Adesso vogliamo una famiglia

di Silvio Longobardi

La realtà di abbandono di minori in Ucraina è uno dei problemi più grandi di questo Paese. Da secoli esistono gli internat, istituti dove trovano rifugio tanti bambini senza famiglia. Ma i tempi cambiano e accanto a questi istituti stanno nascendo anche case famiglia, segno e speranza d’amore per chi necessita di accoglienza.

Vivere negli internat

Basta guardarli negli occhi per intravedere le storie drammatiche che portano dentro. Bambini rimasti orfani o comunque soli, bambini che hanno visto genitori consumati dall’alcol, un male molto diffuso da queste parti. Bambini lasciati soli ad affrontare la vita. La paura è come impressa negli occhi, appena dietro il velo dell’innocenza. La maggior parte di loro ha trovato un rifugio, qui li chiamano internat, simili ai nostri istituti che per secoli hanno supplito all’assenza dello Stato. Un rifugio dove si sta un po’ stretti ma dove il rischio più grande è quello di diventare un numero, uno dei tanti. Ma almeno questi bambini hanno un tetto, un posto dove dormire, da mangiare e anche la possibilità di studiare.

Tutto questo spesso non basta a scacciare la paura, l’oscura sensazione di essere abbandonati, sopravvissuti ad un destino che si è accanito contro di loro. È una realtà difficile da raccontare, fatta di storie dolorose che spesso rimangono nascoste. Gli internat non sono il capitolo più doloroso. Anzi. Tanti altri minori vivono per strada, insofferenti alle regole e agli abusi. Un dramma che rischia di frenare lo sviluppo di un Paese appena uscito dalla gabbia di un regime che ha soffocato l’idea stessa di famiglia.

La Caritas s’impegna anche a sostenere gli internat, secondo le proprie possibilità. Ma non sempre trova la collaborazione. Spesso gli istituti sono realtà chiuse, nascondono magagne e abusi. Ma la legislazione dell’Ucraina si aggiorna velocemente, lo Stato mette a disposizione sempre più risorse per i minori. È in questo solco che è possibile costruire una futuro migliore.

Nella storia di questo Paese  c’è una triste situazione di disgregazione familiare che affonda le sue radici nell’ideologia marxista che per decenni ha rivendicato la priorità dello Stato nell’intervento educativo e che oggi viene favorita da una situazione socio-culturale segnata dall’affermazione individualista e dalle ricerche del successo.

L’esperienza delle case famiglia

La più piccola si chiama Anastasia ed ha 3 anni. Quando è venuta qui, insieme a Veronica, la sorellina di poco più grande, aveva solo un anno. Drogata e alcolizzata, la mamma ora si trova in carcere. La più grande è Cristina, 15 anni. Una delle prime ad essere accolta nella casa famiglia “San Giuseppe”, situata alla periferia di Kiev, nata pochi anni fa dal coraggio della Caritas di inventare nuove vie per rispondere al dramma dei minori. È stata la mamma a portarla qui, sapeva di non poter far nulla per la figlia. È morta qualche anno dopo.

Un dramma crescere senza genitori. Una ferita impossibile da chiudere ma da curare con tanto amore.

I bambini dicono che i genitori sono bravi”, dice suor Tatiana, come se non volessero rinunciare al sogno di stare in una famiglia, nella propria famiglia. “Pregano spesso per i genitori” chiedono al Signore di farli cambiare.Suor Tatiana di professione fa la mamma a tempo pieno, fa parte di una Congregazione nata alla fine dell’800 per i minori. Costretta per decenni a vivere in clandestinità, oggi ha ripreso la sua antica vocazione sociale aprendosi alle nuove forme. Attualmente gestisce quattro case per minori.

È giovanissima, occhi chiari e dolcissimi. Quando è arrivata in questa casa aveva 22 anni, subito dopo la professione religiosa. Sono passati sei anni. Mentre lo dice sembra che sospira, ricordando forse tutti i bambini che sono passati. Otto di loro sono tornati a casa, presso parenti. Qualcuno ha già raggiunto la maggiore età. In qualche caso i parenti vengono a riprenderli, ma spesso lo fanno solo per ricevere il contributo statale.

Dimitri viene da un internat. Era molto malato e in quella struttura non poteva essere curato, i fondi non bastavano per coprire l’intervento chirurgico di cui aveva bisogno. Ora ha superato la fase critica. Sembra malaticcio ma forse è più il volto triste ad amplificare l’idea di un bambino sofferente. In realtà, dicono le responsabili della casa, sta abbastanza bene. Sasha, invece, nove anni, si lamenta. Non si è mai adattato ad una vita comune.

Chiedo a suor Tatiana una storia. Fa difficoltà a raccontarne una. In fondo, ciascun bambino è unico e irripetibile. È come una pagina della Bibbia. Vuole piuttosto porre l’accento sul fatto che accudire è certamente faticoso ma non presenta grossi ostacoli, la sfida più difficile è quella educativa. Si tratta di riconciliare con la vita. È un impegno che accompagna tutta l’esperienza e non sai mai se hai raggiunto lo scopo.

Non diversa è l’esperienza che facciamo nella casa “San Francesco” a Yermolinze, che si trova nella provincia di Kamenets, nella parte Ovest del Paese, quella che maggiormente risente dell’influenza cattolica proveniente dalla vicina Polonia. “Buonasera”, dicono i bambini quando ci vedono entrare. Sono stati in Italia questa estate, ospiti dalla Caritas di Breganze, ed hanno imparato un po’ la nostra lingua. Ricordano molto bene tanti vocaboli e fanno a gara a dirli.




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