Morti nel buio

di Alfredo Cretella

Si stima che ad oggi sono più di 30.000 gli aborti praticati illegalmente ogni anno. Un fenomeno che lascia trapelare particolari inquietanti e ci porta a riflettere su una legge che non ha saputo risolvere questo problema.

Come è ben noto, l’aborto legalizzato è considerato una conquista sociale della donna: un vero e proprio corollario della sua libertà. La legge n. 194/78, che quest’anno compie il trentennale, si è basata essenzialmente proprio su tale ratio giuridica; pur enunciando, tra i suoi principi ispiratori e obiettivi programmatici, proprio quello di rimuovere gli ostacoli materiali e morali che impediscono, de facto, alla donna di poter effettuare una scelta consapevole, in ordine alla gravidanza in atto, il legislatore dell’epoca utilizza tale premessa per sottolineare che, entro un termine ben preciso, l’interruzione della gravidanza è consentita dalla legge e quindi lecita.

Tale breve introduzione ci offre la possibilità di affrontare meglio il tema sempre attuale dell’aborto illegale, non avendo molto senso il termine clandestino, allo stato attuale. Invero, con la legalizzazione dell’interruzione volontaria della gravidanza, ciò che assume rilevanza giuridica non è più la pratica abortiva e clandestina in sè, reputata come reato contro la stirpe dal vecchio codice penale, bensì la pratica abortiva e clandestina, svolta al di fuori della legge e quindi per ciò solo illegale; nulla questio, invece, per l’aborto praticato con la massima discrezione e tutela della privacy nelle strutture pubbliche.

Ciò premesso, è certo utile affrontare l’argomento e domandarsi perchè l’aborto illegale faccia ancora numeri così elevati (si parla di alcune decine di migliaia all’anno).

È arcinoto, infatti, che proprio tale problematica e le mille polemiche che faceva scaturire, accompagnò la lunga gestazione della l. 194/78. Le femministe e tutta l’avanguardia progressista salutarono la legalizzazione dell’aborto come la fine di tutte le speculazioni, di ordine economico, anzitutto, ma anche morale e sociologico, che la pratica dell’aborto (all’epoca necessariamente clandestino) comportava: la donna in attesa non era più vittima di se stessa e di chi la circondava e giudicava, ma con la possibilità di esercitare una libera scelta, si era di nuovo appropriata del suo corpo  e della sua vita! Logica conseguenza di tale traguardo sarebbe stata la sensibile riduzione del tasso degli aborti clandestini (a questo punto illegali) e la totale emersione di un fenomeno, così pregno di conseguenze di ogni tipo, per la vita di una donna, da trattare alla luce del sole, con tutti i supporti, di cui una moderna democrazia sarebbe stata capace.

Oggi, a trent’anni compiuti, dal varo della legge, è tempo di fare qualche lucida e pacata riflessione, resa necessaria dai non pochi fatti di cronaca, che si stanno susseguendo, da qualche mese a questa parte. Gli aborti clandestini illegali, in Italia, si assestano intorno alle 30.000 unità annue e si tratta di un dato sottostimato, che viene alla ribalta tutte le volte che si accompagna con casi di cronaca nazionale e locale. Risale già a qualche mese la vicenda del noto ginecologo ligure suicidatosi in seguito ad un’inchiesta che lo riguardava, avente ad oggetto aborti clandestini illegali, dallo stesso praticati presso il suo studio medico; è di pochi giorni, invece, il fatto riportato dal quotidiano “IL MATTINO”, di Napoli, seppur ancora all’attenzione degli inquirenti, che riguarderebbe un ginecologo napoletano, il quale avrebbe denunciato alcuni suoi colleghi, dediti all’aborto clandestino illegale, praticato a suo dire, in strutture private compiacenti, per la non trascurabile cifra di € 2.000,00. La notizia non è accompagnata dai particolari che servono per fare adeguata chiarezza; tuttavia, pare di capire che la pratica abortiva clandestina illegale riguardi gravidanze che potrebbero essere trattate anche in strutture pubbliche, perchè ancora entro i termini stabiliti dalla legge, oltre che quelle avanzate e quindi ormai non più trattabili secondo legge.

La questione pone due interessanti temi sul banco: posto che il tempo concesso dalla legge, per esercitare una libera scelta, è piuttosto ampio (i.e. 12 settimane), perchè gli aborti, praticati in stato di gravidanza avanzato, illegalmente, sono ancora così tanti? Inoltre, perchè la donna, pur avendo la possibilità di ricorrere, gratuitamente, all’utilizzo della struttura pubblica (o privata convenzionata), preferisce la strada dell’illegalità, che la espone ad un esborso economico, ed a rischi di vario genere?

Il primo interrogativo trae risposta dal riscontro sul campo. Dodici settimane non sono abbastanza, quando la macchina burocratica delle liste d’attesa si inceppa e le strutture ospedaliere, o equiparate, disponibili sono minori rispetto alla domanda. Tuttavia, c’entra anche la vergognosa condotta di non pochi medici, specie se dichiaratisi obiettori, che spesso, per fini di lucro, veicolano la paziente in strutture private, dando loro in cambio certezza di tempi e di maggiore privacy.

La seconda questione è piuttosto complessa. Uno post, pubblicato su internet, proprio in occasione della notizia di cronaca, sopra riportata, un lettore ha chiosato che non di aborti clandestini e illegali si dovrebbe parlare, bensì di aborti privati, da considerarsi alla stessa stregua di qualsiasi altro intervento, che il paziente può scegliere di effettuare presso strutture pubbliche o private, pagando, in quest’ultimo caso, se le stesse non sono convenzionate. L’arguto lettore chiarisce che è del tutto legittimo e condivisibile che si possa preferire la corsia della struttura privata, considerato che “oggi se una paziente sceglie un medico privato è perché sa molto bene che gli specialisti che si dedicano a questa attività sono molto più abili dei colleghi ospedalieri, (…) e soprattutto permettono di evitare le defatiganti attese, gli interrogatori imbarazzanti, la promiscuità delle corsie, l’ansia di una decisione sempre dolorosa e traumatizzante”. In realtà, la legge attuale, per come articolata, anche se ancora poco attuata, annovera l’aborto come disvalore, se non più sul piano etico, certamente dal punto di vista sociale: sicchè, l’aborto non è un fatto privato, che riguarda solo la donna e nessuno più. L’aborto, invece, è una scelta che riguarda l’individuo, non come singolo, ma anche come cives, che come tale è chiamato a rendere conto delle sue scelte: se queste si pongono nel solco di valutazioni socialmente compatibili, allora c’è il crisma della legalità (e se vogliamo anche della liceità morale);  se, viceversa, le sue scelte non sono socialmente compatibili (aborto per futili motivi, oltre le 12 settimane, ed altri casi), ecco che interviene a fare da freno il famoso contratto sociale, a suo tempo stipulato da tutti noi, in forza del quale le libertà del singolo (se di libertà si vuole a tutti i costi parlare) devono cedere, rispetto ad un bene superiore, che è quello della collettività, che ha ancora interesse a non vedere soppresso un feto per futili motivi, o dopo le canoniche dodici settimane. Sicchè, l’aborto clandestino è il prodotto di quel masochistico desiderio, insito in ognuno di noi, di sfuggire alle regole e ai giudizi altrui, che tende a trasformare la libertà in libertinaggio, ogni scelta in arbitrio e che porta l’uomo lontano dalla fede, ma anche dalla ragione.




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