Il Morbo di Alzheimer

Mia suocera c’è ma non c’è più…

persona anziana

di Giovanna Abbagnara

Dimenticarsi i nomi delle cose, il proprio aspetto e quello dei familiari, i posti in cui si vive, consumando i ricordi a partire da quelli più recenti: questo è il sintomo caratteristico del morbo di Alzheimer. Una malattia che devasta la persona e i suoi familiari… chiamati a riscoprire la bellezza e la dignità di chi non c’è più come prima ma c’è e ha bisogno di tutto l’amore del mondo.

“Portami da mammella”, fino a poco tempo fa era questo il ritornello che mia suocera, ultraottantenne ripeteva a chiunque faceva capolino a casa. Voleva tornare nella campagna dove era cresciuta. Dai suoi genitori, dai suoi fratelli. La sua mente era imprigionata in quel passato, vivo, felice, colorato che era la sua infanzia. I quattro figli, i nipoti, un matrimonio di più di 40 anni, sembravano non fossero mai esistiti. 

È una condizione molto comune nei malati di Alzheimer. Poco alla volta traslocano nel passato. Il presente si sfoca. I volti sempre più indefiniti fino a non riconoscere più nemmeno i propri figli. Una malattia neurodegenerativa che colpisce nel mondo circa 7,7 milioni di persone ogni anno, 80mila in Italia. Altrettanti familiari che assistono questi malati vengono inghiottiti da una realtà parallela. Da un giorno all’altro una madre che è stata un faro, una luce, la persona a cui rivolgersi in qualsiasi momento per cercare aiuto e conforto, ti chiede come ti chiami e chi sei. Si sprofonda in una devastante angoscia. Devi reinventarti la vita a partire da quel presente che sembra dare posto solo ad un passato molto remoto. 

Mia suocera ha cominciato ad avvisare i primi sintomi del morbo quando aveva 72 anni. Piano piano le sue condizioni sono peggiorate. Anno per anno diventa sempre più difficile comunicare con lei. È chiusa in un mondo tutto suo. Solo la musica classica napoletana, che le piaceva tanto, riesce a creare un ponte con il mondo esterno. Vedo i figli soffrire molto per questa condizione. 

In questi momenti, ripenso spesso alla battaglia culturale, mediatica e giudiziaria che ha interessato DJ Fabo nei mesi scorsi sfociata con una sentenza della Corte Costituzionale che rischia di diventare la crepa attraverso la quale l’eutanasia e il suicidio assistito diventino diritto anche in Italia. Penso in modo particolare proprio a quei malati, come mia suocera, non capaci più di esprimersi, guardati con una certa diffidenza da chi li considera un peso per tutti e non vuole guardare alla loro bellezza e alla loro dignità. 

Qualche giorno fa il Papa incontrando i membri della Congregazione per la dottrina della fede ha detto che: «è chiaro che laddove la vita vale non per la sua dignità, ma per la sua efficienza e per la sua produttività, tutto ciò diventa possibile. In questo scenario occorre ribadire che la vita umana, dal concepimento fino alla sua fine naturale, possiede una dignità che la rende intangibile»”. 

Questo aggettivo intangibile mi piace molto, evoca quella purezza che il male non può e non deve macchiare. La parola deriva dal latino tangere, toccare, intangibile è qualcosa che non si può o non si deve toccare. Ogni persona in qualunque stato della sua vita vive, la sua esistenza è sacra. Sia essa nel grembo della donna che in un letto di ospedale. Non possiamo e non vogliamo pensare che una persona sia degna solo di vivere e di essere guardata solo in base ad alcuni criteri che la società impone, l’efficienza, la produttività, etc… 

La dignità è un valore assoluto e oggettivo, dunque non è legata alla capacità o meno di autodeterminarsi. È vero, è dura vedere chi si ama in quella condizione in cui ad un certo punto anche la medicina si arrende perché la malattia prevalica su tutto.  Sono i momenti in cui ti chiedi che senso ha una vita così, che valore ha un’esistenza che si spegne come una candela senza più ossigeno?

Ti chiedi anche ora che la malattia genera altre complicazioni, a cosa serve la sofferenza, tutto questo? In questi giorni ho visto dal dolore emergere barlumi di gioia: i figli, occupati sempre in mille faccende, si riuniscono, piangono insieme, si ricompongono in un unico abbraccio. Ho visto momenti di felicità per un sorriso di mia suocera riaffiorare per la vista di un nipote o per le note di una canzone. Ho visto mani stringersi e mi sono convinta che a questo dovremmo guardare e tendere, a questo vivere dignitosamente la malattia, rispettoso della persona, piuttosto che colludere con la costruzione di una società mortifera. Non è scontato e nient’affatto semplice, ma in definitiva credo che per dire di no ad ogni forma di eutanasia, occorra riscoprire il senso e il significato del dolore nella nostra vita e in quella dei nostri cari. 

Sì, perché per restare vicini ad una persona che non ti riconosce più, con la quale hai condiviso una vita, che è tua madre, bisogna rientrare in se stessi, rispondere alla domanda sul senso del dolore che ignoriamo tassativamente, fare i conti con la finitudine di questa vita e ricercare la bellezza dell’ora della sofferenza con garbo, con calma, con amore. Quell’amore che come un mantello, il pallium, avvolge mia suocera in questo lungo e freddo inverno della vita.




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