I Domenica di Quaresima - Anno B

“Per virtù di colui che ci ha amati”

di fra Vincenzo Ippolito

Siamo solo all’inizio del cammino quaresimale e la Chiesa ci propone senza mezze misure di guardare a Gesù per imparare a considerare la lotta realtà permanete della vita cristiana. Bisogna combattere ogni giorno contro le potenze delle tenebre e percorrere la via ardua della sequela di Cristo con perseveranza, vegliando perché il sonno dell’oblio non ci sorprenda.

Dal Vangelo secondo Marco 1,12-15
In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».

 

Con lo scorso mercoledì – definito delle ceneri per il gesto penitenziale che accompagna la celebrazione – abbiamo cominciato il Tempo quaresimale, momento favorevole per rimettere Cristo al centro della nostra vita personale, familiare e comunitaria. In molti però avranno modo solo oggi, partecipando all’Eucaristia, di entrare con Cristo nell’asprezza del deserto per incamminarsi verso la Pasqua. I brani della sacra Scrittura scelti per la celebrazione odierna sono sapientemente accostati per spronarci a ritornare alla grazia del nostro battesimo e vivere una rinnovata amicizia con Cristo, nella Chiesa che è il suo vero corpo presente nella storia.
La Prima Lettura, tratta dal libro della Genesi (9,8-15), ci presenta l’alleanza che Dio stipula, dopo il diluvio, con Noè, di cui l’arcobaleno è segno, mentre, nella Seconda Lettura (cf. 1Pt 3,18-22), l’apostolo Pietro vede nelle acque del diluvio un presagio del battesimo che dona vita e salvezza, attraverso Gesù Cristo. Abbiamo bisogno di riscoprire la grazia del battesimo – è questo che la liturgia vuole dirci – e lasciare operare la potenza dello Spirito che abita in noi, per stringere con Dio il nostro patto di alleanza, vincendo il male che ci attanaglia, per farci allontanare da Dio. Ecco la figura che si staglia solenne dinanzi ai nostri occhi: Gesù che entra nel deserto – è questa la scena che la liturgia ci dona nel Vangelo – per combattere Satana, il nemico della nostra alleanza con Dio. La Quaresima serve quindi per accogliere la proposta di alleanza che il Signore vuole stipulare con noi, abbattendo gli ostacoli interiori che noi poniamo – a questo serve la penitenza quaresimale – ed imparare a fare alleanza – la vita coniugale non è forse un’alleanza in Cristo, al pari di quella comunitaria? – e porre segni di alleanza, traducendo l’amore, con la forza dello Spirito, in vita che trabocca di gioia.

Nel ritmo della liturgia

La prima Domenica di Quaresima, nei vari cicli liturgici, è sempre dedicata alla contemplazione di Gesù tentato nel deserto. Si tratta di una pagina evangelica classica in questo tempo di rinnovamento spirituale, che rappresenta lo scenario dell’itinerario di ogni cristiano. Il discepolo di Cristo, infatti, è chiamato a iniziare la battaglia contro le potenze delle tenebre, sorretto dallo Spirito che non lo lascia mai solo. Quest’anno la liturgia, vista la brevità della descrizione marciana delle tentazioni – appena due versetti – unisce la narrazione della lotta di Cristo contro Satana (vv. 12-13) al racconto della predicazione di Gesù, all’inizio della sua vita pubblica (vv. 14-15). In tal modo, comprendiamo ancor meglio come il tempo del deserto prepari il Nazareno al suo ministero e lo conduca, assecondando la grazia dello Spirito, scesa su di Lui nel battesimo, a vivere la solidarietà con ogni uomo che arranca nel vedere il bene e ricercare la gioia, se non si lascia guidare, come Gesù, dalla potenza che viene dall’Alto. È lo Spirito Santo, infatti, il grande agente della nostra conversione, è Lui che mette ordine nel soqquadro del nostro cuore, è Lui e Lui solo a liberarci dalle schiavitù che abitano il nostro cuore, spezzando le catene che ci tengono legate ai grandi ceppi delle nostre incoerenze e degli equilibri che non riusciamo ad eliminare – cosa possiamo fare senza l’aiuto di Cristo? Nulla! – è il Consolato che Gesù dona a spingerci per farci prossimi nei riguardi degli altri, considerandoli fratelli; è sempre Lui, lo Spirito che il Risorto soffia sulla Chiesa perché passi con Lui dalla morte alla vita, a sostenere la nostra battaglia, per non soccombere agli assalti del male. Sua è la forza della riconciliazione che accogliamo con umiltà per essere missionari di misericordia in un mondo lacerato da lotte e discordie. La Quaresima è il tempo dello Spirito che ci plasma ad immagine di Gesù. Solo portati dal suo soffio che tutto rinnova riusciremo a vincere o, per meglio dire, Cristo vincerà in noi che lasciamo operare la sua grazia onnipotente.

La prima cosa che notiamo – potremo dire dall’esterno – riguarda la pericope odierna (cf. Mc 1,12-15), nella struttura delle letture domenicali dell’anno B. Se guardiamo i brani finora letti nella liturgia domenicale, ai quarantacinque versetti che formano il primo capitolo del Vangelo secondo Marco – la scorsa domenica, con il racconto della guarigione del lebbroso (cf. Mc 1,40-45), abbiamo terminato proprio la lettura liturgica di Mc 1 – mancavano i versetti 12-13, che narrano le tentazioni di Gesù nel deserto. Pochi si saranno accorti di questo, come del fatto che il racconto della predicazione di Gesù in Galilea, con l’annuncio della presenza del Regno e della conversione, come capacità di far spazio al Vangelo (cf. Mc 1,14-15), è già stata letta e meditata nella III Domenica del Tempo Ordinario (21 gennaio 2018). Da questo comprendiamo quanto sia importante avere uno sguardo d’insieme del cammino che la Chiesa ci fa compiere, attraverso le letture bibliche scelte per noi, ogni domenica. Solo così, infatti, potremo entrare nel ritmo della liturgia e trarre frutto da quanto la mensa della Parola di Dio ci dona con abbondanza.

La descrizione delle tentazioni di Gesù che l’Evangelista oggi ci offre è scarna, in appena due versetti viene detto tutto. Abituati ai racconti di Matteo (4,1-11) e di Luca (4,1-13) che ampliano la tradizione di Marco, ci sentiamo quasi smarriti dinanzi all’essenzialità del brano che oggi leggiamo. La Parola di Dio – non dobbiamo mai dimenticarlo, la fede della Chiesa ce lo insegna – arricchisce il cuore e nutre la vita per la potenza divina che sprigiona, più che per la lunghezza o meno dei singoli brani. Questo ci deve portare ad un approfondimento maggiore, nella preghiera e nella meditazione, chiedendo allo Spirito di aprirci lo scrigno della Scrittura per donarci la dolcezza che contiene, la vita che dispensa, la forza che effonde. Con le parole del centurione, prima di accostarci alla comunione, durante l’Eucaristia, diciamo “Signore, non sono degno di sedere alla tua mensa, ma dì soltanto una parola ed io sarò salvato”. Basta anche solo una parola perché la nostra vita venga trasformata da Dio che si fa incontrare nella Parola da Lui ispirata.

Volendo entrare nel brano, sempre guidati dallo Spirito che è la vera chiave per la comprensione del Testo sacro, è bene vedere il contesto prossimo della nostra pericope per meglio comprendere la sequenza narrativa che l’Evangelista sviluppa. Dopo l’attesa del Messia, espressa dal ministero di Giovanni il Battista (cf. Mc 1,2-8), il primo atto che Gesù compie, segno della sua compassione e della solidarietà con noi peccatori, è il battesimo (cf. Mc 1,9-11), evento cardine nel quale lo Spirito del Padre consacra Gesù di Nazaret per la missione da compiere tra gli uomini. Dopo la scienza del Giordano, vediamo subito – è l’avverbio che lo stesso Marco utilizza – il deserto, luogo della prova e della tribolazione, ma anche dell’armonia ritrovata da Cristo, grazia alla sua incondizionata obbedienza alla volontà del Padre. Stupisce che lo Spirito sceso su Gesù sotto forma di colomba, mentre la voce del Padre lo riconosceva suo Figlio amato, non porti il Nazareno ad iniziare subito la predicazione, annunciando la buona Novella ai lontani e operando segni mirabili sugli infermi, come accadrà in seguito. Perché mai lo Spirito sospinge Gesù nel deserto? E perché questo avviene subito quasi a dire che il Paraclito sceso su Gesù voglia da Lui questo primo gesto di incondizionata docilità alla sua opera?

Entrare nel silenzio e nella solitudine di ogni uomo

Nel panorama biblico, il deserto ricopre una svariata gamma di significati. Tempo di Dio, nel quale Egli opera con potenza e manifesta con forza la volontà di salvare il suo popolo, dopo averlo liberato dalla schiavitù dell’Egitto, il deserto è un dono per Israele. Periodo ineguagliabile ad altri per la forte e continua esperienza di Dio, è il tempo della grazia sovrabbondante, dell’amicizia profonda del Signore con i suoi, nel quale Israele è chiamato alla purificazione e al rinnovamento interiore, perché non si può servire il Signore ed abitare nella terra promessa, senza aver liberato il cuore dagli idoli dell’Egitto. Nel deserto il Signore nutre e rafforza, guida e custodisce, crea possibilità di vita insperate e cammina in mezzo ai suoi come capocordata che non lascia che nessuno perisca, ma che tutti abbiamo in abbondanza la vita. Luogo dell’alleanza di Dio con Israele, verrà sempre ricordato – si pensi al profeta Osea – come il tempo della comunione e dell’intimità sponsale per un popolo che stenta a riconoscere l’opera di Dio e le meraviglie che di continuo Egli compie per amore dei suoi eletti. È nel deserto che Dio dona la Legge del decalogo come via di libertà e segno del patto che Egli vuole stipulare; nelle asprezze della sabbia sconfinata che stanca lo sguardo, il Signore donerà l’acqua, la manna e la carne per nutrire il suo popolo, la colonna di fuoco per guidarli di notte. Nulla risparmierà il Dio della liberazione perché delle tribù sparse diventino popolo e abbiamo una terra come segno del suo amore.

Ma il deserto, prima ancora che di fede, è una realtà esistenziale fondamentale per l’uomo, manifesta una dimensione antropologica ineludibile per chi voglia iniziare un cammino di autentica liberazione e di verità totale. È il deserto, infatti, che impone all’uomo di guardarsi dentro, di accogliere le proprie fragilità, riconoscendosi incapace di camminare nella via che il Signore traccia, senza che dall’Alto gli venga l’aiuto, da accogliere con totale umiltà. La solitudine è l’antidoto all’alienazione che ciascuno vive, alle illusioni che abitano il cuore e la mente nostra. Il silenzio, come il mutismo di Zaccaria, è condizione per rientrare in se stessi, ascoltarsi e discernere le voci interiori, da dove vengono, cosa ci propongono e dove ci conducono. Quando intorno a noi c’è silenzio, proprio allora avvertiamo che nel nostro cuore c’è la guerra dei pensieri e dei desideri, delle speranze e dei sogni. Nel deserto ogni uomo è chiamato a gettare le maschere e guardarsi in verità, a spogliarsi di tutto per camminare spedito, perché le corazze che usiamo per difenderci, molto spesso ci nascondono a noi stessi e ci impediscono di essere veri, di non aver paura di farci vedere fragili e bisognosi di tutto. È un cammino di riconciliazione quello che attende ogni uomo, di pacificazione con se stessi e con la propria storia, accogliendo i fallimenti che hanno scandito il passato, senza che questi pregiudichino il futuro, come una tara che pesa sul cuore, impedendogli di vivere libero e di sognare il vero ed il bene. Il deserto, con la solitudine e il silenzio, è il luogo nel quale riconosciamo i nostri veri nemici e impariamo a combatterli, anche candendo, perché si impara ad essere liberi, si impara a combattere il male, si impara a vincere le tentazioni con la forza di Dio, si impara a non lasciarsi dominare dalle passioni. Una legge si impone all’uomo sempre, quella della disciplina interiore, perché senza ascesi, senza esercizio continuo, impegno costante, mosso dall’amore e dalla volontà di corrispondere al meglio ai doni che il Signore ci ha dato, non giungeremo alla gioia. La liberazione è sì dono di Dio, ma richiede da parte nostra l’accoglienza e il desiderio di rimuovere ogni ostacolo che potrebbe farci ricadere nelle maglie del male. Non è difficile liberarsi dalle schiavitù, quanto, invece, non ricadere nel male che credevamo lontano.

Gesù condivide il cammino di ogni uomo, anche in questo dimostra la dinamica del suo incarnarsi, della solidarietà che vive con noi. Tutto assume della nostra esistenza creaturale, nell’unico desiderio di orientare al Padre ogni cosa, diversamente da quello che avvenne in un altro deserto che Dio creatore aveva reso un giardino, l’Eden. Dobbiamo anche noi imparare ad entrare nel deserto, a guardare in faccia la nostra debolezza, a non temere dei nostri limiti, a gettare le maschere delle nostre finzioni che impediscono rapporti veri, relazioni sincere. Abbiamo bisogno di lasciarci guidare nella solitudine, senza avere paura del silenzio. Non sappiamo più vivere come una grazia queste realtà che rifuggiamo, incapaci di stare con noi stessi e di ascoltare il nostro cuore, i moti segreti che nel frastuono non si possono percepire. In quaresima dobbiamo rieducarci al silenzio, facendo digiuno delle nostre parole e far così posto alla Parola di Dio che, unica, nutre e sostiene il nostro cammino. Forse un po’ di digiuno da cellulari e smartphone, social e piattaforme digitali non guasterà per dare più spazio a Dio e a noi stessi, alle nostre famiglie e a quei desideri che sono nascosti nei nostri cassetti e che attendono di essere realizzati.

Rimanere nel deserto

Le tappe che Cristo vive nel deserto – l’Evangelista le indica bene – sono essenziali anche per il cammino della nostra Quaresima, parabola dell’itinerario di sequela che deve scandire la vita. In primo luogo, il Signore gode della presenza e della guida dello Spirito (“subito lo Spirito lo sospinse nel deserto” v. 12); in seguito notiamo la sua prolungata permanenza nella solitudine (“nel deserto rimase quaranta giorno” v. 12); in ultimo, Marco presenta cosa accade in quel luogo tutt’altro che ameno – per noi, ma non per Gesù e per coloro che sposano il deserto come luogo dell’intimità e della compagnia del Paraclito – dove il demonio tenta Cristo (“tentato da Satana” v. 13). Si tratta di passaggi conseguenziali che culminano nella descrizione finale “Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano” (v. 13) che caratterizza Gesù come l’uomo nuovo, che riallaccia l’amicizia con Dio distrutta dalla disubbidienza del primo uomo, Adamo.

È lo Spirito a condurre Cristo nel deserto, Lui a muoverlo interiormente, determinato con confronto all’ultimo colpo con l’umanità assunta nel grembo della Vergine Maria. Non siamo dinanzi ad un fatto sensazionale, ad una voce palesemente ascoltata come esterna – si pensi al battesimo (cf. Mc 1,10) – in una vita ordinaria che riceve una diversa indicazione, rispetto a quella che si sta portando avanti. Lo Spirito è la compagnia che Gesù vive da sempre, nel battesimo il suo dono è stato effuso in vista della sua missione, ma Egli vive sotto la potenza dello Spirito del Padre da quanto si è incarnato, divenendo nostro fratello e redentore. Dire che lo Spirito muove interiormente Gesù, significa non aspettarsi rivelazioni straordinarie, manifestazioni simili a quelle del Sinai nella vita di Gesù. Non che queste non ci siano – si pensi alla trasfigurazione, cf. Mc 9,2 – ma ordinariamente il discernimento viene portato avanti da Gesù sentendosi abitato dallo Spirito del Padre, sospinto dal suo soffio, animato dalla sua forza. Lo Spirito non è esterno a Gesù, ma nel suo cuore, nelle profondità del suo essere, perché è Lui che, nella Trinità, unisce il Padre al Figlio ed è sempre lo Spirito che lega il Figlio incarnato al Padre, muovendolo a nutrire questo rapporto e a manifestarla con l’obbedienza, cercando il suo diletto e la sua gioia. Sempre lo Spirito-amore è il dolce legame che unisce il Salvatore agli uomini, che nell’amore vengono salvati perché diventino nuove creature, chiamati a vivere dell’amore che il Signore continuamente effonde in loro perché ne diventino testimone tra gli uomini. Il Padre parla al Figlio attraverso gli eventi della sua vita e nel suo cuore echeggia la voce dello Spirito che istruisce nel bene, guida nel cammino e rafforza nelle opere intraprese. Dobbiamo anche noi vivere l’ordinarietà di una presenza dello Spirito che parla nel silenzio e muove i nostri passi, solo se percepiamo la sua voce e diamo spazio a Lui. Rifuggiamo il sensazionale, abbandoniamo la pretesa di segni miracolosi e lasciamo che l’ordinario divenga straordinaria con lo sguardo di fede che Gesù richiede ad ogni discepolo.

Come sento la presenza e l’azione dello Spirito in me e negli altri? Mi lascio guidare dalle voci del cuore, cercando sempre di provarle, senza assecondarle subito, in un continuo discernimento del bene secondo Dio? Il Paraclito è il dono del Battesimo: lo penso durante la mia giornata, ne ringrazio il Padre, vivo nella certezza di non essere mai solo?

Gesù rimane nel deserto quaranta giorni: il riferimento ai quarant’anni del popolo nel deserto è lampante e rappresenta l’orizzonte dell’esperienza che Gesù vive. È come se Marco dicesse, Gesù entra nell’agone della prova come il popolo d’Israele, non si risparmia nulla di ciò che l’umanità vive, anche la prova assume, anche la tentazione vive, senza paura, confidando nella potenza dello Spirito che lo muove. Ciò che subito salta all’occhio è l’insistenza dell’Evangelista sul termine deserto – “lo sospese nel deserto e nel deserto rimase” – mostrando come si tratti di un tempo vissuto in un luogo nel quale Dio è nutrimento e parola, sostegno e forza, compagnia ed amicizia. Noi scappiamo dinanzi alla difficoltà. Cristo, invece, rimane, assume la prova, non fugge, ma affronta con determinazione ciò che lo Spirito gli propone. Dobbiamo chiedere a Gesù il dono della perseveranza nelle scelte, della pazienza nelle prove, della serenità nella difficoltà, della consapevolezza della presenza di Dio quando ci sentiamo soli, abbandonati da tutti, scacciati dal cuore delle persone che ci sono accanto. La fedeltà sposa il deserto come il luogo dell’alleanza che ha bisogno di nulla, l’amore accoglie la solitudine imposta e la sceglie, l’affetto assume il silenzio come il tempo per riqualificare le proprie scelte e rafforzare la volontà. Guardando a Gesù, nella preghiera di questo tempo santo, dobbiamo imparare a stare nelle situazioni, nei deserti esistenziali, nelle solitudini dei rapporti che sono bloccati dai preconcetti, nella difficoltà di relazioni che sono al bivio, ma che è possibile recuperare con la volontà plasmata dalla grazia di Dio. Il Signore abita il nostro deserto, Lui sostiene la nostra prova, non ci abbandona. Come Gesù non è solo, così anche noi dobbiamo avvertire che, pur non vedendolo, Dio ci guida e sostiene e vuole il nostro bene sempre. Il deserto serve perché noi ci abbandoniamo totalmente a Lui, confidando nella sua grazia e nella forza che mai viene meno.

Quaranta è un numero simbolico, indica il tempo della prova e della tentazione: riesco a vivere i miei quaranta giorni, nella confidenza nell’amicizia di Dio, Creatore Padre? Riesco a rimanere nelle difficoltà oppure scappo e nella fuga credo di avere ragione? Mi fido di Dio e sento la sua presenza, sperando contro ogni speranza, come Abramo? La preghiera è la lampada che alimenta la mia veglia e la mia attesa della liberazione che può venire solo da Dio? Quali le difficoltà che a livello di coppia e di famiglia il Signore ci chiede di vivere con fede ed abbandono in Lui?

Il terzo passaggio che Marco presenta è la tentazione. L’Evangelista non specifica di che tipo di prova si tratta, ma ci presenta Satana come l’origine di ogni male che abita il cuore e cerca di destabilizzarlo dalla ricerca autentica del bene. Ma cosa vuole il demonio da Gesù, cosa cerca in noi il Nemico? La risposta è nel suo stesso nome: vuol dividerci da Dio, dalla realizzazione del suo progetto. Egli non sopporta che la pienezza divina trasbordi dalla vita e dal cuore dei figli della luce e cerca in ogni modo di intervenire per deviare dalla strada maestra quanti operano il bene. Egli è il nostro avversario, si fa credere amico, ma ricerca solo la nostra rovina. La tentazione – sembra dirci – è un dato di fatto, nessuno ne è escluso, neppure il Figlio di Dio fatto uomo. Ma la tentazione è il momento in cui noi dimostriamo chi siamo, la nostra capacità di far agire in noi lo Spirito, fidandoci della sua forza, mia di noi. Abituati a seguire Dio quando tutto va bene, ci allontaniamo dal Signore durante le difficoltà, quando invece dovremo, proprio nella prova, legarmi maggiormente al Signore.
Non dobbiamo mai scoraggiarci nella tentazione e credere che non stiamo camminando secondo Dio, se il Nemico ci seduce e cerca di farci cadere. È falsa l’idea – scrive san Massimiliano Maria Kolbe – che i santi non siano stati simili a noi. Anch’essi erano soggetti alle tentazioni, anch’essi cadevano e si rialzavano, anch’essi si sentivano oppressi dalla tristezza, indeboliti e paralizzati dallo scoraggiamento. Tuttavia, memori delle parole del Salvatore: «Senza di me non potete far nulla” [Gv 15,5], e di quelle di san Paolo: “Tutto posso in colui che mi dà forza” [Fil 4,13], non confidavano in se stessi, ma, ponendo tutta la loro fiducia in Dio, dopo ogni caduta si umiliavano, si pentivano sinceramente, purificavano l’anima nel sacramento della penitenza e poi si mettevano all’opera con un fervore ancora maggiore.
Dio ci sostiene nella prova, sempre ci è accanto. Possiamo anche cadere nella tentazione, mai però disperare della salvezza. Ci si rialza e si ricomincia il cammino, perché nulla è perduto per coloro che confidano in Dio. Il limite al mistero del male – insegna san Giovanni Paolo II – è la misericordia divina. La santità non è la perfezione morale, frutto del proprio impegno, né il credersi ineccepibili – come il fariseo al tempio – ma il fare spazio in noi alla potenza di Dio che è amore.

Come vivo i momenti di prova? Avverto la tentazione e la riconosco quando si presenta oppure faccio finta di niente? Riconosco che la persona che mi è accanto sta assecondando la voce del Nemico ed intervengo con determinazione per redarguirlo? Educhiamo i nostri figli a saper riconoscere la voce di Dio e a fuggire le istigazioni del maligno? Preghiamo perché il male non vinca in noi e nei nostri rapporti?

La quiete dopo la tempesta

La scena finale, così descritta “Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano” (v. 13), mostra l’armonia e la comunione che Gesù vive, superata la prova. Cristo è il vittorioso, così viene presentato. Le fiere non gli fanno alcun male, perché Egli è l’uomo riconciliato con la creazione, che vive la bellezza della comunione con se stesso, con Dio, attraverso lo Spirito, e con l’intero creato. Gli angeli che lo servono indicano come il Cielo sia sceso in terra perché è Dio il premio delle nostre fatiche.
Siamo solo all’inizio del cammino quaresimale e la Chiesa ci propone senza mezze misure di guardare a Gesù per imparare a considerare la lotta realtà permanete della vita cristiana. Bisogna combattere ogni giorno contro le potenze delle tenebre e percorrere la via ardua della sequela di Cristo con perseveranza, vegliando perché il sonno dell’oblio non ci sorprenda. Non è semplice combattere, ma “noi siamo più che vincitori per virtù di Colui che ci ha amati” (cf. Rm 8,37). Dio ci è accanto e, senza saperlo, nelle nostre famiglie sperimentiamo una marcia in più nel cammino arduo della vita: al nostro fianco c’è la persona che ci ama e che amiamo, colei/colui che è il segno tangibile del Dio che ama e lotta con me, virgulti intorno alla nostra mensa sono i figli che ci ricordano come l’amore, non l’egoismo genera la vita e vince le tenebre. Al pari di Cristo, anche noi, corazzati dalla grazia, combattiamo contro le potenze del male sapendo che nulla e nessuno “potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù” (Rm 8,39).




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