Piccoli prodigi missionari

di Marco Ragaini

I figli delle coppie che partono in missione vengono spesso considerati delle “piccole vittime” o non pienamente consapevoli delle scelte dei loro genitori. Ma è davvero cosi?

Un articolo su «Avvenire» di qualche anno fa presentava un’inchiesta sui figli dei laici missionari con un titolo efficace e azzeccato: “Noi, piccoli involontari laici”. L’autrice toccava una questione importante: i figli dei missionari, che si trovano a nascere in una famiglia missionaria e subiscono la decisione di partire, come vivranno quest’esperienza? Quali tracce resteranno nella loro vita? Come vengono preparati dai genitori?

Ascoltando l’esperienza di diverse famiglie con figli (compresa la nostra) emerge che molto dipende dall’età dei bambini e dal grado di consapevolezza che possono avere. I più piccoli si troveranno necessariamente a subire le scelte dei genitori, anche se – osserva qualcuno – questo accade in realtà per ogni scelta familiare, non solo per la partenza missionaria. Gli orari di lavoro dei genitori, l’uso più o meno intenso della televisione, cambiamenti di città per esigenze professionali sono altrettanti fattori che i genitori, magari inconsapevolmente, impongono ai figli. Il vantaggio, nel caso dei missionari, è di poter rendere conto dei valori sottostanti alla scelta.

Il coinvolgimento dei bambini più grandi, o addirittura adolescenti, è certamente indispensabile e possibile. L’esperienza dimostra che spesso essi stupiscono i propri genitori anticipando o sollecitando un’adesione alla proposta della partenza.

I figli di una coppia di nostri amici in partenza per il Mozambico – età scuola elementare – hanno tenuto un “consiglio” tra loro, a porte chiuse, in cui hanno discusso delle loro paure riguardo ad una possibile partenza e cercato le adeguate “medicine”. Ne sono usciti con la comunicazione: «Abbiamo deciso di partire!» che ha sorpreso e commosso i genitori. Verrebbe da dire che è determinante il clima familiare in cui matura la decisione.

L’impatto con la realtà africana o latinoamericana può essere oggettivamente difficile per un bambino, che si trova improvvisamente a contatto con cibi, lingue e amici diversi. Il fatto di averlo preparato prima al cambiamento non è probabilmente d’immediata utilità. Eppure egli dispone di risorse inaspettate di fronte al cambiamento. Spesso anzi i piccoli si rivelano un aiuto ai genitori che, vedendoli sempre più inseriti e a loro agio, riescono a lasciarsi andare più facilmente.

Una cosa che colpisce nei bambini è l’assenza di mediazioni, per cui può capitare di sentirli uscire con affermazioni di disagio o di disgusto che un grande non userebbe mai. Eppure proprio quest’immediatezza è una risorsa importante nell’affrontare le difficoltà senza negarle. Gli adulti, a volte, specie se molto motivati alla missione, hanno invece fatica ad ammettere – a loro stessi innanzi tutto – di provare disagio in alcune situazioni in cui si aspettano di dover essere dei “bravi missionari”.

È esperienza forse di tutte le famiglie missionarie che i figli siano diventati in breve tempo i primi missionari di casa, per la loro facilità a fare amicizia, per l’accoglienza che suscitano nei confronti dei grandi, per la loro positiva invadenza. Essi imparano rapidamente le lingue locali, con disappunto dei genitori che tentano di studiarle con grande fatica; apprezzano i cibi più esotici; imparano a giocare con nuovi giochi.

Chi è stato in missione con i figli è portato generalmente a ritenere che quest’esperienza sia stata preziosa per loro, soprattutto su due versanti. Il primo è uno stile di vita più semplice e più vicino alle dimensioni essenziali della vita. La povertà, la morte, la malattia sono spesso molto presenti nella missione, ma i bambini le scoprono come parte di una vita meno protetta, ma al tempo stesso più serena. Nella nostra società queste dimensioni sono generalmente allontanate dai bambini, salvo riapparire poi in modo molto più innaturale e violento.

Un figlio di nostri amici, rientrato in Italia in seconda elementare, si stupiva di come qui non si parlasse mai di Aids, mentre in Africa, dove aveva vissuto, si era educati a conoscere questa malattia fin da piccoli.

La seconda dimensione è quella dell’apertura alle altre culture, della tolleranza, della capacità di legare con tutti, risorse che diventano oggi sempre più necessarie.

È difficile però dire quanto questi valori, vissuti con intensità in missione, restino poi nella vita dei bambini una volta rientrati. L’impatto con una società diversa come la nostra richiede, infatti, un nuovo ambientamento. I valori non possono essere mantenuti tali e quali, ma devono essere rielaborati e riespressi in forma nuova, adatta al nuovo contesto.

Come si sono ambientati in fretta alla missione, così i bambini si riambientano rapidamente alle comodità, alla televisione, alla playstation… Diventa a questo punto importante saper impostare uno stile di vita familiare che riesprima in modo nuovo e creativo quanto scoperto nel Sud del mondo.

E probabilmente, come un fiume sotterraneo, molto di quanto vissuto nell’infanzia resterà nel profondo dei nostri figli, per riemergere poi, quando meno ce lo aspettiamo in forme nuove e personali.




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