V Domenica di Pasqua – Anno C – 19 maggio 2019

La nostra famiglia, specchio della celeste Gerusalemme

Matrimonio

di fra Vincenzo Ippolito

Costruite su Cristo, Pastore ed Agnello, con il sacramento nuziale, le nostra famiglie sono custodite da Dio, circondate dal suo abbraccio come da mura, fondate sulla sua parola, pietra d’angolo, che rende ogni costruzione ben salda. Noi siamo la casa di Dio, la nostra famiglia il suo tempio santo, relazione sponsale la dimora di Dio.

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (21,1-5)
Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi.
Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più.
E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva:
«Ecco la tenda di Dio con gli uomini!
Egli abiterà con loro
ed essi saranno suoi popoli
ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.
E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi
e non vi sarà più la morte
né lutto né lamento né affanno,
perché le cose di prima sono passate».
E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».

 

La liturgia della Parola di oggi, nutrendo il nostro cammino verso la Pentecoste, ci dona di meglio interiorizzare la grazia della Resurrezione del Signore, per riversare nella storia l’amore di cui la nostra vita trabocca, l’unico capace di fare nuove tutte le cose.
La Prima Lettura, tratta dal libro degli Atti degli Apostoli (14,21b-27), continua a presentarci la corsa della Parola, che Paolo e Barnaba, instancabili annunciatori del Vangelo, portano in ogni dove. Ambasciatori di misericordia e seminatori della gioia del Risorto, gli apostoli, con il loro annuncio, suscitano la fede e fondano sempre nuove comunità di fratelli che cercano il Signore e lodano il suo nome. È questo che porta la Chiesa a lodare il Signore, con le parole del Salmo 144, perché, “misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore”, Egli fa conoscere agli uomini le sue imprese e la splendida gloria del suo regno. Nella Seconda Lettura (cf. Ap 21,1-5a), invece, Giovanni, il veggente di Patmos, mostra la città santa, la Gerusalemme del cielo, dove non c’è pianto né lamento, ma solo la gioia della comunione perfetta con Dio e tra gli uomini, che si esprime nel canto e nel giubilo, perché tutto è passato e solo l’amore del Signore regna per sempre. La pagina del Vangelo (cf. Gv 13,31-33a. 34-35) ci porta nel cenacolo di Gerusalemme, dove Gesù, dopo la lavanda dei piedi e l’uscita di Giuda, dona ai suoi il comandamento dell’amore, programma della vita sua e di ogni discepolo.
Tutto oggi parla della novità di vita, che lo Spirito del Risorto dona ai discepoli. Sempre nuova è l’ansia che anima Paolo e Barnaba nell’annuncio del Vangelo ai pagani (Prima Lettura); cieli nuovi e terra nuova contempla Giovanni, dinanzi al trono di Colui che disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Seconda Lettura); nuovo è il comandamento che Gesù dona ai suoi (Vangelo), perché continuino nel mondo la missione ricevuta dal Padre, di irradiare la luce del’amore e la potenza del perdono. Il Signore ci vuole creature nuove, non possiamo disattendere le sue speranze. Per questo la sua Parola è lampada, vince la nostra ritrosia e ci riveste di Cristo.

Dio fa tutto per i suoi eletti

È considerevole il salto che la liturgia ci fa compiere, leggendo il racconto delle rivelazioni dell’apostolo Giovanni. In queste due ultime domeniche di Pasqua, infatti, i brani che la liturgia ci donerà come Seconda Lettura sono tratti dal capitolo ventunesimo del libro dell’Apocalisse, dopo che, la scorsa settimana, abbiamo letto e meditato una pericope del capitolo settimo. Questo fatto non deve stupirci, visto che, prossimi all’Ascensione del Signore, la Chiesa vuole offrirci un panorama, quanto più completo possibile delle visioni di Giovanni, esule nell’isola di Patmos, così da confermare i cuori dei discepoli, nell’attesa gioiosa del regno che verrà, alla fine dei tempi. L’Apostolo, infatti, nelle sue visioni, espresse in un linguaggio simbolico, ci presenta ora il mistero del male, che cerca di fiaccare l’annuncio del Vangelo e la testimonianza degli eletti, ora la vittoria del bene, che Cristo, Pastore ed Agnello, concede a quanti partecipano al suo combattimento e lasciano alla sua grazia di operare meraviglie. Nell’uno, come nell’altro caso, lo scenario temporale apre all’eternità, dove la gioia sarà senza fine per gli eletti, nel regno di Dio, come anche la dannazione, per quanti, seguendo la bestia infernale e cittadini di Babilonia, simbolo del male divenuto sistema e dilagante perversione, precipiteranno nello stagno di fuoco. Non si tratta di racconti che vogliono seminare la paura, ma di narrazioni che ci spingono a considerare la nostra vita, sotto la luce delle verità eterne, dirigendo i nostri passi nelle vie della giustizia e della pace.

Il brano odierno ci presenta la vittoria del bene ed il trionfo dell’Agnello, a cui è rivolto l’inno di giubilo e di esultanza dei salvati. La scena, alla quale assiste Giovanni, è totalmente nuova. Egli scrive “vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più” (v. 1). Il Dio che in antico aveva detto, per bocca del profeta Isaia “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche. Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,18-19), oltre a realizzare la sua promessa, con la Pasqua di Gesù Cristo, che determina l’inizio degli ultimi tempi, è il Signore che rinnova l’universo, con la sua potenza d’amore e, separando il grano dalla pula, porta nel suo magazzino il frutto maturo delle spighe, coltivate nel suo campo. Il regno che Dio prepara nel cielo per i suoi eletti è dono suo, pura elargizione della sua grazia, segno del suo amore eterno ed infinito, non dipende dalle opere dell’uomo, che è chiamato solo ad accogliere l’amore a farlo fruttificare, come la linfa che il tralcio accoglie con umiltà e nutre la bellezza del grappolo che il sole matura. Per chi cammina dietro Gesù, mettendo i suoi passi sulle orme dell’Agnello, è Dio che dona “il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore” (Fil 2,13) ed il credente, sperimentando il primato dell’amore di Cristo nella sua vita, sa che anche il regno dei cieli è grazia e dono suo, dimora eterna, “non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione” (Eb 9,11). Come Dio si prende cura di tutti i suoi figli e veglia, provvido, sui loro bisogni, così ci vuole con sé, per condividere la gioia del suo regno e vivere in eterno con noi, che ci ha chiamati in terra ad essere conformi all’immagine del Figlio suo. Per questo, nella sera del tradimento, Gesù può confidare ai suoi: “Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: Vado a prepararvi un posto?” (Gv 14,2).

È consolante questa parola del Signore, carica di speranza la sua voce. Egli non solo prepara “una mensa, sotto gli occhi dei miei nemici” (Sal 23,5), ma precede i suoi nella casa del Padre, così da poter dire “Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi” (Gv 14,2-3). L’amore ricerca la comunione, l’affetto vero non sopporta la lontananza dalla persona amata, ma si strugge dal desiderio di vivere sempre con colui che gli ha rapito il cuore e che rappresenta l’unico senso della propria vita. Cristo ci ama e ci vuole con sé, nel tempo e nell’eternità. È venuto nel mondo, perché la nostra vita fosse plasmata ed animata dalla sua vita divina, vita di amore e di dono, vita di accoglienza e perdono, vita di offerta e di sacrificio, per la gioia degli altri ed ora, ci trascina nel suo regno, perché, come Egli fu partecipe in tutto della nostra umanità, eccettuato il peccato, così anche noi partecipiamo della sua divinità, per un puro dono di grazia e di benevolenza, da parte di Dio nei nostri riguardi. Egli non solo ci promette “un cielo nuovo e una terra nuova”, ma ci precede nel regno, che Egli prepara per noi e ci attende nella sua dimora, per sedere a mensa con noi in eterno.
Noi dobbiamo sempre di più considerare la nostra vita un cammino verso l’eternità di Dio e non dobbiamo lasciare che le tenebre vincano sui nostri desideri di bene, che il buio trionfi nel nostro animo, che lo scoraggiamento e la solitudine espugnino la mente che ricerca la gioia ed il cuore che anela alla pace. È Dio a combattere il male, a sbaragliare la cattiveria, a dire terminata la guerra dei pensieri, a cambiare, nei nostri rapporti, le lance in vomeri e le spade in falci. Ci possono essere cieli e terre nuove, solo perché “il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più” (v. 1). Vorremmo tanto che le situazioni che ci fanno soffrire terminassero, che il dolore del cuore svanisse, che una malattia nostra o di una persona a noi cara andasse via, così come, inaspettatamente, è comparsa. Fidarsi della Provvidenza, abbandonarsi a Dio, mettere la propria vita nelle mani sue, che è Padre, ricco di misericordia, lento all’ira e grande nel perdono è il segreto della vita di Gesù, che lo Spirito dona ai suoi discepoli di vivere e comprendere. Il Maestro ci dice: “chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?” (Mt 6,27). Per questo dobbiamo considerare che senza di Lui, non possiamo far nulla (cf. Gv 15,5) e che solo Lui può spazzare via il passato, gettare in fondo al mare il nostro errore, rinnovare i nostri animi e piantare nei cuori l’albero della pace, il buon seme della concordia, il granello di senape del perdono. Solo Gesù, il Risorto passato attraverso la morte, può rinnovare il cielo e la terra e far scomparire il mare, simbolo del Nemico infernale e della sua forza, apparentemente violenta ed incontrastata. Dinanzi al potere regale di Cristo Signore, Satana fugge confuso, non ha più forza da imporre, le armi che egli usa per seminare la guerra e la disperazione, la cattiveria e la sopraffazione, si dissolvono, di fronte alla croce gloriosa del Signore.
Soppiantare il male con il bene è ciò che fa Cristo in noi, se lo lasciamo fare, visto che questo Egli ha fatto, nel mistero della sua croce. Non ha senso ribellarsi, visto che: “Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente la vostra forza” (Is 30,15).

Città di Dio, sposa dell’Agnello

Lo sguardo di Giovanni pian piano si restringe, passando dal cielo e dalla terra alla “città santa, la Gerusalemme nuova”, che egli vede “scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo”. Si tratta della dimora degli eletti, dove regna la giustizia e la pace, vince la concordia ed il bene, dove è presente Dio, con la sua grazia, Cristo Signore, con il potere della sua croce, che sbaraglia il regno di Satana e lo getta nelle regioni infernali. Scrive sant’Agostino “Due amori hanno fatto due città, l’amore di sé fino al disprezzo di Dio e l’amore di Dio fino al disprezzo di sé”. La città che Giovanni contempla è la vera Gerusalemme, di cui quella terrena è solo una sbiadita immagine, è la città della pace – secondo l’etimologia ebraica, il sostantivo Gerusalemme vuol dire proprio città della pace – nella quale Cristo “ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Ap 1,5-6). La realtà, totalmente nuova, voluta e creata da Dio è lo spazio sacro dove i redenti dall’Agnello possono vivere e rimanere per sempre al sicuro. Nelle mura di questa città, infatti, non c’è da nulla temere per i discepoli di Cristo, perché è l’amore l’unica legge del regno di Dio e dell’Agnello. Scrive, infatti, san Pietro: “Noi, secondo la sua promessa, aspettiamo cieli nuovi e terra nuova, nei quali abiti la giustizia” (2Pt 3,13). La celeste Gerusalemme è il regno dove si incontrano la giustizia e la pace, secondo quanto scrive il salmista “Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo” (Sal 85,11-12), perché verso la dimora del Signore verranno tutti i popoli, per camminare alla luce del Signore. Profetizza Isaia, “Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti […] Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore” (Is 2,1-2. 3b). Il sogno della città eletta percorre tutto l’Antico Testamento ed ogni pio israelita, al pari di Abramo, “soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso” (Eb 11,9-10). La mancata realizzazione di questo desiderio sta a dire che “La nostra cittadinanza è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose” (Fil 3,20-21). Questo non deve gettarci nello sconforto, ma portarci a considerare la vita un cammino verso il compimento, che sarà in cielo.

Guardando bene il nostro cuore, notiamo, invece, che c’è in noi sempre la pretesa di costruire una città perfetta, dei rapporti privi di malinteso; vogliamo che la nostra vita ci trovi all’altezza di ogni situazione e desideriamo che la Gerusalemme contemplata da Giovanni sia già presente ora, su questa terra. In realtà è sì presente, ma non come vorremmo, perché attanagliati dal mistero del male, non comprendiamo che il nostro compito è quello di combattere la buona battaglia della fede. Il perfezionismo, il volere che tutto sia in ordine, proprio come nel regno dei Cieli, è una tentazione sottile, perniciosa, non sempre riconoscibile. Nella nostra vita, per quanto vogliamo e possiamo impegnarci, non raggiungeremo mai la perfezione, che non è di questo mondo. Cristo ci dice che il nostro impegno nel mondo deve esserci, nel desiderio di costruire la fraternità e la pace, la serena vicinanza con tutti, nel reciproco rispetto e nell’accoglienza delle diversità, ma la perfezione non è frutto del nostro impegno, ma è dono di Dio, la pace è sì opera della solidarietà, ma, al tempo stesso, frutto della grazia di Dio che, comunicata al nostro cuore, diverrà pane nel Regno che verrà. “Camminiamo infatti nella fede, non ancora in visione” (2Cor 5,7). Questo non significa che non dobbiamo vivere ideali grandi, desideri belli, sogni che aprono il cuore e la mente ad imprese coraggiose, ma dobbiamo sempre considerare che siamo in cammino e che la perfezione non è all’inizio, nel giardino di Eden, quanto, invece, alla fine, nel regno verso cui procediamo. Un tocco di sano realismo ci aiuterà ad impegnarci sì, ma non a fidarci oltre misura delle nostre forze, a credere in noi, ma senza entrare in antagonismo con l’onnipotenza del Creatore.

Leggendo il testo dell’Apostolo, c’è poi un secondo aspetto che l’autore aggiunge, traducendo in parole la scena che contempla in visione. La città di Dio, la nuova Gerusalemme, oltre a scendere dal cielo, è descritta “pronta come una sposa adorna per il suo sposo”. A ben vedere, i termini usati da Giovanni nel suo scritto, anche se in maniera sintetica, riprendono le immagini dell’intimità e della sponsalità tra Dio e il suo popolo, che tanto erano state sviluppate nell’Antico Testamento, soprattutto dalla predicazione profetica. Il rapporto tra il Signore ed Israele richiamano, infatti, la relazione amorosa tra un uomo ed una donna. “Ti farò mia sposa per sempre – dice Osea – ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore” (Os 2,21-22) ed è chiaro che a parlare è Dio, invaghito dalla bellezza della sua sposa Israele. È sempre Lui poi a dire, per bocca di Isaia “Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata mio Compiacimento e la tua terra Sposata. Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te” (Is 62,4-5). Anche quando Israele non riconoscerà il suo amore sponsale, il Signore continuerà ad amare il suo popolo “Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò a te nella mia ira” (Os 11,9). Non solo Dio ama noi suoi figli, con un sentimento profondo, di affetto totale, di trasporto intimo, nella fedeltà incondizionata, ma l’amore suo porta a preparare la sua sposa, ad ornarla di gemme preziose. “Ti lavai con acqua, ti ripulii del sangue e ti unsi di olio. Ti vestii di ricami, di calzai di pelle di tasso, ti cinsi il capo di bisso e ti ricoprii di stoffa preziosa. Ti adornai di gioielli. Ti misi braccialetti ai polsi e una collana al collo […] Così fosti adorna di oro e di argento” (Ez 16,9-11.13a).

Dio fa tutto per il suo popolo, costruisce una città nel cielo, la prepara e la orna, la rende bella, della sua stessa bellezza, splendente, come riflesso della sua stessa luce. Con Giovanni, anche noi dobbiamo perderci nella contemplazione della Gerusalemme celeste e lasciando che la nostra vita risplenda della luce che avvolge la città santa. “Perciò, carissimi – scrive san Pietro – nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia” (2Pt 3,14). Ciò che l’Apostolo dice di Gerusalemme è quanto Cristo desidera compiere nella nostra vita, già su questa terra, così da partecipare un giorno alla gloria del cielo. Egli desidera porre in noi la sua dimora, essere la nostra luce, donarci la sua stessa vita, essere il pane che ci sostiene nell’avventura quotidiana di vivere e donare amore, effondere in noi la sua acqua, che smorza l’arsura e ci fa desiderare di bere sempre alla fonte dell’acqua della vita. Questo è vero non solo a livello personale, ma anche familiare e comunitario. È bene, infatti, considerare che le nostre famiglie sono lo specchio della celeste Gerusalemme. Costruite su Cristo, Pastore ed Agnello, con il sacramento nuziale, sono custodite da Dio, circondate dal suo abbraccio come da mura, fondate sulla sua parola, pietra d’angolo, che rende ogni costruzione ben salda. Noi siamo la casa di Dio, la nostra famiglia il suo tempio santo, relazione sponsale la dimora di Dio. Con il dono dei figli, il Signore allarga lo spazio della nostra tenda e concede all’amore che Egli ha messo nei nostri cuori la grazia di trasmettere la vita e di far sorgere la gioia. Quanto è importante nelle nostre famiglie vivere la grazia dell’incontro, godere della gioia della condivisione, lasciarsi illuminare e guidare dalla parola dell’altro/a! Ma l’incontro tra gli sposi, come ogni incontro e dialogo tra noi va preparato, con cura, cercato con impegno, donato con amore, custodito con tenerezza. Le nostre parole vanno ornate di grazia e di bontà, di attenzione e di carità, solo così i nostri rapporti si consolidano nella ricerca sincera del bene e si vincono le chiusure, che impediscono di crescere e maturare nell’amore.

“Mandi il tuo Spirito tutto è creato e rinnovi la faccia della terra”

C’è una voce che arricchisce la scena e sembra dare il giusto senso della visione, alla quale Giovanni assiste con stupore. Proviene dal trono ad indicare come la Gerusalemme celeste sia la casa di Dio, il luogo dell’incontro con gli uomini, la casa della salvezza, la dimora della gioia. “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio” (v. 3). Oltre alla comunione perfetta, la voce mostra anche le meraviglie che il Signore opera per gli eletti, i gesti di tenerezza e di consolazione a favore dei suoi “asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate” (v. 4). A bene vedere, la descrizione si sviluppa in un significativo crescendo, dalla città santa, che scende dal cielo (vv. 1-2), si passa alla voce che ne svela l’identità come luogo dell’alleanza di Dio con gli uomini (vv. 3-4), in ultimo l’attenzione si focalizza sul trono, dove Colui che vi è assiso dice, con tono solenne: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (v. 5).

La nostra vita è un cammino di ascesa verso il cielo, dove Dio siede Signore e, quale re universale, guida i popoli nella ricerca del vero e del bene. Solo Cristo, l’Agnello immolato e ritto sul trono, è capace di rinnovare la nostra vita ed i nostri rapporti, le situazioni che appaiano irreparabilmente inclinate e quanto ci sfugge di mano. Egli può tutto, perché nulla gli è impossibile. A noi il fidarci di Lui, abbandonandoci alla sua grazia, lasciandolo a Lui solo la possibilità di operare meraviglie per i suoi eletti.




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