Parole nuove

di Silvio Longobardi

Non dovrà più accadere che una donna rinunci alla maternità per ragioni economiche”, ha detto nei giorni scorsi il Presidente Giorgio Napolitano, rispondendo alla lettera di una donna che manifestava tutta la sua difficoltà ad accogliere la vita sbocciata nel suo grembo. Parole nuove che sembrano echeggiare quelle ancora più chiare che molti anni fa Madre Teresa pronunciò a Bergamo in una delle tante e commoventi testimonianze a favore della vita nascente: “Lasciamoci questa sera con una promessa: che in questa città nessuna donna sia costretta ad abortire”. Il primo dovere di uno Stato sociale, degno di questo nome, è quello di garantire la libertà di non abortire.

Parole antiche quelle pronunciate del Papa lo scorso 12 maggio. Dopo aver ricordato che “difendere la vita umana è diventato oggi praticamente più difficile, perché si è creata una mentalità di progressivo svilimento del suo valore”, ha esortato a “promuovere ogni iniziativa a sostegno delle donne e delle famiglie per creare condizioni favorevoli all’accoglienza della vita”. Non un’astratta battaglia di principi, muove la Chiesa, ma una concreta attenzione all’essere umano, a partire da quello più indifeso. Parole antiche, eco di una sapienza che il passare dei secoli non può cancellare. Antiche e sempre nuove, potremmo dire con Sant’Agostino, perché capaci di aprire gli occhi sulla realtà, senza la faziosità di lenti ideologiche che umiliano la ragione e rifiutano l’evidenza.

Abbiamo bisogno di queste parole. Sono un viatico per chi, come noi, ha sempre creduto che la battaglia per la vita nascente non si combatte solo attraverso una rigorosa e penetrante azione culturale ma anche (e soprattutto) mettendosi a fianco delle famiglie e/o delle donne, entrando in quella solitudine che troppo spesso è il grembo in cui matura la decisione di sopprimere la vita già sbocciata. Noi sappiamo per esperienza che la concreta e fattiva solidarietà vince molti dubbi.

Nessuna legge può vincere l’aborto, tanto meno quella che legalizza una pratica così brutale e disumana. Non chiediamo una legge che tuoni contro l’aborto ma una legge che s’impegna realmente a vincere l’aborto dando pieno riconoscimento a quel volontariato in favore della vita che in questi trent’anni è cresciuto ed è ormai attestato in tutto il Paese. Un volontariato che opera fattivamente, lontano dai riflettori di media compiacenti, e coinvolge decine di migliaia di persone. Questa legge esiste, diranno i soliti benpensanti: è la famigerata 194. Se è così perché non viene applicata? Perché le mamme che non vogliono sopprimere il proprio bambino non trovano alcun aiuto nelle istituzioni? Perché i numerosi volontari per la vita che sono costretti a svolgere il loro servizio sociale in condizione di semiclandestinità e senza godere di alcuna forma di appoggio da parte delle strutture pubbliche? Perché insomma la libertà di abortire di fatto prevale sulla libertà di non abortire? È solo una cattiva applicazione di una legge buona, come tutti oggi si affannano a dire, oppure l’esito inevitabile di una legge per sua natura ambigua che nasconde il filo-abortismo dietro una retorica ormai usurata dal tempo?

Di parole nuove ha bisogno anche la società, parole capaci di interpretare quella verità che da sempre è inscritta nella coscienza dell’uomo e che grida: “non uccidere”. Difendere la vita fin dal concepimento vuol dire ricordare una verità oggi sempre è minacciata: l’uomo è un essere “eccezionale”, porta in sé un mistero che nessuna ragione potrà mai spiegare senza tradire se stessa.




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