L’evidenza contro tante ambiguità

di Anna Pisacane

La 194 è una legge che fa acqua da tutte le parti. Esaminando alcuni importanti passaggi ne scopriamo contraddizioni e ambiguità.

Il 22 Maggio 1978 attraverso la promulgazione della legge n. 194, in Italia viene resa lecita la possibilità di una donna di sopprimere la vita che porta in grembo.

L’ambiguità di questa legge è già nel titolo. “Tutela sociale della maternità….”, questa definizione può dare l’idea che si tratta di norme che riconoscono il diritto sociale della maternità di un aiuto da parte dello Stato e “..interruzione volontaria della gravidanza” sembra quasi che sia un’estrema conseguenza, l’ultima spiaggia per la donna.  In realtà da una lettura attenta della legge si evince l’esatto contrario.

I soggetti in gioco

È chiaro che l’oggetto della Legge 194/78 è la maternità. Quando si parla di maternità si parla di una relazione dove i soggetti in gioco sono la mamma e il suo bambino. Strano è che negli articoli della legge non si trova mai il termine madre o mamma, ma si parla sempre e solo di donna e il termine, quanto mai ambiguo,  affidato all’identificazione del figlio, è concepito (cfr. art. 5). Manca quasi del tutto la figura del padre. Nella legge, viene citato solo in alcuni casi ma sempre come figura ombra, con diritto di intervenire solo “ove la donna lo consente” (art. 5).

In principio…

Nel primo articolo leggiamo che “Lo Stato (…) riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio” . Ma quando inizia la vita umana? Questa domanda è stata al centro del dibattito antropologico ed etico in questi trent’anni. Un dubbio che ha trovato una sua reale soluzione nell’applicazione giuridica che vede nell’ articolo 1 della legge n. 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita, nel quale si legge che la vita umana inizia dal concepimento. Ma tutto ciò non è bastato a che il diritto alla vita fosse esercitato sul nascituro.

La parte preventiva

Anche gli articoli successivi sembrano camminare su questa linea. In modo particolare l’articolo 2 e 5 dicono che il Consultorio e la struttura socio-sanitaria “oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici (…) di esaminare con la donna le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza”. Senza ombra di dubbio questa è la parte più felice della legge ma rimane una parentesi in un contesto dove tutti gli altri articoli non hanno altro compito che rendere il più possibile facile la via dell’aborto.

Se poi si evidenzia che in questi anni questa parte è stata quasi del tutto inapplicata, si capisce bene che non ci troviamo in nessun modo di fronte ad una legge il cui scopo è quello di prevenire l’aborto o di ridurlo. Nello stesso articolo si auspica che “I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”. In questi anni non sono molte l’esperienze in questo senso ma alcune di esse sono una vera testimonianza di aiuto alla vita grazie alla quale molti bambini destinati a morire sono venuti alla luce.

Aborto nei primi novanta giorni

In realtà la legge da la possibilità ad una gravidanza indesiderata di sfociare normalmente in una “interruzione volontaria della gravidanza”. È quanto si evince chiaramente nell’articolo 4 quando si legge che la donna nei primi novanta giorni può richiedere l’IVG quando: “il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito…”. Praticamente sempre!

Aborto dopo i primi novanta giorni

La legge che avrebbe dovuto diminuire il numero degli aborti, lascia via libera anche agli aborti tardivi. Nell’articolo 6 si dice che esso è possibile:

“a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;

b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” .

Molto sapientemente, la legge non fissa dei termini. Intanto gli aborti oltre la dodicesima settimana registrati nel 2005 sono stati 2,7 %. Negli ultimi anni questo è il punto che ha destato maggiore scandalo, innanzitutto perché sempre più sono i casi in cui la presunta malformazione del feto si è rivelata un flop e soprattutto perché molti di questi bambini nascono vivi dall’aborto. Quando la legge venne scritta, trent’anni fa, bambini di 23-24 settimane non potevano sopravvivere. Oggi questa possibilità esiste. Ormai i neonatologi concordano nell’affermare che a 22 settimane i neonati vanno rianimati. A tal proposito nell’art. 7 si legge che “Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell’articolo 6 e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”.

Donna bambina

Una nota allarmante è la possibilità di una “donna di età inferiore ai diciotto anni” (art. 12) di richiedere l’aborto senza il consenso dei genitori. Non presuppone nemmeno il loro parere. “Il giudice tutelare (…) può autorizzare la donna, con atto non soggetto a reclamo, a decidere la interruzione della gravidanza”. Paradosso dei paradossi una minore per assentarsi da scuola ha bisogno della giustifica dei genitori, invece, per accedere al passo che probabilmente più di altri segna indelebilmente la sua vita rimane essenzialmente sola. Tale libertà però non riguarda per quelle minorenni che invece, desiderano portare avanti una gravidanza, e che nella maggior parte dei casi sono costrette ad abortire perché non affiancate né dai genitori né dalle strutture pubbliche.




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