In nome della legge

di Silvio Longobardi

Ci risiamo. I giudici intervengono sempre più frequentemente per modificare in modo sostanziale le leggi approvate dal Parlamento. Era già successo con Eluana: la sua sorte fu decisa da una discussa sentenza della Corte Costituzionale che, cambiando le regole del gioco, cioè bypassando la normativa vigente, affidava al Tribunale di Milano la libertà che la legge non concedeva. Era solo l’inizio di una battaglia che si combatte più nelle aule giudiziarie che in quelle parlamentari.

A marzo, una nuova sentenza della Suprema Corte, accogliendo il ricorso presentato dal Tribunale di Firenze, ha ridisegnato i confini della Legge 40: la Consulta ritiene illegittimo porre per legge il limite di tre embrioni e lascia ogni decisione al medico; ma non ha nulla da eccepire sul divieto della crioconservazione degli embrioni. La sentenza perciò non sembra avere alcun valore sul piano pratico. Al punto da far dire ad un fine giurista come Francesco D’Agostino, già presidente della Commissione Nazionale per la Bioetica, che “nella sua formulazione linguistica, la sentenza della Corte non è un modello di chiarezza”. Quella sentenza apre tuttavia un varco nel quale ben presto si sono inserite altre ordinanze. L’ultima è quella del Tribunale di Bologna, depositata a fine giugno. Secondo i giudici del capoluogo felsineo “il divieto di diagnosi preimpianto pare irragionevole e incongruente col sistema normativo se posto in parallelo con la diffusa pratica della diagnosi prenatale, altrettanto invasiva del feto, rischiosa per la gravidanza, ma perfettamente legittima”. Tale procedura perciò è del tutto “ammissibile”. Anzi, il tribunale si spinge oltre, a suo parere è perfettamente lecito “abbandonare l’embrione malato e ottenere il solo trasferimento di quello sano”. La giustizia creativa dei giudici bolognesi non si ferma qui, prevede un “numero minimo di 6 embrioni” e il conseguente e necessario congelamento “per un futuro impianto degli embrioni risultati idonei”. In altre parole, la presenza di una malattia, non importa di quale gravità, rende lecits la soppressione dell’embrione.

Eseguire questa sentenza vuol dire stravolgere completamente la legge 40, approvata dal Parlamento e ratificata da un referendum popolare. La tutela dell’embrione, che rappresenta uno dei capisaldi della normativa vigente, perde il valore assoluto e vincolante. Non si torna al far west ma senza dubbio questa sentenza innesca una retromarcia il cui esito è del tutto imprevedibile. Più che un’interpretazione, un verdetto come questo, riscrive la legge. Tutto questo è inaccettabile, aveva dichiarato il genetista Bruno Dallapiccola, all’indomani della sentenza della Corte. Le sue preoccupazioni, alla luce di quanto oggi accade, sono del tutto fondate.

La giustizia creativa si esercita anche in altri ambiti, a conferma di una particolare vocazione che affascina i giudici italiani. Il Tribunale di Venezia ha accolto e inviato alla Corte Costituzionale il quesito circa la legittimità dei matrimoni gay. Da parte sua il foro veneziano non ha alcun dubbio, nella memoria inviata alla Consulta scrive: “nell’ipotesi in cui una persona intenda contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso il tribunale non individua alcun pericolo di lesione di interessi pubblici o privati di rilevanza costituzionale”. Più chiari di così! Interventi come questi mostrano che esiste nel mondo giudiziario la tendenza a diventare avanguardia culturale, dando voce e forma alle battaglie di una precisa parte politica. È un segnale inquietante. Da non sottovalutare.




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