XXXI Domenica del Tempo Ordinario - Anno B - 4 novembre 2018

Una parola che attende una risposta

di fra Vincenzo Ippolito

Non bisogna confrontarsi con la parola amore, ma con la vita di Gesù Cristo che è amore per essenza, così da fare un esame di coscienza sulla totalità del dono di noi stessi. Per vivere d’amore, è necessario sperimentarlo.

Dal Vangelo secondo Marco (12,28b-34)
Amerai il Signore tuo Dio. Amerai il prossimo tuo
In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».
Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

 

Dopo la guarigione del cieco di Gerico – Vangelo della scorsa domenica, cf. Mc 10,46-52 – la liturgia odierna, saltando l’intero capitolo undicesimo, ci presenta il dialogo di Gesù con uno scriba, sul comandamento più importante della Thorà. È l’amore – questo dice il Nazareno – il “pieno compimento della legge” (Rm 13,10), il senso vero di ogni parola rivolta da Dio al suo popolo, per vivere nella gioia e sperimentare l’alleanza con Lui. Proprio questa via amoris, che condurrà Cristo al sacrificio della croce, è donata a quell’uomo, assetato di gioia vera e duratura, spaesato dalle tante prescrizioni, in cui la tradizione d’Israele, faceva consistere la relazione con Dio.
Lo sfondo antico testamentario della pericope evangelica odierna è costituito dalla Prima Lettura, tratta dal libro del Deuteronomio (6,2-6). I pochi versetti che ci vengono offerti sono lo Shemà Israel – Ascolta Israele, Dt 6,3 – così è definito questo brano, dalle prime parole del testo ebraico. Cuore della preghiera quotidiana del pio israelita, lo Shemà è la strada maestra che Mosè indica al popolo d’Israele per vivere nell’obbedienza a Dio. La Seconda Lettura (cf. Eb 7,23-28), invece, mostra che tutto è realizzato nel sacerdozio di Cristo. È Lui, infatti, l’unico mediatore, il pontefice vero tra noi e Dio, il sommo sacerdote di cui avevamo veramente bisogno.
In ascolto di Dio (Prima Lettura), che ci parla nella vita di Cristo (Vangelo) apprendiamo da Lui, sacerdote e vittima (Seconda Lettura), che l’amore vero si traduce in offerta di se stessi, per il bene degli altri. È questa la sintesi a cui la liturgia ci vuole condurre, per rendere la nostra vita un servizio d’amore ai fratelli.

Il desiderio di voler capire

Lo scenario del brano evangelico odierno è Gerusalemme. Gesù è entrato nella città santa (cf. Mc 11,1-11), accolto dalle folle osannanti e ora si intrattiene nel tempio, disputando con i suoi rivali. Il Signore non evita il confronto con coloro che già stanno tramando per metterlo a morte, cercando di usare gli ultimi momenti della sua vita, per cercare di ricondurre all’ovile quelle pecore, che credono di non essere disperse. Le controversie che gli Evangelisti ci narrano, a ridosso dei racconti della Pasqua, partono da una domanda, secondo il metodo dei rabbini, al tempo di Gesù. Il Maestro, da parte sua, risponde con l’autorevolezza e la sapienza che sempre lo contraddistingue e, come un giorno con i dottori del tempio, quando era dodicenne (cf. Lc 2,47), spinge gli astanti allo stupore, mettendoli in difficoltà e smascherando la loro segreta intenzione di metterlo alla prova.
Anche la narrazione evangelica odierna inizia con una domanda. Si tratta della quarta conversazione – la prima è con i capi dei sacerdoti, sull’autorità di Gesù (cf. Mc 11,27-33); la seconda con alcuni farisei ed erodiani, sul tributo a Cesare (cf. Mc 12,13-17); la terza con i sadducei, sulla resurrezione dei morti (cf. Mc 12,18-27) – ma questa volta, è uno scriba “che li aveva uditi discutere [Gesù e i sadducei] e,visto come aveva ben risposto loro” (Mc 12,28), si avvicina a Gesù per fare la sua domanda. In lui non c’è l’intenzione di mettere alla prova il Rabbì di Nazaret o anche di provare l’inadeguatezza del suo insegnamento, rispetto ai detentori della tradizione d’Israele. A differenza di Matteo (22,24) e di Luca (10,25) che presentano un dottore della Legge, intenzionato a mettere alla prova Gesù, Marco sottolinea l’apertura del cuore e della mente di quest’uomo, che dimostra di non avere preconcetti, che inficiano il suo incontro con Cristo. Si tratta di un elemento significativo, se questi è l’unico a presentarsi al Signore, per ricevere la luce che il suo animo cerca, interloquendo con quell’Uomo, che in precedenza ha dimostrato padronanza nel rileggere la Legge per rispondere ai suoi interlocutori. Lo scriba si avvicina a Gesù perché vuol capire meglio la Legge. La legge, la studia, si confronta con gli altri che ne hanno fatto con lui e come lui il senso della propria osservanza, il motivo del proprio indefesso impegno, ma non gli basta. Alla ricerca non c’è mai fine. Bisogna solo avere il coraggio di confessare umilmente di non essere giunti, con le proprie forze, a qualcosa che possa donare al cuore la pace. Lo scriba del Vangelo non ha paura di Gesù e non teme di farsi vedere bisognoso, ma, dall’altro lato, non si preoccupa di un contesto che, in quanto ostile al Signore, lo diverrà anche per lui. Continuare a cercare, con la determinazione del cieco di Gerico (cf. Mc 10,48), vuol dire non lasciarsi portare da quello che potranno pensare e dire gli altri, significa procedere risoluti, non deviando mai dalle proprie decisioni e dai sogni che ci si porta nel cuore. Lo scriba sente in se stesso di dover chiedere a Gesù, quello che ha visto ed udito lo conferma nel proposito di rivolgersi al Maestro di Nazaret e lo spinge a presentare a Lui la sua domanda: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?” (v. 28). Anche noi, come lo scriba, siamo bersagliati da tante cose, viviamo la nostra esperienza cristiana, rendendo prescrizioni quello che il Signore vuole sia alleanza, comunione ed intimità. La nostra relazione con Dio e con i fratelli, spesso, risponde ad un impegno volontaristico, non sempre è vivificata dall’amore, dalla consapevolezza del dono di Dio, dalla gioia di testimoniare ai fratelli la bellezza dell’essere di Cristo e di appartenere alla sua famiglia, che è la Chiesa. Abbiamo sì bisogno di regole – la nostra libertà è stare nelle regole – ma l’assoluto è Dio solo ed il fine della nostra fede è la relazione con Lui. Spesso, invece, ci fermiamo alla legge e non sappiamo andare al di là. Ci perdiamo nei mille rivoli della casistica e non riusciamo a fare sintesi, andando al cuore della nostra vita di fede. Per questo abbiamo bisogno di Cristo.

In ogni dialogo è importante avvicinarsi all’altro, nella piena libertà di essere se stessi e di donare con semplicità la ricchezza, come anche i dubbi che si portano dentro. Bisogna bandire ogni tipo di preconcetto, il desiderio di voler dimostrarsi migliori e superiori all’atro rappresentano le pietre che impediscono al seme della relazione di crescere. Perché è così difficile farsi vedere deboli e fragili? Perché, nei nostri incontri, indossiamo una maschera, per nasconderci e non permettere all’altro di guardare nei nostri occhi il buio che ci consuma l’anima? Perché non abbiamo il coraggio di vivere l’avventura dell’incontro, ogni qualvolta vediamo che siamo dinanzi ad una persona che può esserci di aiuto, con la sua parola e la sua esperienza? Perché il parere degli altri ci fa tanta paura? Perché, spesso, lo sguardo delle persone che ci sono accanto ci raggela, impedendoci di rischiare? Perché ci sentiamo frenare nei nostri progetti da quello che altri potranno dire o anche solo pensare e far trapelare, attraverso i loro sguardi? Dobbiamo chiedere al Signore la grazia della libertà interiore, per non lasciarci mai bloccare nell’incontro con Lui. Dobbiamo procedere risoluti, determinati e, anche l’andare contro corrente, come lo scriba, non deve far sorgere in noi vergogna o quel senso di inadeguatezza che accompagna la novità che fa capolino in noi. Colui che ha insegnato “chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” (Lc 11,9) è sempre disposto a venirci incontro e a donarci quella parola, capace di rischiarare il buio del cuore. Più andiamo da Cristo e maggiore sarà la nostra capacità di fare sintesi, di far cadere le cose secondarie, la pula dei nostri discorsi, per conservare nel cuore il buon grano, che Dio non fa mai mancare alle nostre messi.

Ascoltarsi per sentire l’amore

Come appunta l’evangelista Marco, tra la domanda dello scriba e la risposta di Gesù non c’è interruzione. Il dialogo si costruisce con semplicità ed il confronto è subito costruttivo, perché il terreno del cuore è ben disposto ad accogliere la seminagione della Parola di Dio. Se il cuore non è docile alla voce dell’altro, ha forse senso parlare? Se la persona che mi sta dinanzi manifesta insofferenza e fastidio, pur avendo intavolato un discorso, a che serve lo scambio? Gesù si accorge che lo scriba è disponibile ad un colloquio fruttuoso. Come Nicodemo, andato da Gesù di notte (cf. Gv 3,2) con il cuore inquieto, così lo scriba si mette nelle mani di Cristo e si lascia illuminare da Lui. Quando il Signore vede in noi disponibilità e fiducia, quanto ci trova con lo sguardo rivolto a Lui, come i servi alla mano dei loro signori, come l’occhio della schiava alla mano della sua padrona, riversa in noi l’acqua del suo insegnamento e la potenza del suo amore. Sembra che il Maestro non abbia bisogno di riflettere sul quesito a Lui presentato, che non sia necessario ordinare i suoi pensieri, chiarirsi le idee per rispondere. Anche qui, a differenza di quanto Matteo e Luca scriveranno, Marco amplia la risposta del Cristo e fa iniziare la sua citazione da Dt 6,4, centrando nell’ascolto la nota dominate della vita di fede. “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore” (v. 29). Dire che tutto parte dalla capacità di ascoltare Dio, significa mostrare che l’identità del credente sta nel discepolato, nel rimanere sempre ai piedi del Signore, per attingere dalle sue labbra la dolcezza della sua dottrina e lasciarsi illuminare dalla luce della sua Parola che è lampada ai passi incerti dell’uomo. L’ascolto fa nascere la fede, come risposta a Dio che si rivela e ci parla, ma, al tempo stesso, nessuno può dire di non dover più ascoltare, perché la Paraola ci fa vivere, se noi ce ne nutriamo di essa continuamente. L’ascolto è una dimensione permanente della vita cristiana. Nessuno può dire di non dover più ascoltare o di sapere già tutto, perché è pura illusione credersi già arrivata, sulla via di Dio. È l’ascolto che crea la relazione con Cristo e tra noi. Un ascolto, quello da offrire a Dio che non è solo docilità di orecchio e di cuore, ma capacità di vedere la sua mano provvidente in ogni azione della nostra vita. Per chi ama e si sente amato ogni cosa è parola che l’amato gli rivolge, tutto è segno dell’altro che si desidera vedere e alla cui presenza si vuol rimanere. Fare dell’ascolto del Signore la priorità della propria vita significa mettere ogni impegno a fare silenzio e a sapere guardare per vedere le orme del suo passaggio. Se non c’è silenzio in noi, come potremo ascoltare Dio e l’altro? Come poi fare silenzio, se non si purifica il cuore, liberandolo dalla zizzania che impedisce al buon seme di crescere? Se non troviamo tempi e luoghi opportuni per dedicarci gli uni agli altri come i nostri rapporti potranno crescere e consolidarsi?
Quanto è importante in famiglia ed in comunità sapersi ascoltare con attenzione! Non si può fare tutto di corsa, a scapito dei nostri rapporti. La cura nell’ascolto nasce proprio dall’amore, dalla capacità di vedere che l’altro è “unico” nella nostra vita. Egli è importante per me, per questo me ne prendo cura, per questo faccio passare le cose al secondo posto, perché sempre le persone vengano prime di tutte le attività, anche di quelle che potrebbero sembrare le più importanti. Trovare del tempo per ascoltarsi poi non basta, perché i momenti insieme vanno vissuti con amore, intessuti di affetto, difesi con impegno, perché l’altro ha diritto alle mie attenzioni sempre ed io devo mettermi in suo ascolto, come anche in ascolto di Dio, che mi parla per il bene. Non c’è cosa più brutta che far finta di essere interessati, quando una persona parla. Si può anche fingere l’attenzione, ma a nulla serve se il cuore non si lascia seminare da ciò che si ascolta.

Solo dopo aver preparato il terreno del cuore, chiedendo l’ascolto, il Maestro può continuare a donare la sintesi della Legge che lo scriba ricerca.“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente[…] Amerai il tuo prossimo come te stesso” (v. 37. 39) così risponde Gesù, legando insieme due versetti della Torà, il primo del libro del Deuteronomio (6,5) ed il secondo del Levitico (19,18). Il Maestro non aggiunge nulla a ciò che la Scrittura prescrive, ma offre la sua vita come l’esegesi più chiara di ciò che Egli stesso aveva in antico richiesto ai padri. Il cuore della Legge è l’amore, sembra dire Gesù, saltando la siepe delle prescrizioni – si tratta di ben 613 precetti, secondo la tradizione dei maestri – nelle quali i farisei sintetizzavano la Legge di Mosè. È l’amore ciò che Dio richiede al di sopra di ogni sacrificio, il dono totale di sé ai fratelli ciò che Cristo vive fino al dono della sua vita. In tal modo, non esiste cesura tra la Legge e Cristo, non solo perché Egli la cita, da esperto conoscitore, cresciuto e educato nell’osservanza della fede ebraica, ma principalmente perché dell’antica Alleanza Egli è il compimento, ne rivela la bellezza e, al tempo stesso, ne è lo specchio vivente. In Lui le esigenze della Scrittura trovano realizzazione piena. Egli è la Parola vivente del Padre, la sua vita è la Scrittura incisa nella viva carne ricevuta dal corpo immacolato di Maria. Guardare Lui significa incontrare la giustizia che ha sposato la pace, la misericordia che si è unita alla verità. L’amore di Dio per noi in Gesù non è una parola che il vento porta via, ma un fatto, un avvenimento, un evento imprescindibile. È Gesù il compimento della Legge in se stesso, nella potenza dell’amore che vive. Parlando allo scriba, legando insieme pagine diverse dell’Antico Testamento, Cristo non fa che parlare di sé e della sua vita che verrà di lì a poco consegnata sull’altare della croce, per la salvezza del mondo.

Dio mi ama con tutto il cuore in Gesù. Dio Padre è pazzo di me, sua creatura, con la totalità del suo essere. Tutto in Dio è santità, tutto in Dio è amore, ma l’amore suo mi raggiunge, mi investe, mi circonda, mi carezza, mi abbraccia in Gesù. Egli vive l’unità dell’amore, l’armonia dell’affetto, la determinazione del dono, anzi nel dono c’è il senso del suo amore, nell’offerta il significato della sua vita, nella totalità del suo sacrificarsi il segno più grande di quanto Dio sia amore e mi ami. Nel cuore di Gesù non c’è limite all’amore verso Dio e all’amore del prossimo, è Lui che unifica cielo e terra, rivelando nell’amore l’unica ragione che renda bella la vita. Il Figlio di Maria ama con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente perché amare significa totalità, un amore che sposa il dono parziale, che gioca al risparmio, non è amore, ma egoismo, pura illusione, dell’amore avrà la facciata, ma non l’essenza, dell’amore il profumo, non la sostanza, dell’amore la parvenza del sacrificio, non l’incondizionata determinazione di vivere proteso perché l’amato abbia in abbondanza la vita.
Non bisogna confrontarsi con la parola amore, ma con la vita di Gesù Cristo che è amore per essenza, così da fare un esame di coscienza sulla totalità del dono di noi stessi. Per vivere d’amore, è necessario sperimentarlo. Ecco perché è in famiglia che l’amore deve stillare dagli occhi dei genitori, dalle parole e dai gesti loro, dal silenzio di chi non comprende sempre le esigenze dei figli e dalla preghiera di chi sa che è essenziale affidarsi a Dio per essere potenziati nella carità da donare e nell’offerta che non deve mai attendere il contraccambio per essere modellata su quella di Gesù crocifisso. Nell’incontro con Cristo, Parola di salvezza, Pane vivo sull’altare, nell’abbraccio della persona che condivide con me la sfida di essere una carne sola scopro ogni giorno la grazia di vivere l’amore con la sua esigenza di totalità. Nell’Eucaristia mi immergo nel Cuore di Cristo per avere forza nel rinnegamento, senza guardare al mio uomo vecchio destinato a morire sotto i colpi dello Grazia, seduto accanto a Gesù, con il capo reclinato sul suo petto, come il discepolo amato, vivo quell’intimità che vince le mie resistenze e mi fa stare sotto la croce del mio Signore, comprendendo che nessuno può dire di amare sul serio se non muore a se stesso.

Scegliere l’amore

Dinanzi alla riposta di Gesù lo scriba manifesta la sua approvazione, quasi avvolto da quella parola che lo ha circondato, da quella citazione della Scrittura che ha ben legato due passi in un unico grande impegno, vivere ad oltranza l’amore. Anche per noi la parola di Gesù è una spada a doppio taglio (cf. Eb 4,12) ed attende una risposta. Anche da noi Cristo attende che facciamo dell’amore il cuore della nostra vita, della misericordia la medicina dei nostri rapporti, della tenerezza il calore dei nostri abbracci, della carità sua in noi la forza del nostro farci servi dei fratelli. L’amore non si comanda, è vero, ma chi si sente amato avverte l’esigenza di ricambiare l’amore come un impellente obbligo che lo attende. Chi ama e ha scoperto l’amore non si dà pace se non lo ridona. È questo il segno dell’amore che Dio comanda, l’esigenza che nasce nella vita di chi ha scoperto l’amore di Cristo e sa che non può vivere senza inabissarsi in quel Cuore, divenendo propagatore di quell’oceano smisurato di misericordia che tutti attende ed ogni vita vuol infiammare di carità.




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