XXVIII Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - 15 ottobre 2017

Nella vita abbiamo bisogno di tante cose, ma nulla può sostituire l’amore!

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di fra Vincenzo Ippolito

Solo l’amore è essenziale nella nostra vita, ma non basta esprimerlo a parole, è necessario esercitarsi nell’essenzialità e nella cura delle nostre relazioni perché nulla e nessuno prenda il posto dell’amore delle persone che sono parte di noi e della nostra vita. Senza amore come possiamo maturare nel dono? Senza amore come possiamo vincere la paura di metterci in gioco sul serio?

Dalla Lettera ai Filippesi di san Paolo 4,12-14.19-20
Fratelli, so vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza. Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni.
Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù. Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

Ogni domenica la Chiesa riccamente imbandisce per noi la duplice mensa della Parola e dell’Eucaristia perché ciascuno possa ricevere la forza di Dio e camminare, come il profeta Elia (cf. 1Re 19,8), verso il compimento della sua missione. Il cibo che ci è offerto è superiore alla nostra capacità di interiorizzazione. Come il popolo d’Israele, dobbiamo prendere la manna che il Signore ci dona secondo la nostra possibilità di assimilazione e necessità di riflessione. Bastano poche briciole di Vangelo per essere ritemprati nelle forze e sanati nel cuore.
In questa XXVIII Domenica del Tempo Ordinario desideriamo nutrirci della Parola di Dio trasmessaci dall’apostolo Paolo. Sono alcune settimane che la liturgia ci sta donando brani scelti della Lettera ai Filippesi – dalla XXV Domenica, 24 settembre 2017 – ed oggi è l’ultima pericope che ci viene offerta. Dovremo attendere, nel ciclo festivo, tre anni prima di rileggerla nuovamente. Rispetto al Vangelo e alla Prima Lettura che sviluppano una tematica comune, la Seconda Lettura, solitamente tratta dalle Epistole di san Paolo, ci propone il vissuto delle primitive comunità che si trovano a tradurre la fede in Gesù nelle concrete situazioni della vita di ogni giorno. Anche noi siamo chiamati ad allenarci in questo delicato e imprescindibile impegno di traduzione del Vangelo perché la nostra esistenza acquisti il sapore di Cristo ed il mondo sperimenti la luce della sua presenza che scaccia ogni tenebra e fa regnare lo splendore del suo amore.

Discepoli di Paolo, nella sequela del Risorto

La Lettera ai Filippesi, secondo gran parte degli studiosi, è uno degli ultimi scritti – se non proprio l’ultimo – dell’apostolo Paolo. Tra le tredici epistole che il canone del Nuovo Testamento ci trasmette, Fil – è questa l’abbreviazione con cui viene indicata, come ogni testo della Scrittura – fa parte delle cosiddette Lettere della prigionia – insieme con Efesini, Colossesi, Filemone – perché l’Apostolo redige il testo in carcere (cf. Fil 1,7. 13. 17), con molta probabilità ad Efeso, negli anni 54-57, come studi approfonditi farebbe pensare. Senza entrare nelle questioni proprie degli esegeti – ad ogni lettura orante (lectio divina) della Parola di Dio è necessario premettere uno studio minimo del testo sul quale preghiamo, perché, pur senza intraprendere studi specialistici, è indispensabile avere una conoscenza generale dell’opera e del suo autore – Fil è una lettera indirizzata dall’apostolo Paolo alla giovane comunità cristiana presente nella colonia romana di Filippi, importante città della Macedonia. Stando alla narrazione di Luca, riportate negli Atti degli Apostoli (16,11-40), Paolo vi giunse durante il suo secondo viaggio missionario (52-54), annuncia il Vangelo incominciando dai Giudei lì residenti e vi fonda una comunità che è poi la prima in Europa. Lo stile della lettera è familiare ed accorato, anche se l’Apostolo non manca di affrontare questioni importanti di fede, sulla base delle situazioni concrete di vita dei credenti.

Dalla citazione riportata dal Lezionario domenicale (cf. Fil 4,12-14. 19-20) ci rendiamo conto che la pericope liturgica è parte dell’ultimo capitolo della Lettera – il quarto – costituita da appena cinque versetti, tagliati dal loro originale contesto prossimo e uniti nella lettura liturgica. Per una comprensione maggiore del testo, sarebbe bene rivedere l’intera Lettera – in queste ultime quattro domeniche ne abbiamo letto solo alcuni brani, com’è normale che avvenga durante la celebrazione – o per lo meno il suo ultimo capitolo, con i consigli (4,1-9), i ringraziamenti e i saluti finali (4,10-23) che ci interessano più direttamente.
Non è semplice inoltrarsi nelle epistole di san Paolo, ma l’impegno profuso verrà abbondantemente ripagato, se a guidarci sarà lo Spirito Santo che ha ispirato il testo della Scrittura e apre agli umili i misteri del Regno che le parole umane contengono e mediano. Entrando in familiarità con i testi dell’Apostolo, attraverso una continua ed amorosa frequentazione che un clima di preghiera crea, si noterà che non sarà poi tanto ostico accostarsi agli Scritti dell’Apostolo delle Genti, accogliendolo come guida nella sequela di Gesù.

Nelle battute finali di una lettera scandita dalla gioia

Il contesto del nostro brano è costituito dal ringraziamento e dalla gioia. In realtà è questa la nota caratterizzante l’intero scritto, definito da alcuni la Lettera della gioia, dato significativo se si tiene conto che Paolo è in catene per il Vangelo. L’Apostolo si rallegra nel Signore per gli aiuti che la comunità di Filippi gli ha fatto arrivare, mentre ci tiene subito a chiarire che non è il suo personale tornaconto che egli ricerca, quanto il dono di una fede adulta e matura (cf, 4,17). Proprio in questo contesto troviamo i versetti che ci riguardano, tocco personale dell’Apostolo che ci dona alcuni tratti del suo cammino di sequela dietro Gesù. Proprio il contesto ci offre di comprendere un dato essenziale del ministero paolino, la volontà di operare in totale gratuità e trasparenza, non lasciando che si inneschi la dinamica della captatio benevolentiae che, pur se non voluta, può essere vista nelle relazioni più sante e belle. I doni sono il segno dell’amore nutrito, non il modo per ingraziarsi le persone influenti, corrompendole, né tantomeno per legare gli altri o anche per far credere che secondi fini abbiano spinto Paolo ad annunciare il Vangelo. Egli sa bene che il Nemico è sempre in agguato ed è capace di insinuare dubbi e perplessità anche in azioni fatte nella purezza delle intenzioni e nella rettitudine della coscienza.

È importante in ogni relazione chiarire le intenzioni e dare la giusta chiave di lettura dei comportamenti, per non rischiare di essere mal compresi e, di conseguenza, giudicati in modo sbagliato per una cosa che non è mai stata né fatta né pensata. Paolo è determinato ad imboccare la strada della prudenza e a prevenire eventuali incomprensioni. Nessuno dei Filippesi deve giudicarlo negativamente per i doni ricevuti e neppure si deve credere che chi annuncia il Vangelo lo faccia per scopi nascosti e non buoni. Difatti, per evitare ogni tipo di fraintendimento da parte dei Filippesi e soprattutto di coloro che, all’interno della comunità, cercano in ogni modo di denigrare il suo apostolato, Paolo è costretto a parlare di lui. Se scorriamo le sue lettere, ci rendiamo conto che l’Apostolo non preferisce parlare di sé. La finalità del suo scrivere è consolidare la fede delle comunità, rendendole sempre più ben salde nell’annuncio ricevuto quando vennero alla fede. I pochi casi nei quali Paolo parla di sé è per chiarire le sue posizioni oppure per difendere il suo ministero o anche per mostrare in lui ciò che la grazia di Cristo Gesù ha compiuto tra i pagani. Anche ora l’Apostolo se parla di sé è in ragione del suo ministero, perché il suo essere ambasciatore per Cristo non venga misconosciuto per raggiri umani che si trovano in coloro che lo guardano con occhi cattivi, piuttosto che in lui. Allontanare la pur minima tentazione di interesse o tornaconto risulta essenziale per custodire i propri rapporti.

Ciò che deve risplendere in tutta la sua bellezza nelle nostre relazioni è la gratuità dell’amore, il disinteresse del bene, la cura nel ricercare ciò che più giova all’altro. Bisogna togliere terreno a Satana, il principe della menzogna e della mistificazione, colui che cerca di seminare la discordia, di far serpeggiare il dubbio, misconoscendo e nascondendo la purezza dell’amore. Ci sono dei momenti, nella vita di coppia, in cui l’amore, anche se visto e riconosciuto, è messo in dubbio e questo non perché lo si voglia, ma sono i pensieri contrari che lavorano così tanto in noi da destabilizzare le certezze che abbiamo. In quei momenti, presi dalla battaglia che combattiamo dentro di noi, non riusciamo a palesare i nostri dubbi al di fuori, con le persone che amiamo. Nei casi in cui lo abbiamo fatto – sono proprio le esperienze passate a frenarci – non siamo stati capaci di far capire – o forse l’altro non ha voluto, credendosi colpito nel suo orgoglio – che la nostra non era un giudizio o un’accusa, ma rappresentava una richiesta di aiuto perché la guerra di cui lo rendevamo partecipe non era voluta, ma subita. Spesso si preferisce non parlare per evitare inutili liti, ma proprio allora la perspicacia di chi ama deve prevenire e sgombrare il terreno da inutili ed infondati equivoci. Difatti, chi ama veramente conosce la debolezza del cuore e, come Paolo, chiarisce perché si evitino timori e dubbi e così l’amore risplenda nella sua autenticità. In questo bisogna aiutarsi e venirsi incontro perché si può anche essere tacciati di pensar male dell’altro/a nel prevenire cadute di tono del rapporto, ma questo che non vuol dire legare il carro davanti ai buoi, quasi gridando al fuoco prima che si sprigioni la minima scintilla che faccia presagire il peggio. In amore è importante liberare il terreno da malintesi, perché farlo quando hanno ormai messo radici è ancor più difficile. Proprio questo fa l’Apostolo, l’esperienza con altre comunità lo mette in guardia dal considerare tutto scontato. Anche noi dobbiamo lavorare su di noi, sgombrando il terreno del rapporto da tutto ciò che potrebbe in ogni modo comprometterlo ed inclinarlo inevitabilmente.

Custodire i nostri rapporti, vigilare sul campo della vita dei propri figli è essenziale per evitare che il Nemico sparga la zizzania, impedendo al buon seme di crescere e portare frutto. In ogni chiarimento – ed è questo il tratto più bello e significativo dell’atteggiamento dell’Apostolo – è necessario uscire allo scoperto in prima persona, mettersi in gioco sul serio, evitare raggiri di parole che, invece di semplificare le situazioni, le rendono ancor più problematiche e difficilmente risolvibili. La persona che mi è accanto viene rasserenata, nelle tempeste che vive e che non sempre ha il coraggio di palesare, solo se gli apro il mio cuore, parlandogli con semplicità di ciò che vive dentro di me, se gli comunico i miei pensieri, se la rendo partecipe dei miei sogni. Come insegna Paolo, non bisogna aver paura di dire la verità, perché solo questa, come insegna Gesù (cf. Gv 8,32), ci rende liberi nell’amore. Parlare in prima persona risulta essenziale nell’amore, nella relazione di coppia ed in famiglia, tra amici ed in comunità, non bisogna aver mai paura di manifestare le intenzioni del cuore, soprattutto quando questo serve a prevenire dubbi e perplessità che ci logorano in profondità, aprendo voragini incolmabili se non si usa l’amore.

Con il cuore proteso verso Dio

Per estirpare sul nascere ogni minima accusa di interesse, Paolo non ha paura di confessarsi per quello che vive, non teme di affidare la propria vita nelle mani dei Filippesi per mostrare che non cerca nessun tornaconto personale, quanto, invece, la risposta generosa della loro fede operosa al dono di Dio in Cristo Gesù. Ecco perché dice subito “so vivere nella povertà e so vivere nell’abbondanza”. Quella di Paolo è una confessione schietta e sincera. Egli conosce se stesso perché l’incontro con Cristo ha determinato un cammino di introspezione profondo nel suo mondo interiore che è divenuto il luogo della sua permanente amicizia con Cristo. Per l’Apostolo il sapere è la diretta conseguenza di quanto ha constatato nella vita, della concretezza della sua quotidiana lotta contro se stesso. Il suo conoscersi deriva dal lungo e sofferto itinerario di conversione che non si può dire certo finito perché in noi c’è sempre qualcosa da riconsegnare nelle mani di Dio perché Lui, impareggiabile vasaio, ci plasmi ad immagine del suo Figlio Gesù. Conoscersi è il primo passo nel donarsi, ma è impossibile conoscersi senza amore. L’uomo, rimane infatti, un enigma a se stesso, se l’amore non spezza il velo della paura che alimenta la non conoscenza. Lo ricorda il salmista “Alla tua luce – ovvero grazie alla tua presenza, al tuo amore infinito ed eterno – vediamo la luce” (Sal 36,10). Sì, è l’amore del Signore che rende possibile il conoscersi in verità, posso usarmi misericordia, sorridere di me stesso e rallegrarmi dei traguardi raggiunti perché Dio ci fa grazia. Conoscersi in Dio e conoscere gli altri in Dio significa vivere nella verità dell’amore suo, perché solo Dio ci conosce in verità ed è capace di infondere in noi la forza per accoglierci ed amarci, mettendosi in gioco e vincendosi nella relazione con gli altri, senza paura.

Ed io fino a che punto posso dire di conoscermi, di aver guardato in faccia le parti più nascoste del mio cuore, di averle accolte e di non far finta che non esistano? Posso dire di sapere tutto di me, perché le esperienze fatte mi hanno donato, nel bene e nel male, nell’abbondanza e nell’indigenza, la possibilità di portare avanti un cammino di autenticità? L’introspezione è l’arte che esercito quando penso e parlo, quando agisco, osservandomi alla luce di Dio che tutto scruta e conosce? E dell’altro/a posso dire di conoscere tutto il suo cuore? Il nostro rapporto è scandito da quella mutua e matura capacità di non aver paura del suo sguardo che mi aiuta e mi completa nella ricerca del bene e nello scorgere e combattere quanto impedisce di crescere?

Amare significa ricercare il bene dell’amato, questa è la ricompensa vera che chi ama veramente desidera. Se così non fosse l’amore detto o promesso a parole avrebbe dell’amore autentico solo la facciata e, non essendo amore vero, sarebbe in realtà puro egoismo. Paolo non ama a parole e non è un pastore che si nutre del grasso delle pecore che pascola. È vero, l’operaio ha diritto al suo salario (cf. Ma 10,10), ma l’Apostolo ha da sempre scelto di non approfittare minimamente del diritto conferitogli dal Vangelo (1Cor 9,18). Per lui annunciare Gesù, la potenza della sua resurrezione è un dovere che nasce non da un imperativo morale, ma dall’esperienza dell’amore. Egli sa a chi ha dato fiducia (cf. 2Tim 1,12) e nulla vale dinanzi “alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù” (Fil 3,8). Nella vita abbiamo bisogno di tante cose, ma nulla può sostituire l’amore che doniamo agli altri con il cuore, come anche nulla può prendere il posto dell’amore di cui gli altri ci fanno dono. Paolo sta qui mostrando, pur senza usare direttamente il termine, il principio dell’essenzialità, la capacità non solo di contentarsi di ciò che si ha, ma di non cercare altro al di fuori dell’amore per saziare l’arsura del cuore. Solo l’amore è essenziale nella nostra vita, ma non basta esprimerlo a parole, quanto, invece, è necessario esercitarsi nell’essenzialità e nella cura delle nostre relazioni perché nulla e nessuno offuschi in noi né prenda il posto dell’amore delle persone che sono parte di noi e della nostra vita. Senza amore come possiamo maturare nel dono? Senza amore come possiamo vincere la paura di metterci in gioco sul serio?

È necessario educarci all’essenzialità, allenarsi a tutto e per tutto perché in noi e tra noi vinca l’autentico amore. Il cammino di sequela è la palestra dell’essenzialità. In esso, come il popolo d’Israele che esce dall’Egitto, ciascuno di noi è chiamato a spogliarsi progressivamente di sé, di quanto gli è di impedimento, anche se crediamo che la corazza di cui ci rivestiamo sia la nostra forza. Allenarsi nell’amore rappresenta l’arte più difficile nella quale solo Gesù ci può guidare. Addestrare il proprio corpo perché gli istinti non primeggino, ma vengano orientati secondo il bene desiderato e promesso; addestrare il cuore perché nulla e nessuno entri nella stanza interiore e, una volta abbattuti i picchetti di guardia, penetri nella parte più intima di noi stessi dove la propria coscienza è sovrana; addestrare la mente perché nessun pensiero devi né a destra né a sinistra e la fantasia non si costruisca un mondo parallelo nel quale rifugiarsi nei momenti in cui la realtà ci appare troppo dura; addestrare i sensi, iniziando dagli occhi che sono le finestre dell’anima, perché, come per Eva, il desiderio avverso al comando di Dio viene suscitato e si nutre con la vista che, con il concorso della mente, si allontana dal bene e porta ad assecondare se stessi, non a ricercare il volere di Dio che è sorgente di pace e di vita: sono questi i passaggi da compiere nella sequela di Cristo.

La vita coniugale, i rapporti familiari, le relazioni con gli amici, la propria parrocchia, la comunità religiosa di cui si è parte rappresenta il luogo dove allenarsi a vincere se stessi e rinnegarsi, in quella quotidiana ascesi spirituale che è una vera e propria lotta. Bisogna essere sempre vigilanti, mai perdere l’allenamento o gettare la spugna per poco tempo perché facilmente si perderà anche ciò che, con la grazia di Dio, si è conquistato con grande impegno. I nostri giovani devo essere educati, nella palestra dei veri desideri, a quella quotidiana lotta contro se stessi, perché non è liberando gli istinti e vivendo secondo natura che si matura e diventa adulti. Bisogna educarli al vero bene e rimanere desti con la mente e con il cuore perché il Nemico può farci deviare e ravvisare come bene ciò che invece è un semplice anche se persistente capriccio. È quindi necessario affidarsi al Signore nel discernere i moti del cuore, attuando quella disciplina spirituale che, mossa dallo Spirito, ci dona di poter conquistare il premio. Essere allenati a tutto – all’abbondanza e all’indigenza – significa avere la capacità di vivere l’amore in ogni situazione, amare in ogni occasione, saper vedere l’essenziale in quello che facciamo, il necessario in ciò che perseguiamo. Quanto tempo ed energie perdiamo nell’assicurare a noi e ai nostri figli il superfluo! Spesso, nel rincorrerlo, dimentichiamo le cose veramente necessarie della vita. Di queste abbiamo bisogno più di tutto noi e sono queste – l’amore, la presenza, l’attenzione, il nostro tempo – le cose di cui hanno veramente bisogno nostri figli, questo chiedono, pur senza saperlo. Dobbiamo riuscire ad intercettare i loro bisogni e rispondere alle richieste inespresse che si portano dentro, perché a nulla serve riempire le mani, lasciando vuoto il loro cuore.

Onnipotenti in Dio

Cuore del brano odierno è la nota frase “Tutto posso in colui che mi dà forza” (v. 13), una delle espressioni dell’Apostolo più citate per esprimere la potenza del Signore che abita la vita del credente, abilitandolo a compiere l’impossibile. Anche qui siamo dinanzi all’esperienza che Paolo ha fatto di Dio, da quando lo ha incontrato sulla via di Damasco e si è “scontrato” con Cristo. È stato, infatti, il Risorto che ha scardinato le sue false certezze e lo ha fatto rinascere a vita nuova per la potenza del suo Spirito di resurrezione. Nell’esistenza dell’Apostolo c’è stato questo fondamentale passaggio: dal proprio io autoreferenziale a Dio. Non sono giusto per quello che faccio, ma per il dono gratuito di Dio. Se credo in Lui che si è rivelato in Gesù Cristo e mi ama di un amore infinito ed eterno, io vivrò da salvato. In tal modo centro della vita di Paolo è Gesù Cristo, il “mio Signore” (Fil 3,8). È Gesù Cristo e Lui solo che vibra nella sua anima di apostolo, Lui, il Figlio di Dio che nella pienezza dei tempi, nacque da donna (cf. Gal 4,4) che irrora il suo prezioso sangue nelle membra di colui che un tempo era fariseo e che ora può dire “Vivo, ma non io, in me vive Cristo” (Gal 2,20); è Gesù che egli annuncia – “Noi predichiamo Cristo crocifisso” 1Cor 1,23 – Gesù la ragione del suo affanno – “Tutto io faccio per il Vangelo”, 1Cor 9,23 – Gesù è la sua vita – “Per me il vivere è Cristo” Fil 1,21 – Gesù il motivo del suo abbandonare ogni cosa in questo mondo. Più Paolo si lascia senza paura nelle mani di Cristo e più sperimenta di avere in Lui tutto, di potere in Lui tutto. Quando ci si fida di Dio, è Lui che prende il timone della nostra vita e compie ciò che le nostre deboli forze non riescono a fare.

I Vangeli ci offrono pagine straordinarie di totale confidenza ed abbandono in Dio che può tutto ed ogni cosa buona compie, secondo il suo progetto di salvezza. Maria ascolta dall’angelo il suo “nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,37) e, fidandoci della Parola del Signore, sperimenta il dono della maternità, nella sua verginità; “Tutto è possibile a Dio”, Mc 10,27 si sentiranno dire i discepoli che non riescono a capacitarsi come sia “più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio” (Mc 10,25). “Tutto è possibile per chi crede” (Mc 9,23) ascolterà il padre del ragazzo indemoniato che, invano, si era rivolto ai discepoli perché il figlio venisse da loro guarito. Così anche Paolo sperimenta nella sua vita la realizzazione della promessa di Dio, il compimento della sua parola, l’impossibilità umana trasformata in possibilità inaspettata che desta stupore e apre le labbra alla lode che ogni cosa buona compie. In tal modo l’Apostolo si pone nel solco di Maria e dei tanti che, non confidando in se stessi – recita il profeta Geremia (17,5): “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore” – pone la sua vita in Dio e può ripetere con il salmista: “Solo in Dio riposa l’anima mia, da lui la mia salvezza. Lui solo è mia roccia e mia salvezza, mia difesa: non potrò vacillare” (Sal 63,2-3).

Tutto posso” dice l’Apostolo, ma subito chiarisce “in colui che mi dà forza” perché “Non […] da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio” (2Cor 3,5). L’uomo, ogni uomo e quindi anche Paolo, può confessare con Abramo “Sono polvere e cenere” (Gen 18,27), ma perché innestati in Cristo, da Lui riceviamo la forza invincibile del suo Spirito. Il Maestro lo ha promesso: “Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!” (Gv 16,33) e ancora “Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare” (Lc 10,19). Se facciamo spazio alla potenza di Dio, sarà Lui ad agire e compiere in noi meraviglie. È questo il segreto della santità, fare posto a Cristo, attraverso la docilità al suo Spirito, per divenire creature nuove. Solo così la nostra vita diventerà un dono per gli altri.
Le nostre famiglie diventino sempre più, per la preghiera di Maria, i luoghi dove l’amore di Dio realizza l’impossibile.




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1 risposta su “Nella vita abbiamo bisogno di tante cose, ma nulla può sostituire l’amore!”

Mi abbandono in Gesù in questo momento di prova per la mia famiglia! Ho sperimentato il suo Amore ed affido a Lui I miei affetti più cari!
Lo Spirito Santo ci indichi il giusto percorso x mio fratello Luigi!

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