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Sport: dov’è finito il rispetto per l’avversario?

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di Gianni Mussini

Non è vero che nello sport agonistico è importante partecipare. Si partecipa per vincere, e per farlo bisogna allenarsi duramente, imparando a rispettare il proprio corpo e, ancora di più, il proprio avversario.

«Ti daghe a tuto quel che se movi su l’erba, se xè el balòn no importa», da’ un calcio a tutto quello che si muove sull’erba, se è il pallone non importa… Sono famose le parole con cui Nereo Rocco, l’allenatore del Milan vincitore di due coppe dei campioni negli anni sessanta, caricava i suoi giocatori. Dicono si tratti di parole apocrife, ma rappresentano comunque molto bene la proverbiale ironia con cui il paròn sapeva sdrammatizzare le cose. Altro aneddoto? Prima della finale di Wembley, 1963, al presidente Andrea Rizzoli che gli augurava: «Vinca il migliore!»; Rocco rispose con un fenomenale «Sperem de no!». È invece senz’altro vero, storico, quanto successe nella stessa occasione mentre andava allo stadio con la squadra: «Chi no xè [è] omo resti sul pullman», disse Rocco prima di rimettersi a sedere di fianco all’autista; così liberando dalla tensione i suoi giocatori, che infatti poi vinsero in rimonta con il gran Benfica di Eusebio e Coluna.

Perle di saggezza popolare che fanno piazza pulita della retorica decoubertiniana secondo cui l’importante non è vincere ma partecipare. Retorica coltivata, tra Otto e Novecento, in Paesi europei (come soprattutto Francia e Inghilterra) che non si peritavano di conquistare il mondo a suon di ceffoni, e peggio, pensando a vincere le loro battaglie con ogni mezzo, lecito o illecito. Non è un caso che le Olimpiadi moderne siano nate proprio in quel contesto, a creare una sottile barriera di ipocrisia in grado di proteggere i miti del nostro Occidente. De Coubertin, appunto.

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Non è vero infatti che nello sport agonistico è importante partecipare. Si partecipa per vincere, e per farlo bisogna allenarsi duramente, imparando a rispettare il proprio corpo e, ancor più, la proprio mente. Chi pratica seriamente uno sport sa che il vero avversario è se stesso: disciplina e autodisciplina, ferrei allenamenti, volontà tenace, ottimismo. Solo così si ottengono dei risultati. Senza un impegno che sappia essere determinato e persino feroce è impossibile raggiungere e superare i propri limiti, che è poi il vero obiettivo dello sport agonistico. Ferocia? Il braccino corto di certi fallimenti, in qualsiasi sport, deriva proprio dalla mancanza di questa ferocia: è dunque una forma di inconsapevole viltà che va combattuta e corretta.

Oltre al proprio io c’è però naturalmente anche l’avversario, che ci stimola a dare il massimo. Per questo è proprio lui, l’avversario, la realtà più nobile di un’azione sportiva. Senza Bartali, Coppi non sarebbe stato Coppi, e viceversa; lo stesso si può dire per Federer e Nadal, Rivera e Mazzola, Prost e Senna, e tanti altri. L’avversario va rispettato e, addirittura, esaltato anche per una forma di amor proprio: se ha battuto uno bravo come me deve essere un superman, come lo sono io se ho vinto contro un formidabile antagonista come lui…

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Eccoci al punto. Capisco bene che, nell’atleta e a maggior ragione nel tifoso (che vive una rappresentazione mentale, dunque un po’ drogata, dell’evento) la tensione possa giocare qualche scherzo e che perciò qualche intemperanza, magari qualche sana parolaccia, possa rientrare in uno specifico genere letterario che si esaurisce al termine del match. Trovo invece inaccettabile, incivile, addirittura disumano prendersela con l’avversario che – come ho appena detto – è quanto di più nobile esista per uno sportivo.

Ciò vale naturalmente anche per i tifosi. Ho trovato disgustoso il recente spettacolo di una parte del pubblico presente all’autodromo di Monza che ha sonoramente fischiato il vincitore Lewis Hamilton, reo di essere stato più bravo di Sebastian Vettel approfittando dei colpevoli errori della Ferrari. Così come ho trovato ignobili i fischi all’inno nazionale svedese prima della partita che ha visto la nostra nazionale eliminata dai Mondiali; e come ritengo incivile l’andazzo – ormai diffuso – di fischiare sistematicamente gli avversari (specie nelle partite di calcio). Beninteso, i fischi ci possono stare, non siamo a un ballo delle debuttanti; ma devono essere pochi e bene indirizzati. Così come il classico e ormai patetico «arbitro cornuto» ci può scappare una volta tanto, ma senza altre beceraggini e soprattutto senza odio.

Dopo la famosa e sfortunatissima finale di Champions League di Istanbul (2005), quando il Milan fu rimontato pur avendo giocato una meravigliosa partita ed essendo stato in vantaggio per 3-0, i giocatori rossoneri furono accolti all’aeroporto da un gruppetto di tifosi milanisti che rancorosi pretendevano che i giocatori chiedessero scusa. «Scusa di che?», disse Maldini, forse il più grande di quella squadra. Il quale infatti due anni dopo, contro lo stesso Liverpool, poté alzare la gran Coppa, stavolta dopo una partita poco brillante del suo Milan: ma gli dei del calcio l’avevano misteriosamente indirizzata in modo da correggere l’ingiustizia di due anni prima.

Chissà se lo avranno capito quei tifosi ingiusti e maleducati?

 




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