Ascensione del Signore - Anno B

Dalla mano di Cristo a quella degli Undici

di fra Vincenzo Ippolito

Imparare a guardarsi con stupore, sentire su di noi l’unzione di Cristo, accogliere la sfida ad annunciare il Vangelo, con segni che mostrano l’onnipotenza del suo amore: è questa la vita degli Undici da ora in avanti. L’avventura della missione attende anche noi, se abbiamo fede in Gesù, ricambiando la sua fiducia.

Dal Vangelo secondo Marco (16,15-20)
In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».
Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.

 

È asceso al cielo e siede alla destra del Padre”: queste parole che ripetiamo ogni domenica nella professione di fede, ci ricordano il mistero che la liturgia oggi ci fa rivivere nei segni sacramentali: il Signore Gesù Cristo, dopo quaranta giorni dalla Pasqua, ritorna nell’abbraccio del Padre con il suo corpo glorioso, passato attraverso la morte. Se durante queste settimane ci siamo allenati a riconoscere nel Risorto il Maestro di Nazaret, con la celebrazione odierna ci viene chiesto un passo in avanti: vederlo salire al cielo ed assumerci la responsabilità di continuare la sua missione, con la forza dello Spirito Santo. La liturgia orienta il nostro sguardo in questa direzione.
L’inizio del Libro degli Atti degli Apostoli (1,1-11), proposto come Prima Lettura, descrive proprio la scena dell’ascensione del Signore, facendola precedere dal dialogo con i discepoli, invitati da due angeli a non fermare lo sguardo a Gesù, ma ad attenderne il ritorno, alla fine dei tempi. Con la Seconda Lettura, tratta dall’Epistola agli Efesini (4,1-13), invece, l’accento è posto sull’impegno che ogni cristiano deve vivere, mettendo a frutto i doni dispensati in abbondanza dal Cristo che ascende alla destra del Padre, per costruire l’unità del suo corpo che è la Chiesa. Nel Vangelo (cf. Mc 16,15-20), infine, ascoltiamo il racconto della missione che il Risorto affida ai suoi, prima di ascendere in cielo. Gesù e noi: sono questi i perni della riflessione odierna. La liturgia, infatti, ci porta a comprendere che siamo noi la presenza del Signore oggi nel mondo, noi dobbiamo continuare la missione di Gesù nella storia, forti dello Spirito che interiormente ci abita, sostiene e muove all’evangelizzazione e alla testimonianza.

Dio ha fiducia in noi, sempre

La mensa della Parola ci offre come pane del nostro cammino settimanale gli ultimi sei versetti del Vangelo secondo Marco. Dopo le domeniche del Tempo di Pasqua, in cui abbiamo letto il Vangelo secondo Giovanni, la narrazione marciana ci appare scarna ed essenziale, ma non per questo meno ricca di sollecitazioni. Un solo versetto (16,19) ci presenta l’ascesa al cielo di Gesù, mentre l’attenzione dell’Evangelista è polarizzata sulla missione di annunciare il Vangelo e di battezzare i credenti affidata dal Risorto agli Undici (16,15-16). Altrettanta enfasi è poi dedicata ai segni che accompagnano gli evangelizzatori (16,17-18), prova della Presenza dello Spirito del Signore in mezzo ai suoi. I Vangeli sono, infatti, interessati non tanto al fatto dell’Ascensione del Signore al cielo – la descrizione più curata l’abbiamo nella Prima Lettura – quanto, invece, all’impegno degli apostoli perché la parola di Gesù raggiunga, come seme di salvezza e di vita nuova, gli estremi confini della terra.
Leggendo la pericope liturgica, ci accorgiamo che ci vengono descritte tre differenti scene, dopo l’apparizione del Risorto alla Maddalena (15,9-11) e a due discepoli in cammino verso la campagna (15,12): la prima (16,14-18), in parte omessa dalla lettura odierna (16,15-20), descrive il Signore che si mostra risorto alla comunità riunita a mensa, rimproverando i suoi “perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risorto” (15,14); nella seconda Cristo ascende al cielo, dove siede alla destra del Padre (16,19); nell’ultima l’Evangelista narra la predicazione degli apostoli, in obbedienza al comando ricevuto da Gesù (16,20).
Il contesto prossimo del nostro brano stupisce non poco. Vi è, infatti, una stridente contraddizione tra il Gesù che rimprovera gli Undici per la loro incredulità e il suo inviare gli apostoli ad annunciare il Vangelo e a battezzare le genti. Questo perché noi, leggendo la Scrittura, partiamo dalle nostre categorie mentali, senza calarci nell’intenzione che spinge Cristo a parlare ed agire, secondo la potenza dell’amore misericordioso che sempre lo guida. Il Maestro, infatti, non ha paura dell’incredulità dei suoi ed il suo vedere la loro immaturità non è un motivo sufficiente per non dare loro fiducia. Ecco perché li manda nel mondo ad essere annunciatori della lieta Novella, banditori della sua Parola di salvezza per ogni creatura. È questa la potenza dell’amore, la grazia della misericordia, donare opportunità nuove, occasioni di fiducia per riscattarsi dinanzi a se stessi, senza vivere ripiegati sui propri errori. Anche il rimprovero non serve per umiliarli e sottolineare le loro incapacità o i fallimenti del cammino di sequela, ma rappresenta un’occasione per divenire consapevoli degli errori commessi e per imparare dalle cadute, traendone sempre un insegnamento. Il rimprovero del Risorto è correzione, perché Egli ci ammonisce per rinfrancare le mani cadenti e le ginocchia infiacchite, perché il piede zoppicante non abbia a storpiarsi, ma a guarire (Eb 12,12-13).
Dio ci rimprovera perché ci ama. La sua pedagogia, diversamente da quella umana, usa la forza della misericordia, la determinazione della tenerezza, la volontà della pazienza. Cristo non grida l’errore e l’offesa, ma l’amore che nutre per il reo; non impone la pena, ma offre egli stesso l’ammenda, come il buon Samaritano che paga il dovuto al locandiere perché l’uomo incappato nei briganti ritrovi la salute; non ama il rimprovero, ma ammonisce con la dolcezza di una madre e la fermezza di un padre; non usa la violenza per ridurre all’obbedienza, ma la forza dell’amore che genera nel cuore il desiderio della conversione. Noi, dopo un rimprovero fatto con asprezza, mettiamo in quarantena i nostri rapporti, aspettando che il reo si converta e dimostri segni di pentimento. Invece Dio non si comporta così! Egli sa che l’unica strada perché il peccatore si converta è il perdono, l’unica pedagogia da attuare perché si riconosca il proprio errore è la misericordia. Solo se l’evangelizzatore è lui per primo un peccatore perdonato potrà non solo annunciare con le parole, ma proclamare con la vita il primato della Pasqua di Gesù, solo se il discepolo sperimenta ogni giorno la potenza del perdono di Dio che lo strappa dalle tenebre dell’incredulità e dalla durezza di cuore potrà non giudicare gli altri a cui è inviato, ma essere segno del Pastore bello a cui stanno a cuore le pecore perdute. Dio con l’uomo gioca sempre a perdere. Egli, infatti, non sceglie i buoni, né predilige i perfetti – ammesso che ce ne siano – perché il medico non è venuto per i sani, ma per i malati. Gesù affida la sua Parola ai deboli e ai poveri perché “appaia che questa potenza straordinaria – scriverà Paolo ai Corinzi – viene da Dio e non da noi” (2Cor 4,7). I discepoli sono costituiti ambasciatori del Vangelo per la grazia di Dio – “per la grazia di Dio sono quello che sono” (1Cor 15,10) – come il mattino di Pasqua, per la libera scelta del Risorto, il messaggio della Vita nuova è affidato a delle donne. La parola del Signore ha in sé la potenza di cambiare la vita degli uomini, di chi la annuncia e di chi la riceve perché tutti siamo sotto la Parola di Dio che ci rende creature nuove in Cristo Gesù. E più i discepoli sono poveri ed umili, più vengono colmati dei doni della grazia.

Un amore che ci sovrasta

Due sono i gesti della fiducia che Cristo accorda ai discepoli: affidare la sua missione di predicare il Vangelo (vv. 15-16) e consegnare loro i segni che hanno caratterizzato il suo ministero pubblico (vv. 17-18). Gli Undici devono così continuare l’evangelizzazione che Cristo ha iniziato in Galilea (cf. Mc 1,15), manifestando la sua potenza di guarigione e la sua vittoria sul male. Si tratta di un passaggio di testimone da Gesù ai discepoli, che comporta da parte loro responsabilità e totale disponibilità alla causa del Regno. Dalla bocca di Cristo a quella dei discepoli, dalla mano del Signore a quella degli Undici. La Chiesa è il perpetuarsi nella storia della presenza del Signore risorto e come Gesù riceve dal Padre la parola da spezzare alle folle, così gli apostoli accolgono dal Signore l’insegnamento da far giungere a tutte le genti. La fiducia di Gesù nei riguardi degli uomini non è fatta di parole, ma si traduce in fatti, è concreto il suo amore, tangibile il suo affidarsi a noi. Per la misericordia che Egli nutre, il nostro errore non esiste, è stato gettato in fondo al mare (cf. Mt 7,19) e siamo rimessi sulla strada della sequela che non comporta il ritornare lì dove avevamo lasciato il Maestro, ma nella condizione nuova che il Risorto ci affida. Quando sbagliamo e chiediamo il perdono del Signore, il cuore di Dio ci usa il suo amore, ma, perdonandoci, non solo condona le nostre colpe, ma ci dona una nuova identità, una missione nuova. Non capitò così al figlio minore (cf. Lc 15,20-24) che, volendo chiedere al padre di essere trattato come uno dei suoi, si trovò non solo reintegrato nella dignità filiale, con l’esperienza del suo abbraccio, ma festeggiato come un banchetto che mostra un amore che non misura i meriti, ma si dona gratuitamente? Se abbiamo sperimentato un amore più grande che ha lavato le nostre colpe, siamo chiamati a rispondere donandolo agli altri un amore più grande. È questa la radice della missione che essi ricevono dal Risorto. Nel momento in cui Dio mi perdona, si fa conoscere come amore in abbondanza e mi chiede di non tenere per me la misericordia sperimentata, ma di metterla in circolo, parlando di Lui e testimoniando la sua potenza e che mi abita e passa attraverso di me.
L’amore di Dio si traduce in fiducia e questa diviene forza per donarsi totalmente a noi, partecipandoci la sua vita, affidandoci la sua stessa missione, la sua parola che ricrea, la forza del suo Spirito che sbaraglia il male. Cristo vuole avere bisogno di noi per continuare ad infiammare il mondo dell’incendio di carità che consuma il suo cuore, attraverso la nostra vita vuol attrarre i lontani ed essere per tutti il Signore risorto che anima la storia e la orienta ad un fine di gioia. Dobbiamo credere nella missione che abbiamo ricevuto da Cristo, perché vera è la sua parola e non ci inganna, come dobbiamo confidare nella forza che abita la nostra vita, perché la grazia di Cristo è in noi, la sua invincibile forza dimora nelle nostre membra. Dobbiamo imparare a guardarci con stupore e a riconoscere che partecipiamo dell’unzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo che attraverso di noi vuole spargere il suo profumo nel mondo. Difatti, i segni che Gesù affida ai discepoli sono la prova che in essi è l’onnipotenza dell’amore di Dio ad agire, non la capacità umana. Investiti da Cristo Signore, gli Undici continuano la sua missione come Lui l’ha compiuta nei suoi tre anni di vita pubblica perché “chi ascolta voi, ascolta me, chi accoglie voi, accoglie me” e così i segni che hanno accompagnato la predicazione di Gesù, accompagnano anche l’annuncio della Chiesa perché ogni uomo possa sperimentare la salvezza e vivere nella pace.

Una fiducia che diventa dono

L’evangelista Marco sottolinea come, prima di ascendere al cielo, Gesù, oltre ad inviare nel mondo gli Undici per continuare la sua missione, chieda loro al tempo stesso di compiere un vero cammino di fede. Ogni evangelizzatore è chiamato a rispondere a Dio personalmente, con la propria accoglienza e a fidarci di Lui che sempre ci viene incontro. Dio si rivela, ma noi dobbiamo fargli spazio nella mente, nel cuore e nella vita. Lo spazio che Dio ci chiede è la fede, coma capacità di vivere con Lui ogni situazione della vita, di tenere in debito conto la sua Parola, di fidarci della sua azione e di lasciarlo operare in noi e, attraverso di noi, nella vita degli altri. Non si può annunciare il Vangelo senza essere uomini e donne di fede, non si può chiedere che la vita cambi, senza avere la fede in Gesù capace di spostare le montagne. Indirettamente l’Evangelista sta dicendo che chi annuncia il Vangelo deve credere nella sua azione e lasciarsi plasmare dalla sua grazia. “Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono” (v. 17). La vita del missionario è un’esistenza consegnata a Dio per fede, perché Egli vi operi meraviglie. Solo chi ha fede, può annunciare la presenza del Regno, in caso contrario, la parola non incide nella vita e l’annuncio non porta Dio e la grazia della sua presenza che è per tutti salvezza.
Bisogna credere che Dio abita la nostra povertà e la trasforma in ricchezza per gli altri! Dobbiamo credere che la potenza del Risorto è con noi ed opera dentro di noi! Dobbiamo credere che tra marito e moglie è possibile, nel nome di Gesù, scacciare i demoni, ovvero la presenza del Nemico che semina la divisione e porta la tristezza nel rapporto. Dobbiamo credere che siamo capaci di parlare lingue nuove, ovvero di vincere il mutismo e la paura perché abilitati dal Risorto ad essere messaggeri di pace nelle situazioni più disparate della vita. Non c’è, infatti, occasione nella quale sentirsi vinti dall’incapacità di comunicare e dialogare perché la nostra vita e la vita dell’altro riacquisti i colori di Dio. È necessario credere che possiamo prendere tra le mani i serpenti, ovvero i problemi più scottanti e difficili, senza il timore di essere morsi perché il Risorto è con noi, la sua grazia ci accompagna, il suo amore ci sostiene. È bene ripetere spesso nelle nostre famiglie, tra marito e moglie, dando speranza ai figli: “Tutto possiamo in colui che ci dà forza” perché nulla è impossibile a Dio in noi. Non bisogna aver paura di nulla, perché “chi confida nel Signore è come il monte Sion, non vacilla, è stabile per sempre” (Salmo 124,1). Dobbiamo credere che la fede in Gesù vince in noi ogni tipo di veleno e guarisce ogni malattia ed infermità.
Noi, discepoli del Risorto, abbiamo i sentimenti di Gesù (cf. Fil 2,5), il pensiero di Gesù, le azioni di Gesù. Non tiriamoci indietro dinanzi al nostro impegno di predicare il Vangelo e di manifestare nella vita la potenza che abita il nostro debole cuore. Nelle nostre famiglie e comunità, nelle nostre parrocchie e gruppi, il Vangelo non dobbiamo solo ascoltarlo, ma farlo vedere, l’amore di Cristo che ci spinge dobbiamo rivelarlo attraverso una vita che è trasparenza di Dio. La moglie può e deve attendere dal marito i segni del Risorto perché egli è per lei il primo educatore nella fede, così come il marito deve aspettarsi che la vita della sua sposa sia rivelazione di Dio per lui. I figli poi devono vedere nei genitori i segni concreti della potenza del Signore che libera e salva, guarisce e scaccia il male, sostiene e spinge a credere nel futuro con speranza.

È questo il senso della solennità odierna. Gesù asceso al cielo – è la seconda scena proposta dall’evangelista in Mc 15,19 – responsabilizza i discepoli. Non possiamo stare con il naso al cielo – è questo anche il monito di san Luca negli Atti degli Apostoli – aspettandoci che sia Dio ad intervenire per cambiare le sorti della storia. Gesù ha fatto la sua parte, ora siamo noi che dobbiamo compiere la nostra missione che è continuazione della sua, grazie alla potenza del suo Spirito di vita che abita in noi. Non è questo il tempo di cullarci sugli allori. Gesù è ritornato alla destra del Padre suo e nostro ed è andato a prepararci un posto nel suo Cuore, ma a noi spetta l’impegno primario perché il Vangelo sia annunciato come ha fatto Gesù, vivendo la sua Pasqua nella nostra pasqua, unendo la nostra passione alla sua perché “tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità” (1Tm 2,5). La nostra presenza nella storia deve portarci ad essere lievito, sale e luce del mondo. Dobbiamo riscoprire il nostro impegno fattivo perché il Vangelo sia annunciato ad ogni creatura. La famiglia deve vivere con consapevolezza la propria missione evangelizzatrice, senza demandare ad altri il suo ruolo primario di laboratorio di fede, fucina di educazione all’amore maturo, casa del dialogo e della mutua relazione nel dono. Gesù ritorna alla destra del Padre, mostrando come il piano della salvezza sia stato compiuto in perfetta unione tra le Tre persone divine, lo stesso deve capitare anche per noi. È necessario programmare con Dio e tra noi la nostra vita, aperti alle mozioni dello Spirito. Non siamo delle monadi e non viviamo insieme per convenienza. La famiglia, prima cellula della Chiesa e della società, è il progetto che ha guidato la mano di Dio nella Creazione. Fare le cose insieme sempre è l’impegno che deve sostenerci e motivare la nostra azione. Per il marito fare una cosa, persino pensarla, senza la propria sposa, senza sentire il suo parere, ascoltare la sua idea, senza sentire la necessità di farlo, e viceversa è agire senza tener conto della grazia del sacramento nuziale, è quasi rendere nullo il dono ricevuto!

Accompagnati da Cristo nella nostra quotidiana missione

L’ultima scena che chiude il Vangelo secondo Marco (16,20), ci dona un’immagine di Chiesa che è presenza di Cristo nella storia, una comunità di frontiera che non vive nel chiuso, ma che tra gli uomini, fedele alla parola del Maestro, sperimenta la sua presenza e la sua grazia. I discepoli “partono e annunciano dappertutto”, mentre Gesù “accompagna e conferma con segni”. Esiste una sinergia straordinaria tra noi e Dio quando mettiamo la nostra vita al servizio del suo Regno, del Vangelo della vita e della carità, del servizio e della pace. Egli ha promesso di rimanere sempre con noi (cf. Mt 28,20). La sua presenza è fattiva, la sua compagnia tangibile, la sua grazia dilagante nel bene. Anche qui il salto da fare è di fede perché nelle nostre famiglie dobbiamo lasciarci stupire da Dio. Noi dobbiamo, infatti, partire sempre. La vita cristiana è una esistenza permanentemente in movimento, in uscita da sé stessi per incontrare l’altro. Non possiamo stare fermi, perché la nostra testimonianza deve raggiungere i lontani passando per la vita dei vicini. Dappertutto dobbiamo giungere con le parole e le opere, ma il dappertutto riguarda prima di tutto la vita della persona che si ama. Dio attraverso di me giunge all’altro dappertutto nella sua mente, illuminando i suoi pensieri, dappertutto nelle sue parole, attraverso un dialogo costruttivo che condisce di mutua ricerca di bene il nostro rapporto, dappertutto nei suoi occhi, perché in essi io riesco a leggere i desideri e i sogni del cuore, dappertutto nel corpo dell’altro perché nel mio abbraccio raccolgo la vita di chi amo con il trasporto del mio animo. Solo così si è una carne sola, unita dalla grazia di Cristo, santificata dalla sua presenza. Solo così la nostra famiglia è costruita sulla roccia della sua croce risorta.
Sentiamoci accompagnati da Gesù che, seduto alla destra del Padre, parla a Lui di noi e delle necessità delle nostre famiglie. Il suo Spirito – da invocare durante questa settimana in attesa della Pentecoste – apra i nostri occhi perché i segni della sua presenza nutrano in noi la speranza di una vita nuova.




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stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

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