XXV Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - 24 settembre 2017

Si può amare stando fermi?

di fra Vincenzo Ippolito

Come si può dire di amare l’altro se non lo si raggiunge? Come guardarlo negli occhi e confessargli di essere disposti a donare anche la propria vita per amor suo, se non si abbandonano le proprie sicurezze, se non si lasciano le trincee dove si combatte credendo di essere sempre circondati da nemici?

Dal Vangelo secondo Matteo 20,1-6
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.
Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

 

Siamo alle porte di Gerusalemme e Gesù, prima del terzo annuncio della passione (cf. Mt 20,17-19), presenta una parabola incentrata sulla bontà di Dio nei riguardi di tutti gli uomini. Pur se prossimi al compimento della missione del Signore, i discepoli ancora non comprendono il senso del suo dire e si nota un abisso incolmabile tra il desiderio di potere di Giacomo e Giovanni, assecondati dalla loro madre (cf. Mt 19,20-28) e i ciechi di Gerico (cf. Mt 19,29-34), figura del discepolo che illuminato dalla fede in Gesù, potrà contemplare il mistero della croce, senza vivere lo scandalo e la dispersione. Anche noi abbiamo bisogno di tenere fisso lo sguardo sulla bontà di Dio, per capire ancor meglio che Egli solo è buono (cf. Mt 19,17) e capace di tutti accogliere nel suo abbraccio di Padre, dove l’amore è pura gratuità e mai giusta retribuzione per le nostre azioni.

Un cambio di mentalità

La pagina evangelica odierna ci dona una nuova parabola – la scorsa domenica ne abbiamo letto un’altra sul perdono (cf. Mt 18,23-35) – uno spaccato di vita quotidiana, con il quale il Maestro vuol mostrare l’amore di Dio Padre e il dono gratuito che Egli fa della sua amicizia. Come introduzione al brano, l’Evangelista pone una similitudine – “Il regno dei cieli è simile” (v. 1) – cui segue la parabola degli operai chiamati a giornata (vv. 2-15) e la conclusione (v. 16) che rappresenta poi la sintesi dell’insegnamento trasmessoci da Gesù, la parola che il lettore deve portare con sé, quale seme di speranza e di gioia, impegno di vita nel seguire il Maestro fino alla Pasqua.

Il regno dei cieli è simile” scrive Matteo, in principio della pericope odierna. Come già in altre pagine evangeliche (cf. Mt 13,24.31.44.47; 18,23) egli intende focalizzare l’attenzione del discepolo/lettore sul regno dei cieli. Categoria centrale nel Vangelo, essa sintetizza tutto l’annuncio di Gesù ed indica l’orizzonte nel quale si sviluppa il cammino di sequela. È Cristo il regno di Dio, chi entra nel mistero della sua vita, accogliendo la sua parola e le esigenze della chiamata, fa esperienza della prossimità dell’amore divino e riceve in dono le beatitudini come strada esigente e necessaria per vivere e testimoniare la salvezza. La categoria “Regno di Dio” è una costante nella predicazione di Gesù fin dal suo inizio (cf. Mt 4,17), perché è proprio dall’annuncio della vicinanza di Dio, della sua definitiva e massima presenza nella storia degli uomini grazie a Gesù Cristo che inizia la vita cristiana, si attua la conversione come esigenza improrogabile, ci si mette dietro a Gesù, sapendo che solo la sua parola dona in abbondanza la vita. Potrebbe sembrare superfluo ribadire che siamo parte del Regno di Dio, che viviamo in Lui, che abbiamo scelto di essere partecipi della Pasqua di Cristo Signore. Invece per l’Evangelista rappresenta una sottolineatura sempre necessaria annunciare e testimoniare la presenza e l’azione, silenziosa e nascosta, non per questo meno reale ed incisiva, di Cristo nella storia degli uomini. Da questo scaturisce la gioia cristiana, la grazia della predicazione, la potenza del nostro abbandono in Dio nella preghiera, il coraggio e la determinazione nel lavorare perché ogni uomo creda in Gesù Cristo e si lascia trasformare dalla grazia dello Spirito effuso dal Risorto senza misura. Tutto, infatti, inizia dalla certezza che Lui è con noi, che vive in noi, che ci accompagna con la sua grazia, che abita la nostra debolezza e ci dona possibilità sempre nuove per camminare nella volontà del Padre. Non è forse questa la rassicurazione che il Signore rivolge agli apostoli prima di ascendere al cielo? “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).

Mentre il primo versetto della pericope odierna è la cornice superiore del brano, l’espressione finale – “Così gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi” (v. 16) – rappresenta la cornice inferiore che fa apparire in tutta la sua bellezza la centralità della tela, rappresentata dalla parabola degli operari presi a giornata. In tal modo ogni pagina evangelica rappresenta un quadro che il lettore/osservatore è chiamato a contemplare, stupido, rispecchiandosi in esso e vedendo plasticamente presentato il comportamento virtuoso da perseguire e gli atteggiamenti e sentimenti interiori malvagi da combattere ed estirpare. La frase finale “Così gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi” (v. 16) rappresenta poi la chiave di lettura che lo stesso Evangelista pone sulle labbra di Gesù. Egli mostra che la bontà del Padre trasforma radicalmente la storia degli uomini e, come era avvenuto iniziando con le Beatitudini (cf. Mt 5,1-12), rivela il progetto che Padre persegue con categorie diametralmente opposte rispetto a quelle dell’uomo. Si tratta del conflitto riscontrato già in Pietro, tra il pensare secondo gli uomini e non secondo Dio (cf. Mt 16,23). Da questa lotta nasce l’uomo nuovo ed il discepolato rappresenta quindi il tempo nel quale ci si riveste di Cristo, del suo pensare e del suo agire, per divenire come Lui la compiacenza del Padre. Il discepolo che ascolta la parola di Gesù è invitato ad entrare nel suo Regno, la cui mentalità è scandalosa rispetto al pensare comune degli uomini, non perché chi segue Cristo debba rinunciare alla sua ragione e sposare la strada dell’irrazionalità, ma perché la ragionevolezza di Dio supera le capacità della mente umana e solo l’amore che lo Spirito riversa in noi può elevarci alla comprensione del suo mistero. È un cambiamento rivelato quello che il Maestro propone e promette oggi nel Vangelo. Gli ultimi divengono primi e i primi ultimi. Non si tratta di un principio nuovo. Già Maria cantava nel suo Magnificat come Dio “ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili” (Lc 1,52) e anche Paolo, scrivendo ai Corinzi, presenterà il mistero della croce come lo spartiacque tra la sapienza divina, considerata stoltezza dagli uomini, e la sapienza umana, giudicata da Dio incapace di comprendere il suo rivelarsi (cf. 1Cor 1,18-31).

Gesù chiede di imparare a ragionare con il cuore del Padre e di considerare l’amore l’unica forza di trasformazione della nostra storia. Non si è grandi per il nostro desiderio ed impegno di elevarci, con ogni mezzo, sugli altri, né per la sufficienza che dimostriamo nei riguardi di chi, anche senza volerlo, oscura l’immagine che abbiamo di noi stessi. Grandezza e piccolezza – Gesù lo esprimerà ancor meglio dopo la richiesta di Giacomo e Giovanni, chiarendo il suo insegnamento a tutti i discepoli (cf. Mt 20, 24-28) – non dipendono dall’uomo, non sono il frutto del suo ergersi o del considerarsi migliori, neppure dipendono da quello che fa, quasi che la salvezza si possa meritare con le opere, quasi fosse una gara ad ostacoli da superare per conseguire il premio.

Il Maestro come dirà “chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo” (Mt 20,26-27), così ora mostra che l’ordine – primi/ultimi – è invertito perché il punto di riferimento è divenuto nuovo, con l’Incarnazione del Figlio di Dio. I valori primi/ultimi, grandezza/piccolezza vanno ricompresi partendo da Cristo perché “come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mt 20,28), così ogni discepolo è chiamato a fare propria la via di Gesù e prendere su di sè il suo giogo soave. È Gesù, infatti, Lui, il Figlio di Dio fatto uomo, a determinare un cambiamento profondo nella vita degli uomini. Tutto inizia e deve iniziare da Lui. È Lui ad imporre alla storia un corso nuovo. Siamo noi capaci di cedere a Dio il centro del nostro cuore e convertirci ad una mentalità diversa? Gesù, con la parabola, mostra il passaggio da operare per non considerare Dio come il nostro antagonista, un nemico da combattere, ma il Padre da amare, ricambiando l’infinita tenerezza che Egli ci usa donandoci tutto nel suo Figlio Gesù. È un criterio importante per noi il rovesciamento che Gesù propone nel Vangelo. L’amore, la bontà del Padre ribalta le situazioni della storia, sconvolge i piani che gli uomini, sulla base delle loro acquisizioni, considerano infallibili e che pretendono di imporre anche a Dio. L’amore del Signore, la sua bontà, la volontà di salvare gli uomini è più grande di ogni gretta mentalità umana. La realizzazione del piano di Dio divina rompe gli angusti steccati che gli uomini si impongono e apre la strada della salvezza ad ogni uomo.

In una continua uscita da sè

Il centro della tela, su cui si ferma la nostra attenzione, è la parabola degli operari chiamati a giornata, quattordici versetti nei quali il rapporto Dio/uomini è spiegato attraverso il ricorso ad immagini desunte dalla vita quotidiana della Palestina ai tempi di Gesù. Il primo dato che emerge dalla narrazione evangelica è la figura del padrone di casa. Il suo è l’atteggiamento proprio di Dio che, mai pago di chiamare a lavorare nella sua vigna solo alcuni, esce in ogni ora del giorno. L’Evangelista, in questo modo, ben esprime il desiderio divino di comunicare ad ogni uomo la salvezza, partecipando loro la gioia di mettere la propria vita a disposizione della causa del Vangelo, perché si estenda il suo Regno. Egli, infatti, “vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità” (2Tim 2,5). È l’amore la ragione di questo suo continuo uscire da se stesso per raggiungere l’uomo e comunicargli la gioia della sua amicizia. Dio esce dalla sua casa, dal mistero della sua vita divina, continuamente, perché ama. Solo chi ama esce continuamente dalle proprie sicurezze e si fa prossimo all’altro. Solo chi ama non aspetta il primo passo, non si dà pace e si mette in movimento, spinto dalla forza incontenibile dell’affetto che dentro lo consuma come un fuoco divoratore. Solo chi ama e non ha paura di amare, parte come Abramo, ricco di una promessa, ritorna con coraggio in Egitto, come Mosè, si mette in viaggio come Maria verso la casa di Elisabetta. Chi ama vive la dinamica dell’Incarnazione del Figlio di Dio, da ricco si fa povero per arricchire, da Dio si fa uomo per donare la salvezza, da Creatore diventa creatura per riconquistare la pecorella smarrita, che vaga lontano dalla sicurezza e dalla gioia della comunione con il buon Pastore. È questo il santo viaggio che intraprende chi ha veramente a cuore il bene dell’altro/a. Non esiste un sinonimo del verbo amare migliore del verbo uscire. Come si può dire di amare l’altro/a se non lo si raggiunge? Come guardarlo negli occhi e confessargli di essere disposti a donare anche la propria vita per amor suo, se non si abbandonano le proprie sicurezze, se non si lasciano le trincee dove si combatte credendo di essere sempre circondati da nemici? Si può amare stando fermi? Si può amare l’altro/a senza riconquistarlo/la alla causa del bene in ogni occasione, opportuna e non opportuna (cf. 2Tm 4,2)? Chi ama veste i panni del buon samaritano che, scendendo da Gerusalemme a Gerico, esce da se stesso, accogliendo il malcapitato incappato nei briganti. In lui è l’amore di compassione, le viscere di misericordia che lo spingono a non continuare il cammino, ma a farsi prossimo, ad uscire dai progetti della sua vita, dalle occupazioni della sua giornata, perché l’altro ritrovi la gioia e sperimenti la guarigione e la salute che solo la cura amorosa può donare. Così anche Dio, esce da se stesso e raggiunge l’uomo, non una volta né due, ma sempre, con la misura infinita di quel settanta volte sette, richiesta a Pietro (cf. Mt 18,21) e sempre vissuta da Cristo con sollecita cura e tenero trasporto.

Ogni ora del giorno è buona perché il padrone esca a chiamare lavoratori per la sua vigna. Ogni momento è buono perché Dio vada incontro alla sua creatura, con quel gesto che già vediamo nel paradiso di Eden, quando il Signore ricerca Adamo ed Eva per vivere la gioia della comunione amicale. Dio non ha paura di uscire da sé, dal suo mistero di vita senza fine, dall’amore che le tre divine Persone si scambiano, da quella dolcissima dimora che consiste nel reciproco dono di sé. Dio sceglie di uscire da sé, lo vuole con tutto se stesso, non se lo impone, ma è il frutto del suo amarci, il segno del suo compatirci. Come siamo diversi da Dio, pur se creati a sua immagine e somiglianza! Egli è pronto a lasciarsi, a lanciarsi nella storia, dimentico di sé, noi a tenere tutto tra le mani, nel gesto di chi possiede e non vuol perdere nulla. Egli, invece, è il padrone che scende in piazza, alla ricerca di chi è sfaccendato, non per giudicarlo e darlo in pasto alla comune derisione, ma per chiamarlo a lavorare nella sua vigna.
Fidarsi di gente che passa la giornata con le mani in mano è proprio del nostro Dio, pazzo d’amore per la sua creatura, arso di compassione per l’uomo. Chi di noi avrebbe dato credito a uomini che passeggiano per strada? Avremmo affidato la nostra vigna a gente raccogliticcia, a persone sprovveduta di credenziali, prive di una buona reputazione come lavoratori assennati e coscienziosi? Dio non la pensa come noi, i suoi sono criteri diversi dai nostri ed il segno di questa divina benevolenza, di questo incalcolabile volere di raccogliere tutti è la nostra stessa vita, la nostra vocazione, il nostro stare con Lui, l’essere Chiesa, Corpo suo, per la grazia che Egli ci ha dato. Nessuno di noi aveva diritto di stare alla presenza del Signore, eppure Lui ci ha chiamati, Egli ci ha eletti “ad essere conformi all’immagine del Figlio suo” (Rm 8,29), non certo per nostro merito, ma per la sua sola misericordia. Paolo, cosciente della gratuità della chiamata di Dio, scriverà, “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8) .

Uscire ed uscire in ogni ora della giornata sono le note dominanti della figura del padrone di casa, i due passaggi conseguenziali che rendono vero ogni amore. Avere a cuore la vita dell’altro comporta l’uscire da se stessi senza calcoli, non aspettandosi il contraccambio, ma vedendosi sempre lenti sulla strada dell’amore. Non possiamo dire di aver fatto il nostro dovere se ci mettiamo in discussione solo in alcuni casi, sempre pronti a recriminarli e a ricordarli, in un ritornello cantilenato come se potessimo avere la palma della vittoria per qualche primo passo fatto. Chi ama veramente non si stanca di vivere la dinamica della perseveranza. Amare è un verbo da coniugare in ogni tempo presente e futuro. L’amore non si coniuga nel tempo passato se non per lodare il Signore di quanto ci ha donato, mai per rimpiangere tempi sprecati o rinvangare rancori non perdonati, neppure per rinfacciare situazioni non superate con la forza dell’amore. Chi ama guarda avanti e crede di dover vivere la bellezza della giornata come possibilità offerta per rivivere l’avventura sempre nuova della ricerca dell’altro, come la sposa del Cantico dei Cantici che fa il giro della città, nel desiderio di abbracciare l’amato. Uscire è fare il primo passo, non pretenderlo, ma attuarlo nel silenzio di chi si consegna, nella ferialità di chi si offre, senza suonare la tromba, nella gioia di sapere che l’altro/a è l’unico/a che può lavorare nella vigna del proprio cuore. Chi ama sa di aver estremo bisogno dell’amato/a e non ha paura di chiedere la sua presenza, la sua cura, il suo delicato e tenero dono. Il padrone della parabola vive il bisogno dei lavoratori, ma questi non sanno che ancor di più essi hanno bisogno di essere chiamati a giornata da lui e di lavorare nella sua vigna. Questo fa l’amore, non mostra le carenze dell’altro perché non le viva con vergogna, ma con delicatezza cerca di superale e di far percepire come un merito ciò che è puro dono di grazia. L’amore non umilia, ma vive l’umiltà e restituisce quella dignità che non sempre si crede di avere dinanzi a se stessi e dinanzi agli altri.

Una paga non misurata al lavoro

Il padrone chiama tutti a lavorare nella sua vigna. In ogni ora del giorno – alle sei, alle nove, a mezzogiorno, alle tre del pomeriggio e alle cinque – egli vede il dramma degli uomini disoccupati e sfaccendati nella piazza e se ne prende cura. Nella sua vigna c’è posto perché tutti offrano il proprio contributo e lavorino alacremente, dimostrando riconoscenza per la chiamata del padrone. Il Signore non vuole che i talenti vengano sprecati. Pur sapendo che la ricompensa che riceveranno non è proporzionata alla prestazione lavorativa offerta nella sua vigna – questo vale anche per gli operari della prima ora, perché la ricompensa è l’amore di Dio, l’entrare nella gioia del padrone e questo non si può comprare con il proprio lavoro, né meritare per la prestazione offerta – il padrone non per questo non li chiama. Noi siamo chiamati ad offrire il nostro contributi, a collaborare all’estensione del Regno di Cristo nel mondo, ma ciò che riceveremo non è proporzionato alla nostra capacità di lavorare, perché nessuno può dire di meritare l’amore di Dio, di poter entrare nel Regno a testa alta. Matteo sta chiedendo ai suoi di fare un salto di qualità, operando quella conversione di mentalità che ci rende veri discepoli del Cristo. Bisogna, infatti, passare dalla meritocrazia alla gratuità, dal comprare al ricevere senza merito, dal credere di aver diritto a tutto a riconoscere tutto come puro dono immeritato. Per entrare nel Regno dei cieli bisogna passare per la porta stretta, ma non la attraversa chi crede di poter accampare dei meriti davanti a Dio. L’Evangelista, infatti, attraverso la parabola, vuole che ci liberiamo dal senso di autosufficienza che ci portiamo dentro e riconosciamo la salvezza non come frutto dei nostri meriti, ma della bontà che Dio riserva per tutti.

Siamo chiamati non solo ad accogliere il dono della sua chiamata, consapevoli della gratuità del suo amore, ma anche a collaborare perché la risposta alla sua chiamati comporta il vivere la bellezza dell’elezione e spendersi nella sua vigna perché diventi ancora più abbondante di frutti. Non che il raccolto dipenda da noi, ma possiamo offrire le nostre energie per il Regno ed in tal modo sperimentare la gioia di vivere in Lui. Se la chiamata fosse fine a se stessa, non diventeremmo adulti, ci sentiremmo superiori agli altri e vivremmo in una sorta di limbo. La chiamata comporta l’avventura del lavoro, la gioia dello spendersi in risposta all’elezione. Una chiamata che non trova risposta nel lavoro assiduo e perseverante non riempie il cuore, né dona gioia. Il Signore vuole renderci delle persone mature. La gratuità del suo amore è un puro dono di grazia per l’uomo, ma egualmente chiede la nostra collaborazione perché non vuole che diveniamo dei fannulloni e degli sfaccendati e, chiamandoci a lavorare nella sua vigna, desidera che partecipiamo al suo disegno di salvezza. Un genitore non solo dona al figlio ciò che gli è necessario, ma gli chiede un segno del suo impegno e della sua volontà di collaborazione che mostri il vivere nella gioia dell’essere parte della famiglia, cosciente dell’amore che riceve e che intende donare. Un figlio che tutto riceve e che non fa nulla per cercare di ricambiare, non entra nella dinamica dell’amore, vive nella pretesa che tutto gli è dovuto e continuerà a rimanere bambino, non imboccherà la strada della maturità che consiste nel voler fare la propria parte, senza demandarla a nessuno. Fare la propria parte significa divenire consapevoli che non si può vivere sulle spalle degli altri, che l’amore non sta solo nel ricevere, ma nel dono di ciò che si possiede e si è.

Siamo chiamati per lavorare nella vigna, ma evitando la tentazione di credere che il padrone ci ami per quello che facciamo, non per quello che siamo. A sera, quando giunge il tempo della ricompensa, il padrone mostra la gratuità del suo amore, dando a tutti un denaro. A lui, infatti, non interessa il lavoro prestato, ma la disponibilità a rispondere alla sua chiamata. Dinanzi alla generosità del padrone, i lavoratori della prima ora iniziano a mormorare (vv. 11-12). È il tipico atteggiamento dei benpensanti, di coloro che credono di poter giudicare l’operato di Dio, degli scribi e farisei che credono la salvezza frutto delle proprie opere, del lavoro prestato, della capacità dimostrata. Il loro atteggiamento è simile a quello del figlio maggiore della parabola del padre misericordioso (cf. Lc 15,11-32), vive nella casa, ma da servo, non da figlio, non è consapevole dell’amore che il padre gli ha dato, della grazia di cui può godere in pienezza – “tutto quello che è mio è tuo” Lc 15,31 – vive una relazione filiale con le caratteristiche di un lavoratore e per questo non comprenderà mai ciò che significa gioire con il padre per il ritorno di colui che non riesce neppure a considerare fratello. I lavoratori della prima ora accusano il padrone di non essere giusto, di meritare di più, di aver sostenuto il caldo della giornata, la fatica del duro lavoro. Potrebbe sembrare che il padrone non sia giusto, invece è il contrario. Non hanno forse pattuito un denaro per il lavoro nella vigna? Ed il padrone non è libero di fare ciò che vuole delle sue cose? Non c’è cosa più brutta del mormorare di Dio, dell’invidiare la sua grazia, del credere di poter meritare il suo amore. Siamo giustificati non per quello che facciamo – siamo pur sempre servi inutili, abbiamo fatto quello che dovevamo fare (Lc 17,10) – ma perché amati da Dio. Sì, siamo giustificati perché amati da Dio, il suo amore ci rende figli, la sua grazia, sempre immeritata, ci fa stare alla sua presenza e gioire della chiamata a stare con Lui, nella sua vigna, condividendo il suo sogno di salvezza per tutti.

Dobbiamo superare due tentazioni, quella della chiamata senza lavoro – non è forse questa la pretesa di tanti figli? Vogliono tutto, ma non vogliono lasciare che l’amore li scomodi e li maturi, facendoli crescere – e la seconda, ancor peggiore, del lavorare credendo che tutto dipenda da noi. Dio vuole che nella sua famiglia si viva la gioia del lavorare per il Regno, la solidarietà della gratuità dell’amore ricevuto, vincendo il nostro sguardo, non sempre benevolo nei riguardi dei fratelli. Guardarsi con occhio di benevolenza, proprio come fa Dio è il segno di un amore non inficiato dall’egoismo e dalla volontà di primeggiare. Come i ciechi di Gerico (cf. Mt 20,29-34), dobbiamo chiedere a Gesù di avere pietà di noi e di concederci il dono di quel collirio che sana negli occhi quell’invidia che ci portiamo nel cuore, per accogliere Lui e vivere la gioia di partecipare insieme ai fratelli della bontà del suo cuore.




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