Quattro ruote e una famiglia

di Raffaele Iaria

Vivono ai margini delle nostre città, dimenticati o addirittura evitati. Sono gruppi di zingari e di immigrati, di presone che per necessità o per tradizione hanno scelto di mettersi in cammino rimanendo unite, mantenedo la propria identità di famiglia.

Non bisogna dimenticare che la famiglia, anche quella migrante e itinerante, costituisce la cellula originaria della società, da non distruggere, ma da difendere con coraggio e pazienza”. Così Benedetto XVI si è rivolto nei giorni scorsi ai partecipanti alla plenaria del Pontificio Consiglio per i migranti e gli itineranti, che si è svolta in Vaticano sul tema “La famiglia migrante e itinerante”. La famiglia, ha chiarito il Papa, “rappresenta la comunità nella quale fin dall’infanzia si è formati ad adorare e amare Dio, apprendendo la grammatica dei valori umani e morali e imparando a fare buon uso della libertà nella verità. Purtroppo in non poche situazioni questo avviene con difficoltà, specialmente nel caso di chi è investito dal fenomeno della mobilità umana”. Di qui “la sollecitudine della Chiesa verso la famiglia migrante” e “l’interesse pastorale per quella in mobilità”. Per il Santo Padre, “questo impegno a mantenere un’unità di visione e di azione fra le due ‘ali’ (migrazione e itineranza) della mobilità umana può aiutare a comprendere la vastità del fenomeno ed essere, al tempo stesso, di stimolo a tutti per una specifica pastorale, incoraggiata dai Sommi Pontefici e auspicata dal Concilio Ecumenico Vaticano II”.

Ad aprire la plenaria del Pontificio Consiglio è stato il card. Renato Raffaele Martino, presidente del dicastero, secondo il quale “ci si deve prodigare affinché la famiglia, cellula vitale di ogni società, possa vivere unita anche nella mobilità e, ove ciò non fosse possibile, per trovare una comunità o un luogo ove sperimentare un clima familiare”. Per il porporato, la famiglia “è uno dei fattori propulsori della mobilità delle persone. Si emigra per trovare condizioni più favorevoli di vita, si fugge per cercare rifugio in terre ospitali, ci si sposta per studiare all’estero, si affronta un viaggio turistico anche per rinsaldare i vincoli familiari, si lavora in mare o nell’aviazione civile per dare sostentamento ai propri cari. Vi sono poi diverse circostanze per la famiglia con riferimento alla strada: nel cammino del pellegrinaggio, nel nomadismo per cultura e tradizione, nella viabilità come utenti, nel triste sfruttamento della prostituzione, nella ricerca di una residenza per i senzatetto e di un’accoglienza per tanti minori”.

“Tutte le persone immigrate in un Paese europeo con un contratto di lavoro – ha detto padre Hans Vöcking, segretario della Commissione per le migrazioni del Ccee (Consiglio delle Conferenze episcopali europee) – devono godere degli stessi diritti sociali e familiari dei residenti. Bisogna opporsi all’applicazione dello statuto di stagionale e a quello di lavoratori di breve durata, poiché entrambi tengono conto unicamente della forza lavorativa e non considerano gli aspetti psicologico ed educativo”. Per Vöcking, le famiglie immigrate e rifugiate “devono poter beneficiare, con la firma del contratto di lavoro, del diritto al ricongiungimento familiare. In questo contesto rileviamo che non è accettabile mantenere differenze tra i gruppi socio-economici provenienti dall’Europa o da un altro continente”. Per il vescovo di Brooklyn, mons. Nicholas DiMarzio , la Chiesa “può essere un valido protettore dei migranti, difendendoli nella società in cui si trovano. Ciò dovrebbe iniziare nel più frequente luogo d’incontro, e cioè nelle parrocchie e nelle comunità ecclesiali”. Per il presule, la migrazione, in sé, “sottopone sempre la famiglia migrante a condizioni sfavorevoli. Due sono, dunque, gli approcci fondamentali da seguire. Il primo: assistere la famiglia a mantenersi unita. Il secondo: trovare modi per sostenerla nel processo di inculturazione”.

Per mons. Piergiorgio Saviola , direttore della Fondazione Cei Migrantes, la Chiesa “riconosce e valorizza il territorio e, perciò, tutte le realtà umane, sociali e civili che s’incontrano in quel determinato territorio. I sacerdoti-parroci, di conseguenza, dovrebbero essere pastori non soltanto delle famiglie residenti sul loro territorio, ma anche di quelle che vi stazionano per brevi periodi”. Parlando poi dei circensi e dei lunaparkisti, mons. Saviola ha sottolineato che si tratta di famiglie caratterizzate da “forme particolari di autentica solidarietà. Bisogna osservare, tuttavia, che sono minacciate dalle trasformazioni a cui sono sottoposte nella società odierna”.

A fare il bilancio delle attività del Pontificio Consiglio negli ultimi due anni è stato il segretario del dicastero, mons. Agostino Marchetto. Durante l’assemblea è stato fatto il punto della situazione della famiglia nel mondo delle migrazioni: spunto per gli operatori pastorali, che “dovranno trasformare la famiglia migrante in un fattore più efficace per l’evangelizzazione e per il consolidamento dei valori cristiani”.




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