L’ARTE DI EDUCARE
Noi educatori sappiamo essere dei Michelangelo per i nostri ragazzi?

Un mio studente mi ricorda che la lava impiega poco tempo per diventare quell’ossidiana che in essa è contenuta in nuce. La vera forma, tuttavia, è nebulosa, mai nitida. Gli educatori hanno tra le mani il materiale più difficile e a volte duro dell’universo: la persona umana. Sappiamo essere i Michelangelo di queste generazioni? A noi spetta il biblico compito di accompagnare senza varcare insieme il confine della Terra Promessa.
Vanno tutti a vedere, soprattutto in quest’anno giubilare, quella in San Pietro, perfetta, attraente, magnetica: la Pietà di Michelangelo. Varcata la Porta Santa, la si incontra sulla destra mentre, da sola, minima, riesce a competere con la magnificenza della Basilica sfolgorante di stucchi dorati e colonne imponenti. Si resta ammaliati di fronte a tale meraviglia. Forse non tutti sanno che la Pietà è più un genere che un’opera e che è comune a molti scultori. Lo stesso Michelangelo ne ha scolpite diverse. Almeno tre. Passando davanti a quella splendida, giovanile, esposta in Vaticano, tuttavia il mio pensiero è andato a quella incompiuta, l’ultima e non ultimata, a cui il maestro ha lavorato fino alla fine dei suoi giorni. Molto è stato detto su di essa e dei rimandi alla caducità della condizione umana con la quale lo scultore faceva i conti alla veneranda età di ottantotto anni. Si dice che l’abbia volutamente lasciata incompiuta. Non lo sappiamo con precisione. La sua incompiutezza la rende però una potente icona dell’opera dei “costruttori” d’uomini, di tutti coloro che, cioè, lavorano alla realizzazione di quella meraviglia che è una persona adulta. Chi sono costoro se non i genitori, i maestri, i docenti, i catechisti, gli allenatori o gli istruttori e tutti coloro che “lavorano” la materia umana? Faccio questa riflessione muovendo dal pellegrinaggio giubilare che mi ha portato a Roma e dalla chiusura della finestra dedicata alle iscrizioni dei nostri studenti e alunni alla scuola che frequenteranno dal prossimo anno. In molti casi, questi ragazzi stanno passando da uno scultore ad un altro, dalle maestre della primaria ai docenti della secondaria o da questi a quelli della secondaria di secondo grado o all’università. Ogni ragazzo e, più in generale, ogni persona, tutti siamo degli eterni incompiuti. Quando saremo, infatti, veramente compiuti? Quando avremo finito di crescere? Quando saremo definitivamente maturati? Dalla cattedra osservo i miei ragazzi che crescono, cambiano, maturano, cominciano a decidere della loro vita e a volte sono di fronte a scelte più grandi di loro. Guardo anche da quest’altra parte della cattedra, a me e alla “fabbrica infinita” che mi rendo conto di essere. A piattaforma chiusa, gli esperti si sono cimentati nella lettura delle iscrizioni, hanno prodotto delle percentuali dalle quali desumere, possibilmente, dove sta andando la nostra società, come sono i nostri ragazzi e che futuro ci attende. Non mi attira questo approccio. Davanti a me ho dei ragazzi con la loro singola storia e le loro proprie caratteristiche. Dalla cattedra il mondo è diverso. Cerco di esprimermi meglio con un esempio.
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Dopo la Seconda guerra mondiale, gli americani volevano creare alcuni modelli di uomo e donna standard per l’industria, soprattutto per l’abbigliamento, i mobili e i mezzi di trasporto. Per farlo, una società finanziò una ricerca negli anni ’40 e ’50, raccogliendo dati antropometrici su migliaia di uomini e donne americani. Ne tirarono fuori due modelli. Norman rappresentava il maschio americano medio. Norma rappresentava la donna americana media. L’idea era di usare queste misure per progettare sedili, cabine di pilotaggio, divani, vestiti e molto altro, adattandoli alla “persona media”. Uno dei grandi problemi fu che quasi nessuno corrispondeva esattamente alle loro misure! Un famoso studio dell’aeronautica militare scoprì che, su 4.000 piloti, nessuno aveva esattamente le misure standard di Norman. Questo portò alla comprensione che progettare oggetti basandosi su una “persona media” non era efficace e che serviva maggiore adattabilità. Così è per i nostri “incompiuti”. Il loro stato rimanda anche ad una grande potenzialità tutta ancora da esprimere. Bisognerebbe imparare a valutare con gli occhi ed il metro del “poi”. Se mi guardo indietro, a stento riconosco quel ragazzo goffo che imparava la vita e la società a colpi di gaffes ed errori. Come saranno i nostri ragazzi, una volta cresciuti? Tra qualche anno? Le vediamo le potenzialità? Magari le usiamo solo per dire che “è portato ma non si impegna”? Ha talento ma non lo sfrutta… Quante volte si sente dire questa frase nei colloqui. E allora, che società avremo domani? Come saranno questi ragazzi? Non lo sappiamo, data la loro e nostra incompiutezza. Possiamo seminare, accompagnare, coltivare, in qualche caso scortare, stimolare, spingere, talvolta tirare e tante altre azioni ancora. Sappiamo essere i Michelangelo di queste generazioni? Non lo sappiamo. A noi spetta il biblico compito di accompagnare senza varcare insieme il confine della Terra Promessa. Moderni Mosè che possono vedere da lontano qualche brandello di scopo, di quell’adulto che stiamo contribuendo a far sbocciare. Da matematico posso permettermi il lusso di dire che sì, i numeri statistici ci raccontano il passato fino al momento presente e lo fanno abbastanza bene. Il futuro no. Non rientra in nessuna “norma”. Almeno nel campo dello sviluppo della professionalità e della personalità. I miei studenti non sono Norman. Le mie studentesse non sono Norma. Ognuno di loro è un universo in espansione nello spazio che ha a disposizione. Le mani sapienti degli adulti possono aiutare a formare, dare una struttura che sembrerà più o meno stabile e duratura. Ma il lavoro resta incompiuto, magmatico, misterioso. Un mio studente, parlando in classe di questo processo, mi ricorda che la lava impiega poco tempo per diventare quell’ossidiana che in essa è contenuta in nuce. La vera forma, tuttavia, è nebulosa, mai nitida. Abbiamo tra le mani il materiale più difficile e a volte duro dell’universo: la persona umana. Ci lavoreremo, su noi stessi e le persone che amiamo, fino alla fine dei nostri giorni. Senza stancarci. E senza completare l’opera. Anche perché non la completeremo noi. Come la pietà Rondanini è completata dallo sguardo del visitatore che intravede, in essa, cose che Michelangelo nemmeno pensava di rappresentare, così è per i giovani che aiutiamo nel loro percorso. Saranno “completati” da chi li vedrà in futuro, da coloro che avranno a che fare con loro. Infine, saranno completati dallo Sguardo che tutto vede. Il percorso è lungo. La scelta della scuola ne rappresenta un passo che tra l’altro non è irreversibile.
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