Il sorriso di Dio

Nel 1997 nasce a Rimini il Servizio Maternità Difficile col compito di coordinare le iniziative della Comunità Papa Giovanni XXIII verso la difesa del bambino non ancora nato, l’essere umano più povero e indifeso, la fase della vita umana più a rischio.

L’impegno della Papa Giovanni XXIII

Aiutare mamma e papà ad accogliere il figlio con amore e dignità, anche stimolando una società più giusta sono gli obiettivi del servizio.

In virtù della condivisione che ci caratterizza, siamo impegnati nell’accoglienza e nel sostegno di donne e coppie che si trovano ad affrontare una maternità inattesa o in situazioni problematiche di qualsiasi natura elaborando insieme un percorso per superare i problemi che le affliggono.

Una Storia

Sono Franca Franzetti, sono impegnata nel Servizio Maternità Difficile. Le donne che si rivolgono a noi sono in genere nelle prime settimane di gravidanza, proprio nel momento più delicato, in cui è normale vivere sentimenti contrastanti, avere paure e sentirsi inadeguate.

Viviamo in un tempo in cui si respira un clima diffuso di sfiducia, si è perso il gusto di generare, ci si ferma alle problematiche del vivere quotidiano e si fa fatica ad andare oltre e vedere la grandezza del dono che è la nascita di un figlio.

Quando poi questo figlio non è stato desiderato, non è stato programmato, o i genitori hanno qualche difficoltà, il pensare comune è : “meglio non farlo nascere”, come fosse un atto dovuto, una soluzione giusta per evitare un male!

Come se la vita di un uomo debba dipendere da un’opzione!

Ci si arroga questo diritto a decidere e si incoraggia a farlo, senza minimamente tener conto della realtà: cioè che il bambino esiste già, è vivo e vegeto, è già in relazione con la sua mamma, ormai non può più essere messo in discussione: bisogna solo fare di tutto per garantirgli il suo diritto a nascere e alla sua mamma il diritto a essere messa in grado di portare avanti la gravidanza.

Ci sentiamo dire dalle donne che incontriamo: “vorrei tenere il bambino, ma non posso” spesso subiscono pressioni e ricatti dal marito, dal fidanzato, dai genitori.

Vi voglio riportare le situazioni di alcune donne usando le loro stesse parole: “quando i miei genitori hanno saputo che era incinta, mi hanno posto questa condizione: o vai ad abortire o vai via di casa”; “eravamo fidanzati e lui non ha accettato la mia scelta di continuare la gravidanza e mi ha lasciato sola”; “la mia migliore amica, alla quale ho chiesto consiglio, mi ha detto con forza che non avevo diritto a mettere al mondo un figlio al quale non sarei stata in grado di garantire una famiglia” ; “lavoravo in nero, quando ho chiesto di essere messa in regola perché ero incinta, mi hanno mandata via subito”.

È nostra esperienza che i 2/3 delle donne che abbiamo incontrato e che erano nel dubbio per la grande solitudine che vivevano e impaurite dai vari problemi pratici, dopo che sono state rassicurate di essere accompagnate e sostenute nella ricerca di soluzioni pratiche, hanno scelto, allora sì liberamente, di far nascere il loro bambino.

Anche medici e operatori sociali, ai quali lo stato affida il compito di tutelare la maternità, riconosciuta come bene sociale, raramente incoraggiano a proseguire una gravidanza “incerta” per non influenzare la donna, dicono, mentre di fatto non attivandosi a offrire tutti gli aiuti necessari per trovare soluzioni ai problemi, scaricano su di lei ogni responsabilità.

La donna, lasciata a se stessa, proprio nel momento in cui avrebbe più bisogno di sostegno, trova intorno a sé il vuoto ed è, in un certo senso come indotta ad abortire.

Per questo riteniamo che l’aborto è una violenza anche contro la donna che si porterà questa ferita per tutta la vita, come ci racconta chi ha fatto questa esperienza così devastante e traumatica per la loro salute.

Siamo certi, perché ne abbiamo il riscontro, che se ad ogni donna venisse data un’opportunità di ascolto, aiuti adeguati, incoraggiamento in un clima di solidarietà rassicurante, molti degli 800 bambini che ogni anno qui nella nostra USL sono eliminati con l’aborto legale, potrebbero nascere e far felici le loro mamme e i loro papà.

Come è successo a Stefano ed Ester che sono qui con la loro piccola Sara per raccontarci la loro esperienza.

Un altro forte condizionamento culturale dei nostri giorni è il rifiuto della malattia e della diversità che crea nei genitori l’ansia , indotta anche dai medici stessi, che caldeggiano di fare tutte le indagini prenatali possibili, per conoscere lo stato di salute del bambino. Lo scopo è di decidere se è degno di venire al mondo o se è meglio per lui o per lei essere eliminata, “come estremo atto d’amore” fa credere una mentalità perversa che reputa la qualità della vita più importante della vita stessa.

Sappiamo che il 90% dei genitori ai quali è stata fatta una diagnosi prenatale di malattia o malformazione decidono per l’aborto cosiddetto “terapeutico” anche se non cura nessuno: il piccolo viene barbaramente soppresso e la mamma resta comunque nel dolore e nel dramma per non aver saputo o voluto accogliere quel figlio perché malato.

Come comunità che ha nelle proprie famiglie tanti figli “speciali”, scelti e rigenerati nell’amore perché accolti in tutta la loro preziosità, diamo disponibilità ad incontrare quei genitori, spesso soli e spaventati, che, tra tremendi conflitti, si trovano a decidere della vita o della morte del loro piccolo.

Abbiamo costatato che far conoscere direttamente dei bambini affetti dalla stessa patologia diagnosticata al figlio in grembo, aiuta questi genitori ad avere una visione più umana della realtà e la disponibilità di chi vive situazioni analoghe a star loro vicino anche nel futuro, incoraggia ad accogliere un figlio che porta su di sé il mistero della sofferenza, che comunque è mistero che genera vita; come ci racconta Grazia Isaia che da 18 anni vive con Nicola, che soffre di una grave patologia che lo tiene sospeso alla vita con un filo.




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