ancora la ferita brucia e tutto dentro di te, meno la volontà, è incapace di perdonare. Continua con piccole – a volte- scelte quotidiane concrete, di rinuncia alla vendetta,con un esercizio paziente di contenimento della rabbia.Non sempre si riesce, la rabbia è spesso incontenibile. A ogni caduta si ricomincia. La forza si può solo chiedere a Dio per l’intercessione di Maria perchè da soli non è possibile.

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