FIGLI DI GENITORI SEPARATI

Alunna mi racconta la guerra tra i suoi genitori: “Ho perso la voglia di studiare”

tristezza

di Mariangela Russo

Un titolo compare tra gli stati dei miei contatti whatsapp catturando la mia attenzione: “Genitori, sta a noi. Dieci passi per vivere meglio in famiglia” (di Cecilia Galatolo). Le riflessioni che da qualche giorno affollano la mia mente prendono forma, si condensano.
Mi accade spesso, da adulta, da madre e da educatrice di riflettere sulla responsabilità che ogni gesto, anche piccolo e insignificante, comporta: responsabilità morale, etica, sociale.

Cos’è la responsabilità? Come la definiamo? Come la viviamo? Come la decliniamo, al giorno d’oggi, nelle variegate relazioni che, quotidianamente, intratteniamo, a casa, sul luogo di lavoro, nel gruppo dei pari?

Credo che per definirla non basterebbe uno spazio pari al doppio di quello che ho, né io, in verità, sarei capace di riempirlo.

Da sempre filosofi, pensatori, laici e no, si sono interrogati sul senso di questo “legame”, di questo vincolo che tiene stretti, assiepati, anche se fisicamente distanti, gli esseri umani.
La responsabilità, da qualsivoglia angolazione e prospettiva la si voglia interpretare, credo sia ciò che alla fine più nel profondo connoti l’uomo: posseduta, tuttavia, in varie grammature e tonalità, essa orienta in modo diverso le scelte dei singoli e colora, di conseguenza, schemi sociali e culturali.

Per me, responsabilità è “sentire” la presenza dell'”Altro. Sentirla, e profondamente rispettarla. Avvertirla. E farsi, perché no, limitare da essa.

Essere responsabili, specie quando si è adulti, e soprattutto quando ci si relaziona ad individui ontologicamente e sociologicamente più fragili di noi (o, almeno, così dovrebbe) significa spesso attribuire la priorità al benessere dell’altro. E in virtù di ciò scegliere, liberamente, di rinunciare ad una parte della torta che ci spetterebbe.

Significa riconoscere, cioè, che, in certe situazioni, essere liberi e responsabili, significa discernere e distinguere: in poche parole, vuol dire arretrare, e non avanzare.

Significa privarsi, e non attribuirsi. Significa decidere di non fare, di non essere. Piuttosto che voler essere per forza, a tutti i costi. Perché non esiste possibilità di felicità propria, se essa deve realizzarsi a discapito di altri.

E se quegli altri, o l’Altro, appunto, sono i nostri figli, o i nostri alunni, o chiunque si affidi o ci venga affidato, allora non abbiamo scelta.

Qualche giorno fa le lacrime di una mia alunna mi hanno profondamente toccato: è esplosa in un pianto liberatorio e sofferto, al termine di un colloquio andato male. Non aveva studiato, ma, in generale, le cose non stanno andando bene per lei.

Io lo vedo negli sguardi dei miei alunni, se le cose non vanno. Hanno occhi assenti, sguardi distratti, spesso stanchi. La loro presenza è altalenante, la motivazione allo studio va in brusca discesa.

Un’ombra di preoccupazione, e di vergogna, si allunga sui loro volti. Lo capisci se qualcosa non va.

Mi chiede scusa. E mi chiede di poter parlare con me.

Non deve scusarsi. Non è lei che deve chiedere scusa: tra qualche mese dovrà comparire dinanzi al giudice, nella causa inerente alla separazione dei suoi genitori.

Affido condiviso, poi esclusivo. Il genitore escluso chiede, a sua volta, di escludere l’altro.
Lei non sa che fare, ha paura. Anzi, è terrorizzata. E, ovviamente, non riesce a concentrarsi. Non studia. Eppure è solitamente interessata, è sveglia. Lei stessa mi dice: prof, a me piace studiare.
Io le dico che lo studio è anche riscatto. È voglia di prendersi la rivincita. Di pensare a sé, alla propria esistenza, allo svincolo da un mondo adulto che l’ha ferita e che le ha chiesto un dolore e uno sforzo di esistere e di comprendere che non le toccava.

Leggi anche: Chiedo agli alunni: “Cos’è l’amore per voi?”; le loro risposte mi sorprendono (puntofamiglia.net)

Quando è uscita dall’aula ho pensato che a volte l’egoismo e i sentimenti di rivalsa e di ripicca dei “grandi” non hanno giustificazione alcuna. Sono fini a sé stessi. Sono ciechi, irrazionali.
E, soprattutto, ha forse responsabilità un adulto che non riconosce, che non pensa, che non immagina il dolore che infligge ad un altro essere umano? Quale può essere la contropartita di un tale dolore?

Quale il fine?

Esistono condizioni in cui bisogna, a mio avviso, avere coraggio.

Coraggio di chiedersi quale sia il prezzo di ciò che per noi è “bene”. Di segnare un confine netto, anche se sofferto, alle nostre azioni. Qualche volta, anche alla nostra personale realizzazione e alla nostra personale aspirazione alla felicità.

Essere genitori credo metta spesso in questa condizione: la mia libertà, al posto del tuo benessere.
Il mio spazio, perché tu possa trovare il tuo posto nel mondo.

La mia sofferenza, perché la tua sofferenza sia inevitabile.

Non è mia intenzione affermare qui la necessità di una facoltà genitoriale, ed educativa in genere, intesa esclusivamente come privazione, sacrificio, abnegazione.

Si tratta, invece, di porsi la domanda essenziale: qual è la mia responsabilità verso l’altro? E gli altri?

Essere genitori, a mio avviso, obbliga alla responsabilità.

Essere adulti, oggi, obbliga alla responsabilità.

Essere adulti che formano, imprimendo una traccia indelebile nelle coscienze dei loro alunni, obbliga alla responsabilità.

Senza infingimenti, senza schermi, senza falsi proclami.

Senza paura di essere additati come “vecchi, obsoleti, in controtendenza”.

Se si è responsabili, si è autorevoli.

E si diviene un esempio di un’umanità declinata sotto il segno dell’amore, della cura, della presa in carico dell’Altro. Che non prescinde mai dall’avere nutrito, lungo il corso della propria esistenza, un profondo ed autentico senso del sé. 




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