H… come humour

Quando l’ironia rivela il lato nascosto delle cose

sorridere, ironia

di Gianni Mussini

Illuminare la realtà attraverso il gioco e lo scherzo: un abilità per pochi eletti che trova i suoi sostenitori sia nei giganti dell’arte che nei grandi comici dei nostri giorni.

Primi anni Novanta in una scuola superiore. Un drappello di insegnanti bravissimi e – nonostante il crollo del Muro – ancora debitamente marxisteggianti, si mette in testa di proporre al preside un Regolamento per i viaggi di istruzione, cioè le famose “gite”. In quegli anni di disincanto post-sessantottino il cattolico secolarizzato si faceva volentieri comunista (la fede trasformata in ideologia), salendo molto in ritardo su quello che sembrava ancora il treno della storia. Da parte sua il comunista secolarizzato diventava un intransigente burocrate, trasformando i perduti sogni ideologici in minuziosi regolamenti e codicilli, buoni per tranquillizzare la coscienza e intanto evitare di fare i conti con quella storia da cui non passava più nessun treno. Forse proprio per questo quei colleghi – lo ripeto: bravissimi e anche generosi – si ritrovarono a scuola diversi pomeriggi per partorire il gran Documento.

In Collegio docenti feci notare che le gite scolastiche erano già regolate da diverse disposizioni ministeriali: inutile produrne di nuove. E chiudevo la mia arringa con una frasona a effetto: “Le gite si dividono in due categorie: quelle fatte male e quelle fatte bene; bisogna avere il coraggio di entrare nel merito”. Il merito, cioè la realtà delle cose.

Naturalmente il Documento fu approvato quasi all’unanimità. Tra il resto prevedeva che, prima della ratifica da parte del Consiglio d’Istituto, una gita fosse presentata non solo al consiglio di classe (dinanzi ai rappresentanti di alunni e genitori) ma anche – ecco la novità – al Collegio docenti. Dove tutto diventava possibile: che l‘insegnante X criticasse la collega Y, con cui magari aveva un conticino in sospeso; o che l’insegnante Y facesse le pulci al programma presentato dalla collega K; e così via.

Mi presi però la mia rivincita. Dovendo organizzare una gita a Ferrara, Ravenna e Urbino, proposi per la prima di queste mete un programma che comprendeva, dopo la visita a Cattedrale, Castello, Palazzo Schifanoia e Palazzo dei Diamanti, anche – cito dal programma – una “passeggiata nel centro storico” e in particolare in “Via Savonarola e Corso della Giovecca, con la casa natale dell’umanista Ermenegildo Scutari”. Solo che questo umanista – con relativa casa – non esiste, è personaggio che mi sono inventato raccontando ai miei bambini, la sera prima di dormire, le storie dello zio Alvaro con i suoi amici watussi e pigmei (un padre Ermenegildo Scutari aveva il ruolo del missionario simpatico e stralunato).

Il programma, ovviamente, passò in Consiglio di classe e in Collegio docenti, per essere ratificato dal Consiglio d’Istituto. Perché per fortuna in Italia la soffocante burocrazia viene spesso a sua volta soffocata dall’oblio, quando non dalla negligenza.

 

Pago del mio successo, mi dimenticai della cosa finendo per trovare stampata sul programma ufficiale dell’agenzia quell’inesistente casa dell’inesistente umanista. Poi naturalmente la realtà supera sempre la fantasia e, nel centro di Ferrara, uno dei miei studenti chiese a un vigile dove fosse questa casa, ricevendone una risposta destinata a rimanere negli annali: “Mi pare proprio dietro l’angolo…”

 

Poi confessai tutto al preside, gran brava persona innamorata della Scuola, il quale non poté che riderci sopra con me (oh gran bontà dei dirigenti antiqui!). E raccontai la storiella, antesignana delle moderne fake news, ai colleghi estensori del Regolamento: tutto sommato, ne furono meno imbarazzati che divertiti. Più avanti, trovandomi a insegnare alla scuola universitaria di formazione dei docenti, riproposi l’aneddoto ai miei allievi, come proposta di merito (realtà versus burocrazia) ma soprattutto di metodo: in certi casi l’ironia e l’umorismo permettono di sostenere un’idea in modo più simpatico ed efficace di certi proclami scandalizzati e indignati (quanti controproducenti “indignati speciali” tra noi cattolici!).

 

Ma c’è di più. L’umorismo, oltre a far stare meglio con se stessi e il prossimo, permette spesso di cogliere il lato profondo e nascosto delle cose. Non per nulla lo coltivarono due giganti dell’umanesimo cristiano come Erasmo da Rotterdam e l’inglese Thomas More. L’Elogio della follia del primo ci presenta il contrasto tra le tante pazzie in cui si perdono gli uomini, inseguendo le proprie vanità, e la verità cristiana che secondo san Paolo è “scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani”: una stoltezza però molto di buon senso se è vero – sostiene Erasmo – che Dio “proibì all’uomo di assaggiare i frutti dell’albero della scienza, come se la scienza fosse veleno per la felicità” (l’obiettivo polemico non è qui ovviamente la scienza, ma quella sua caricatura che oggi chiamiamo scientismo). Lo stesso titolo latino dell’operetta, Moriae Encomium, propone un umoristico doppio senso: encomio della Morìa (grecamente appunto la follia) e insieme di More, l’amico nella cui casa Erasmo compose l’operetta. Il quale More era a sua volta, da buon inglese, uno strenuo cultore dello humour: famosa la sua preghiera perché Dio ci conceda appunto il senso dell’umorismo, oltre a una buona digestione (“e anche qualcosa da digerire”, aggiungeva argutamente); in modo che la nostra anima “non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri e i lamenti” e non lasci troppo spazio a “quella cosa troppo invadente che si chiama io”. Parola di un martire della Fede, fatto uccidere da Enrico VIII, il sovrano promotore della riforma anglicana.

 

Il valore conoscitivo e talora persino catartico dell’umorismo è stato riconosciuto da diversi pensatori, artisti e scrittori. Tutti ricordano l’ironia manzoniana, uno dei segreti dei Promessi sposi, e molti hanno studiato il famoso Saggio sull’umorismo di Pirandello, con il relativo “sentimento del contrario”. Una parola nuova in materia l’ha però pronunciata Michail Bachtin, il grande esponente del formalismo russo novecentesco che – proprio nel solco di alcune intuizioni pirandelliane – ha illustrato il concetto di “carnevalizzazione”: ovvero quel processo di rovesciamento parodico del mondo che ne illumina appunto attraverso il gioco e lo scherzo verità altrimenti incomunicabili. Di qui la grande serietà del ‘comico’ e anche dei comici di professione, quando non si riducono a buffoni insipidi e sguaiati.

 

Da parte mia, confesso di adorare i film di Totò e anche quelli di Woody Allen, come le intelligentissime performances televisive di Neri Marcorè (meno quelle di Crozza, sempre un po’ troppo sensibili all’ideologia del momento). Inoltre produco a getto continuo filastrocche scherzose e persino demenziali, confortato da mia moglie a cui – come mi ha confessato una volta – sono sempre piaciuti i cretini… Del resto ho sempre pensato che giocare sia una delle cose più serie che si possano fare nella vita e che, in particolare, giocare con le parole permetta di partecipare a quel Logos (la Parola, appunto) che dà senso al mondo.

 

Del resto, l’umorismo come vero linguaggio di Dio è la tesi di Homo ridens, un aureo volume del sociologo austro-americano Peter Ludwig Berger che tengo sul comodino di fianco all’Imitazione di Cristo. Ne spiega bene il succo il sottotitolo: La dimensione comica dell’esperienza umana.

 

Fornendo divertentissimi esempi, Berger compie una carrellata nell’universo comico delle varie culture, a partire da quella ebraica, il cui raffinatissimo humour è stato forgiato dalle mille prove che ha dovuto affrontare quel popolo.

Se poi voglio esercitare il mio povero inglese e prendere così due piccioni con una fava, cerco di leggere in lingua l’amato Oscar Wilde, gran peccatore ma ancor più grande umorista; o magari il vecchio Chesterton con il suo Padre Brown (“da quando gli uomini non credono più in Dio non è che non credano in nulla, ma credono a tutto”); o infine Pelham G. Wodehouse, l’inventore dell’irresistibile maggiordomo Jeeves…

 

Grazie a questi amici immortali, mi addormento con il sorriso sulle labbra e mi sveglio pieno di buonumore. Che mi pare essere il primo dovere di un cristiano.




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