Qui il Vangelo sa ancora di nuovo

di Rosaria e Giuseppe Conti

Una testimonianza straordinaria vissuta da una famiglia ordinaria che si è lasciata provocare dal vangelo ed ha semplicemente sentito la responsabilità dell’annuncio della Parola “sino agli estremi confini della terra”.

Siamo Rosaria e Giuseppe Conti abbiamo tre figli Daniele, Maria e Matteo.

La nostra “storia missionaria” parte da molto lontano.

Inizia dalle nostre esperienze di impegno giovanile o forse, inconsapevolmente, dalla promulgazione dell’enciclica Fidei Donum da parte di Pio XII.

Dopo brevi esperienze in Congo, Perù e Colombia abbiamo maturato la scelta di indirizzare tre anni ad un’esperienza un po’ particolare: vivere nel quotidiano la nostra testimonianza di sposi e genitori cristiani in una parrocchia africana, dedicandoci ad un progetto di pastorale familiare a tempo pieno.

Non siamo volontari di una ONG, non siamo addetti alla cooperazione internazionale e non facciamo parte di un ordine religioso missionario: abbiamo semplicemente aderito ad un progetto della Diocesi di Milano condividendo con alcuni sacerdoti la “passione pastorale” e la responsabilità dell’annuncio del Vangelo “sino agli estremi confini della terra”.

Dal 1998 al 2001, a Garoua nel nord del Cameroun, nella parrocchia di Djamboutou, preti e laici insieme, abbiamo cercato di vivere uno stile di vita che ispirandosi alle prime comunità cristiane raccontate nel libro degli Atti, tentava di trasmettere il profumo della comunione consci che il messaggio è contagioso solo se testimoniato dal volersi bene: “da questo riconosceranno che siete miei discepoli…”.

Chi come la famiglia, che è per sua natura una fucina di affetti, può apprendere uno stile di comunione e trasmetterlo? Chi come la famiglia, che ha nel suo patrimonio genetico la vita comune, può testimoniare, educare alla condivisione?

In realtà solo l’inizio

Non è semplice raccontarsi, anzi, raccontare di un pezzo della nostra storia che pensavamo essere il culmine di un’esperienza per poi scoprire che sarebbe stata solo l’inizio. Sono passati dieci anni … e tutto continua.

Appena rientrati, una giornalista così iniziava il suo articolo: “Maria è bionda e cammina leggera nei suoi sandaletti impolverati. Gli occhi di Daniele sono grandi e “spalancati sul mondo come carte assorbenti”, come canta Guccini. Avevano rispettivamente due e otto anni quando sono partiti per il Cameroun con mamma e papà, nell’aprile 1998. hanno salutato i nonni, la loro casa di Villa Raverio, in Brianza, e sono arrivati a Djamboutou …”.  L’approccio migliore crediamo sia questo: partire dai figli, partire dalla famiglia ma a cominciare dai bambini. Sono stati loro i primi evangelizzatori, i primi missionari, loro che hanno costruito relazioni, che hanno intessuto le prime amicizie, nel cortile di casa, in parrocchia, nei villaggi della savana e soprattutto alla scuola del quartiere.

Daniele e Maria hanno svolto un ruolo prezioso semplicemente facendo … i bambini. Per la concezione africana i figli sono simbolo di prosperità, benevolenza divina, speranza, futuro.

L’Africa trasforma, regala occhi nuovi, occhi da bambini, necessari per cambiare stile di vita ed essere più felici, qui, oggi, dove siamo chiamati a vivere.

Essere sposi che annunciano

Dal Concilio in poi, non ha più senso che noi laici veniamo relegati a ruoli marginali o esclusivamente di supporto all’evangelizzazione. È essenziale invece vivere la nostra vocazione testimoniando ognuno la propria fede, nell’ambito che ci caratterizza, mettendo “a frutto” la specificità del sacramento che abbiamo ricevuto: nel nostro caso il matrimonio.

Gli anni di Djamboutou ci hanno aiutato a mettere a fuoco la nostra vocazione, metterla a nudo e riportarla all’essenziale, a ciò che, 18 anni prima forse un po’ inconsapevolmente, avevamo già scelto di scoprire. L’essenzialità africana ci ha fatto scoprire che quasi tutte le nostre esigenze sono indotte, irreali. Noi popoli ricchi e liberi siamo in realtà ingabbiati dalla complessità di rapporti e di esigenze mai soddisfatte che generano continuamente nuovi bisogni…questo è il vero sistema povero; perché non permette di raggiungere desideri, di realizzare sogni!

Vorremmo parlarvi come si parla ai propri amici, sinceramente e col cuore sereno di chi ha la consapevolezza di aver fatto un’esperienza grande che ci ha regalato sicuramente più di quanto potevamo immaginare. La missione non è un affare solo di chi parte ma, lo si voglia o no, coinvolge tutta la comunità dei credenti.

Pronti ad amare

Amare la missione significa avere la coscienza di non essere soli su questa terra, di pensare che non esiste solo la nostra bella e ricca realtà ma, al contrario, la maggior parte della popolazione mondiale vive un’esistenza non rispettosa di una dignità che ogni uomo e donna avrebbero il diritto di vivere.

Amare la missione significa sentirsi cittadini del mondo, quindi essere informati sulle scelte di politica ed economia nazionale ed internazionale, per poter valutare, decidere e quindi scegliere chi ci deve rappresentare e chi deve decidere per noi.

Amare la missione significa uno stile di vita più sobrio o meglio, più povero, consci che solo la povertà apre gli occhi ed educa al vero Desiderio che è desiderio dell’Infinito. Lo stile essenziale della povertà avvicina l’uomo a Dio, e non perché il povero sia più buono ma semplicemente perché ha più desideri: anche il figliol prodigo della parabola è ritornato al padre solo per gli immensi bisogni che solo ora scopriva di avere. Successivamente ha però potuto sperimentare la misericordia del Padre.

Amare la missione è prendere coscienza delle conseguenze di una economia e di una gestione dei soldi sconsiderata (montagne di rifiuti da smaltire anche a scapito dei paesi più poveri, aiuto diretto o indiretto a società e banche non trasparenti nella gestione della loro economia, ecc.), significa essere coscienti delle nostre scelte quando acquistiamo un’automobile o la casa o anche semplicemente quando facciamo la spesa al supermercato.

Amare la missione significa lasciarci toccare non solo nel superfluo ma condividere il nostro benessere (non ben-avere) perseguendo la vera “caritas” evangelica.

La missione si traduce oggi

Vorremmo fare qualche breve riflessione sull’esperienza vissuta. Innanzitutto ci sentiamo sereni nell’affermare che la Buona Novella è il tesoro per il quale vale la pena di lasciare tutto e partire. L’impegno per il Suo annuncio si è tradotto per noi in autentiche e concrete esperienze di Fede, per rivisitare ciò che la Parola dice alla nostra vita di cristiani, sposi e genitori. Dall’amicizia con tante famiglie camerunesi, abbiamo conosciuto il loro desiderio di un messaggio di salvezza/speranza, l’attesa di un bene più grande, l’aspirazione ad una vita nuova che scaturisce dall’incontro con il Signore Gesù. La continua provocazione dei poveri, ci ha aiutato a riflettere sulla verità della nostra presenza, sullo stile di gratuità con cui avvicinarci alla carità. La gratuità del dono senza attendersi una grande riconoscenza, purifica il cuore e avvicina alla carità di Dio.

Nell’esperienza missionaria di Djamboutou abbiamo verificato che fare pastorale a tempo pieno è stata una condizione “speciale”, un grande dono per la nostra vita di coppia e di famiglia, che ha reso questo cammino sempre più profondo e appassionato; ciò ha approfondito la consapevolezza che “la permanenza in terra di missione è a termine, ma l’impegno missionario è a vita”; come laici, nella specificità della nostra vocazione e dei nostri carismi, siamo partecipi della missione della Chiesa e ne condividiamo le responsabilità.

L’impegno continua

Oggi, dopo sette anni dal rientro, la missione continua come e in un certo senso anche più di allora.  All’attività troppo spesso frenetica di una famiglia con figli e nonni, al lavoro, alla scuola si aggiungono le molteplici attività pastorali, che rispecchiano lo stile e l’impegno tipicamente occidentali.

Ma la “strategia pastorale” appresa a Djamboutou ci ha insegnato che la quantità di attività non è direttamente proporzionale ai risultati, che la fede non si trasmette moltiplicando gli incontri, ma testimoniando la propria vocazione in modo schietto e sincero, senza cedere a compromessi e rimanendo fedeli al proprio mandato e al Vangelo.




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stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

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