Famiglia e missione

Quando è una famiglia a partire per una missione ad gentes…

Piero Gheddo

di Giovanna Abbagnara

Perché una famiglia dovrebbe partire per una missione? Punto Famiglia ne ha parlato con Padre Piero Gheddo, instancabile missionario del PIME (Pontificio istituto missioni estere), pieno di grinta e di energia nonostante i suoi 60 anni di sacerdozio e una vita vissuta in giro per il mondo.

Padre Gheddo ha seguito il cammino di tante famiglie partite in missione durante il suo sacerdozio. La presenza dei missionari nei paesi poveri è per queste popolazioni un segno di speranza, la certezza che c’è qualcuno che condivide in pienezza la loro condizione e lo fa con gratuità di cuore.

Quando poi questa condivisione viene da famiglie che lasciano la loro casa spesso seguiti anche con i figli, la loro presenza suscita stupore e gratitudine. “Ricordo in modo particolare  una coppia di sposi di Verona con quattro figli adulti che è partita per la  Guinea, in una missione del Pime, il marito era ferroviere e la moglie con qualche anno di meno stava a casa ma sapeva coltivare la terra, l’orto. Quando il marito è andato in pensione a sessant’anni, a cominciato ad ammalarsi perché si sentiva inutile. Hanno incontrato un missionario del Pime che gli ha proposto di andare con lui in missione e sono partiti. In Africa hanno avviato un’attività agricola, coltivando cipolle, carote, pomodori e anche la frutta, cosa che in questo paese è raro trovare. Sono rimasti un po’ di anni, sei o sette anni, e hanno lasciato una grande eredità per la gente del posto. Ricordo anche l’esperienza di una coppia giovane partiti per la Cambogia, la moglie era infermiera, hanno lavorato per diversi anni nell’ospedale locale”. Indubbiamente la famiglia missionaria si integra diversamente con la gente del posto, spesso ha una casa molto sobria, problemi quotidiani da affrontare, la loro relazione con le altre famiglie è paritaria e il modo in cui vivono gli affetti, educano i figli, considerano il ruolo della donna, questi gesti legati alla quotidianità sono molto più eloquenti di mille parole. Inoltre nei paesi dove c’è stato un forte lavoro di cristianizzazione si sono avuti dei risultati incredibili. “Ad esempio – sottolinea padre Gheddo – le zone non cristiane sono anche quelle in cui ci sono più epidemie e più sovrappopolazione.

Dove sono arrivati i missionari molto si è fatto per la famiglia, quale cellula della società. Sono stati costruiti ospedali, scuole e posti di lavoro. Le donne sono più istruite e le malattie infettive diminuiscono notevolmente. In questo compito di educazione dei popoli la testimonianza della famiglia è fondamentale”. Nonostante padre Gheddo riconosca questo ruolo insostituibile in questi paesi, si fa però ancora molto poco per formazione degli sposi alla missione, specie scendendo alla pastorale parrocchiale. Quanti presbiteri trasmettono la necessità della missione ad gentes? Vediamo una Chiesa più ripiegata sull’assistenzialismo, sulla formazione di volontari. “Questo accade a mio parere per due ordini di ragioni – afferma padre Gheddo – innanzitutto c’è una difficoltà oggettiva perché gli sposi fanno più fatica a spostarsi per due, tre o più anni in un paese sconosciuto, per via del lavoro, della scuola dei bambini. Dall’altro abbiamo un clero troppo ingolfato dalla burocrazia. Oggi il prete non respira più. Tanta gente vuole parlare, vuole confrontarsi e non c’è il prete disponibile. Oggi ci si confessa anche poco perché non c’è più tempo, nemmeno per la direzione spirituale. Quindi, perché non si forma alla missione, perché non c’è tempo per la trasmissione di una proposta che abbia un grande respiro come dire più ampio. Noi all’interno del Pime, abbiamo l’Associazione laici Pime, che fa un incontro al mese di formazione. Partecipano adulti, giovani o famiglie che vogliono partire in missione. In estate facciamo una settimana di studio e di lavoro. Dopo quest’anno chi vuole, parte. E le assicuro sono tutti tornati rigenerati e cambiati da questa esperienza che segna profondamente il vissuto familiare”.

A differenza  delle chiese d’Europa, in Africa in modo particolare la parrocchia è tutta incentrata sulla famiglia, i catechisti quasi sempre sono una coppia di sposi: “I cristiani del Borneo sono attivi e fervorosi perché sono di recente conversione; non sono istruiti come gli occidentali, non hanno corsi, ritiri, studi, libri, ecc. Però sentono la diversità di vivere con Cristo o senza Cristo. Questo li rende entusiasti e pronti a fare grandi sacrifici per servire la Chiesa, specie per un popolo che ha il problema di provvedere non al superfluo, ma ai bisogni primari della famiglia.

Questa centralità dei laici, molto spesso è la memoria che i nostri missionari conservano e cercano di proporre ritornando alle proprie case”. Abbiamo da imparare ancora tanto, la Chiesa ha bisogno di questo respiro più ampio, lo percepiamo nell’entusiasmo ancora vivido che traspare dalle parole di padre Gheddo che non ha ancora appeso i sandali al chiodo, che non lo farà mai, sospinto dal desiderio di portare ovunque il fuoco del vangelo.




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